La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari porta alla luce l’internamento di centinaia di ex-partigiani nell’Italia del dopoguerra. In Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio [Feltrinelli 2015], Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, uno scrittore e un magistrato, hanno raccontano gli atti del manicomio criminale di Aversa. Tratto da Carmilla.
Al termine del secondo conflitto mondiale, in quel periodo complesso che vede l’Italia transitare verso la democrazia, la magistratura processa centinaia di ex partigiani per reati commessi durante la lotta al nazifascismo e nell’immediato dopoguerra. Questa situazione contraddittoria è favorita dalla mancata epurazione fascista (magistrati, funzionari, poliziotti del passato regime non vengono rimossi dai loro incarichi) e condizionata dall’avvio di una nuova fase storica, la Guerra fredda, appena cominciata.
La fallita estromissione di personalità colluse con la dittatura consente un clima di rivalsa e di pregiudizio antiresistenziale, che si concretano nell’uso strumentale del dispositivo giuridico. In estrema sintesi, «il sistema giudiziario rimane quello forgiato nel Ventennio». Per tutelare gli antifascisti incriminati, gli avvocati della difesa ricorrono alla seminfermità mentale, suggerendo il manicomio come alternativa al carcere. L’accorgimento si rivelerà ben presto controproducente. Nel 1946, l’amnistia Togliatti, da cui la detenzione manicomiale è esclusa, genera uno scenario paradossale ma emblematico: la scarcerazione per i fascisti e l’esonero dall’indulto per i partigiani reclusi in manicomio. Riguardo poi l’applicazione dell’amnistia, fin da subito cifre e modalità parlano chiaro:
«Il 30 giugno 1946, a otto giorni dall’emanazione, l’amnistia Togliatti è stata applicata a 7106 fascisti e a 153 partigiani. La giustizia della neonata Repubblica italiana, con una mano rialza i collaborazionisti, con l’altra percuote i partigiani».
Nel saggio Un’odissea partigiana, Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano focalizzano la loro attenzione sull’Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario) di Aversa; avvalendosi di fonti inedite, i due autori ricompongono le esistenze drammatiche dei “pazzi per la libertà”, riportando alla luce una vicenda ignorata che racconta la storia di una sotterranea e persistente guerra civile.
Nelle prime pagine del saggio affrontate l’argomento della fallita epurazione fascista nell’immediato dopoguerra. Perché il processo di defascistizzazione non si è realizzato?
Il fascismo è durato vent’anni, ha imposto l’identità tra partito e nazione, tra fazione e patria, è caduto per una guerra persa e non per una rivoluzione… In un primo tempo, sin dal 1944, la nuova classe dirigente voleva attuare un’estesa epurazione, che avrebbe coinvolto milioni di persone, poi, gradualmente, gli elementi di continuità dello Stato si sono imposti e nell’apparato pubblico sono tornati o sono rimasti in servizio i magistrati, i poliziotti e i prefetti che avevano servito Mussolini con zelo repressivo. Si sarebbe invece dovuto puntare in modo selettivo ai vertici: gerarchi e alti funzionari in primis. Ad un anno dalla fine della guerra, l’amnistia Togliatti ha praticamente chiuso la questione, grazie ad interpretazioni incredibilmente estensive da parte della magistratura che – guidata dalla fascistissima Corte di Cassazione – prosciolse fior di criminali. Ci fu dunque, dentro la discontinuità fascismo/democrazia, la continuità istituzionale sul piano delle carriere dei funzionari pubblici e il mantenimento in vigore di norme liberticide quali il Codice penale emanato dal guardasigilli Alfredo Rocco nel 1930: venne parzialmente modificato soltanto nel 1955 e sostituito da un nuovo Codice nel 1988.
Chi sono i “pazzi per la libertà” che finiscono reclusi nell’Opg di Aversa?
Nel 1943-45 ci fu, nell’Italia centro-settentrionale, una guerra civile feroce, che non terminò d’incanto il 25 aprile. Il ritorno alla civile convivenza fu un processo travagliato, nel quale si esercitarono anche vendette di vario genere. Gli avvocati di numerosi giovani partigiani accusati di omicidio per episodi accaduti durante la guerra o a ridosso della Liberazione, chiesero per i loro assistiti il riconoscimento della seminfermità mentale, per diminuire la pena detentiva. L’evoluzione degli eventi dimostrò che questo calcolo era errato: l’amnistia Togliatti ridusse o cancellò la pena detentiva ma non incise sulla pena accessoria dei 3 o dei 5 anni di detenzione in manicomi criminali. Di conseguenza, persone assolutamente sane di mente dovettero sperimentare la detenzione in strutture assai peggiori del carcere, in località assai lontano da casa, trovandosi isolate in una situazione pazzesca…
L’internamento manicomiale di soggetti invisi al regime fascista era una pratica consolidata. Rispetto a tali prassi detentive, l’Italia postbellica presenta corrispondenze con il fascismo?
Il ventennio mussoliniano ha rappresentato un sensibile arretramento sul piano delle istituzioni repressive, adattate ai progetti del potere e gestite con raffinata e quotidiana crudeltà. Diversi oppositori politici furono rinchiusi in manicomio… Il ritorno alla democrazia non rappresentò, almeno nel medio termine, il superamento di quei metodi: manicomi e carceri continuarono a risentire del clima e delle normative d’epoca fascista. La classe politica repubblicana non giudicò una priorità le riforme delle “istituzioni totali”. Soltanto negli anni ’60, dapprima con il centro-sinistra e poi sull’onda della contestazione operaia e giovanile, si modernizzarono strutture dove ancora persisteva la visione mussoliniana.
L’impegno solidaristico di Angelo Jacazzi è stato fondamentale per i partigiani reclusi ad Aversa. Precisamente, che ruolo ha svolto Jacazzi in queste tragiche vicende?
Angelo Jacazzi, all’epoca giovane segretario della sezione di Aversa (Caserta) del Partito comunista, ha svolto un importante lavoro, solidarizzando con gli ex partigiani internati nel manicomio della sua città: li ha rincuorati, ne ha segnalato la situazione ai parlamentari della sinistra e ai comitati di solidarietà, ha rappresentato il tramite tra i “pazzi per la libertà” e le loro famiglie. Negli ultimi anni, accortosi che quell’esperienza era assolutamente sconosciuta, ha consegnato al magistrato Nicola Graziano il suo archivio, con i carteggi e varia altra documentazione sulla preziosa intermediazione da lui attuata su base volontaria, per altruismo. Partendo da quel materiale, abbiamo reperito ulteriore documentazione e scritto il libro.
A pag. 204 scrivete «La storiografia ha sino a oggi ignorato il fenomeno dei “pazzi per la libertà”, confinato entro il recinto delle vicende personali e dei lutti familiari […]». Il vostro saggio può dirsi esaustivo o l’argomento deve essere ulteriormente indagato?
Questo è un lavoro esplorativo. Il magistrato Nicola Graziano ed io abbiamo intrapreso e indicato una nuova strada. Il libro, nella parte preponderante, si basa sull’analisi del materiale conservato nell’ex manicomio criminale di Aversa. Attraverso l’esame di ogni altro archivio degli Opg (enti in via di smantellamento), sarà possibile arricchire il quadro, individuando una quantità di situazioni che ci costringono a rivedere il giudizio sull’Italia che, ufficialmente nata dalla Resistenza, usava il pugno di ferro contro ex partigiani e la carezza verso ex fascisti. Odissea partigiana ha insomma la funzione di apripista. D’altronde abbiamo già avuto riscontri in questo senso, ad esempio su ricerche ora avviate presso l’ex manicomio di Reggio Emilia.
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