Istituzioni
Le istituzioni sono complessi durevoli di valori e norme che definiscono e regolano, in modo indipendente dall’identità degli individui che ne fanno parte, i rapporti sociali ed i comportamenti reciproci di un determinato gruppo di soggetti la cui attività è volta a conseguire un fine socialmente rilevante.
Il matrimonio, ad esempio, definisce e regola, indipendentemente dall’identità degli sposi, da un lato, i rapporti tra i due coniugi e i loro comportamenti reciproci – come l’obbligo di fedeltà e di assistenza – dall’altro, i rapporti ed i comportamenti che gli altri devono tenere nei loro confronti. E’ un’istituzione con il fine sociale della cura dei componenti della famiglia – in una società cattolica, soprattutto dei figli.
Albert Camus, Mi rivolto dunque siamo
La natura sovraindividuale, “metafisica”, della rivolta nell’esordio de L’homme revolté . Uno stralcio del saggio di Cristina Cecchi su Camus e Holloway pubblicato da Micromega.
«Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi».
La rivolta è una negazione che afferma. È un No che libera da per rendere liberi di. È destruens e construens in un unico movimento. Il No può essere pronunciato silenziosamente oppure ad alta voce; in ogni caso, il primo destinatario di questo messaggio è l’individuo stesso che lo emette. Il No consegue a una subitanea presa di coscienza e stabilisce il limite che l’individuo non può tollerare venga oltrepassato senza che i suoi propri diritti siano violati. Perciò è negazione e insieme affermazione:
«Così, il movimento di rivolta poggia, ad un tempo, sul rifiuto categorico di un’intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa di un buon diritto, o più esattamente sull’impressione, nell’insorto, di avere “il diritto di…”. Non esiste rivolta senza la sensazione d’avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione» [Albert Camus, L’uomo in rivolta, 1951]
La rivolta è il moto che nasce dalla ripulsa provata al cospetto di una condizione ritenuta ingiusta e che si sviluppa per opporre ciò che è preferibile a ciò che non lo è. Si insorge non solo per rivendicare una condizione migliore per se stessi: la rivolta, benché nasca in quanto c’è di più strettamente individuale nell’umano, è superamento dell’individuo in un bene ormai comune, perché affermazione di un diritto che trascende il singolo; l’insorto agisce, anche a costo della sua stessa vita, in nome di un valore (relativo, ovviamente) che sente di condividere con tutti gli umani.
Senso comune
«Lei trova affascinanti, sexy gli uomini che indossano una divisa?». «Aveva la biancheria intima?»«Quando era in discoteca ha dato una o due carezze ad un carabiniere?».«Ha un fidanzato?». «Ha insistito silenziosamente, con gesti e parole, perché uno insiste a un no…»«Cosa diceva esattamente la sua amica quando urlava? Erano urla di parole o semplicemente urla di dolore?».Questa potrebbe la sceneggiatura di un film erotico anni Settanta: due donne in libera uscita incontrano due avvenenti carabinieri in cerca di calore femminile.Purtroppo, però, non si tratta di finzione narrativa.Queste sono parte delle 250 domande sottoposte alle due studentesse americane di 20 e 21 anni violentate a settembre scorso da due carabinieri di Firenze, P. Costa e M. Camuffo. 250 domande fatte dai due avvocati della difesa, G. Carta e C. Menichetti, per un totale di 12 ore e 22 minuti di interrogatorio davanti al giudice Mario Profeta, il quale è dovuto intervenire per stabilire l’inammissibilità di numerosi quesiti presentati dai due avvocati.Il tratto voyeuristico e ingiurioso delle domande sollevate è usato per non dover guardare “l’elefante” della violenza avvenuta. I due avvocati preferiscono indagare la presenza o meno di slip, se le due ragazze hanno magari subito il fascino della divisa e se il dissenso si è manifestato in modo abbastanza esplicito, perché d’altronde «uno insiste a un no».Non c’è che dire: la concezione estremamente retrograda della donna si accompagna benissimo alla loro totale mancanza di deontologia professionale.Non ci resta che augurare ai due avvocati di riprendersi e ricordarsi che siamo nel 2018, dal momento che ci fanno venire il dubbio di essere rimasti sintonizzati sul 1918.
Publié par Senso Comune sur dimanche 18 février 2018
Francesco Lizzani, Contrappello ai docenti italiani
Per un nuovo 89, 77, 68, 17, l’appello di Francesco Lizzani, professore di Filosofia e Storia al Plauto di Roma, al Terzo stato dell’istruzione:
con una classe cosiddetta dirigente di tale leva non è più il tempo per i cahiers de doléances; nulla potremo più ottenere per una vera buona scuola da questo ceto di governo parassitario e ignorante. È tempo ormai di riprendere in mano il nostro destino comune, di riunire in un fronte comune il nostro “ordine” nella sua interezza, dalla scuola primaria all’università, di riconoscere il nostro “Terzo Stato” come unico e legittimo rappresentante dell’istruzione italiana e dei suoi interessi comuni, contro gli altri due Ordini (quello dei politici-demagoghi e quello della burocrazia pervasiva) che hanno scippato le chiavi di casa nostra, e trasformato il nostro esercito in una massa di manovra per ordini sbagliati e contrari alle finalità per cui siamo (mal) retribuiti.
In coda altre lotte per le stesse ragioni: la battaglia persa dagli insegnanti messicani nel 2006 e quelle vinte dalla scuola canadese e dagli insegnanti di Chicago nel 2012.
Seicento docenti universitari si sono appellati al governo per denunciare la diffusione di lacune ormai ai limiti dell’analfabetismo nell’italiano degli studenti che approdano alle loro aule. La notizia sorprende non certo per il problema, con cui il mondo della scuola si confronta da anni, ma perché il grido di allarme si leva ora dal piano più alto del sistema formativo. Come’è possibile, in effetti, che il progresso secolare della scolarizzazione e poi dell’informazione globale producano un effetto simile?
Marco Romito, Classificare e competere. La scelta della scuola superiore e l’ossessione per il ranking
Un prezioso studio sociologico dedicaro al significato del ranking scolastico e della falsa neutralità di strumenti come Eduscopio, la cui logica di funzionamento agisce da moltiplicatore delle diseguaglianze. Tratto da Lavoro culturale.org.
Entro la fine della giornata chiunque abbia un figlio o una figlia iscritti all’ultimo anno della scuola media, dovrà effettuare l’iscrizione a una scuola superiore. Si tratta di un momento nei percorsi scolastici di migliaia di ragazzi e ragazze spesso enfatizzato, caricato di significati fatali e fatalistici, del quale tuttavia non vengono quasi mai approfondite e indagate le motivazioni. Cosa sappiamo di come viene effettuata la scelta della scuola superiore?
Sappiamo che la scelta della scuola superiore condiziona la qualità dell’esperienza scolastica, culturale e relazionale dei ragazzi e delle ragazze, le probabilità di abbandono scolastico, le probabilità di accesso al mondo universitario, quelle di conseguire una laurea, il tipo di carriera occupazionale a cui si potrà avere accesso[1].
Franco Lorenzoni, I voti e le bocciature fanno male agli studenti e alla scuola
Nel cinquantennale della Lettera ad una professoressa, la riflessione di un maestro sull’isteria valutativa e sulla fabbrica di impotenze apprese che, per l’effetto, la scuola, non soltanto Primaria, sta inevitabilmente diventando. Tratto da Internazionale 10 febbraio 2017.
Insegno nella scuola elementare da 38 anni e continuo a domandarmi come sia concepibile affibbiare a un bambino un voto in geografia, italiano o matematica nei primi anni di scuola. A chi stiamo dando quel voto? Al grado di istruzione della sua famiglia? Al grado di ascolto che hanno avuto le sue prime parole a casa? Alle esperienze che ha avuto la fortuna di fare? Al destino che ha fatto giungere proprio qui la sua famiglia da campagne analfabete o dalle periferie di qualche megalopoli africana o asiatica?
Commenti recenti