Intervista a Laura Guazzone, docente di Storia contemporanea dei paesi arabi presso l’Istituto italiano di Studi Orientali all’università Sapienza di Roma. «Estremisti in ascesa, dopo che si è negata l’opzione dell’Islam moderato». Tratto da Il Manifesto.
Professoressa, partiamo dall’inizio: quando ci si riferisce all’Islam moderato, cosa si intende e come si pone di fronte a questi eventi?
Sull’espressione Islam moderato ci sono molti fraintendimenti, come capita di sovente in dibattiti complessi. A volte questi fraintendimenti sono ingenui, a volte sono manipolatori; bisogna partire dal chiarire un punto, ovvero: quando parliamo di Islam moderato andrebbe chiarito se si sta parlando in senso religioso o se parliamo di Islam moderato in senso politico. Le due espressioni possono coincidere ma non necessariamente. Se ragioniamo sulle forme di dialogo o di contenimento rispetto alle varie forme di Islam questi elementi vanno chiariti.
In senso teologico per Islam moderato intendiamo tutte quelle correnti, movimenti e istituzioni che danno un’interpretazione moderata alla sharia, che – va ricordato — non è un testo o un codice di legge, ma qualcosa di più complesso, perché si tratta di una collazione dei precetti dal 600 dc a oggi che sono stati dedotti dal testo del Corano e della Sunna, la vita del profeta. Da questi sono stati tratti dei precetti, che possono essere interpretati in modo diverso.
La distinzione si fa su molte questioni fondamentali, la più importante è relativa alla concezione di quali siano le punizioni legittime dei diversi crimini individuati dalla legge islamica. Ad esempio c’è una differenza enorme sul comportamento contro gli apostati, chi da musulmano abiura l’Islam. Secondo i radicali, Isis e anche al Qaeda, tutti gli apostati sono passibili di morte, anzi devono essere messi a morte. L’Islam moderato invece dà una interpretazione radicalmente opposta nelle sue conseguenze, perché con sfumature differenti predica la necessità di contenere e al massimo prevede un allontanamento dall’apostata dalla comunità. Anche in senso puramente culturale e religioso senza nessuna conseguenza di pena, tanto meno capitale.
C’è poi quanto è basato su comportamenti politici, e spesso intendiamo questo per Islam moderato. Ovvero coloro che praticano il loro essere islamici in campo politico con modalità riformiste o rivoluzionarie, che possono essere anche in forma armata (quella che noi chiamiamo la guerra santa). In questo senso l’Islam moderato include tutto l’Islam istituzionale, autorità religiose riconosciute dai governi e riconosce come legittimo il sistema politico esistente.
Nell’Islam moderato e quindi nelle sue scuole, le università, i tribunali – l’influenza delle istituzioni islamiche nei sistemi giudiziari o dell’istruzione dei paesi arabi è differenziata nei modi ma sostanzialmente simile -, nelle sue posizioni ideologiche, di solito ci si riconosce la stragrande maggioranza dei musulmani. Il problema che nasce è politico, perché questo sistema è usato dai regimi al potere, per mantenere il proprio potere ed è quindi all’antitesi di un Islam che pur essendo di opposizione è moderato. Parliamo dei movimenti riconducibili ai Fratelli musulmani, l’insieme dei movimenti islamisti.
Sono movimenti di opposizione in senso politico, ma sono da considerarsi moderati, perché sostengono la via riformista al cambiamento, per via elettorale fin dagli anni ’30, fin dalla fondazione dei Fratelli musulmani in Egitto. Moderato anche nel senso ideologico, che ha posizioni religiose anche moderate e diverse dai movimenti radicali.
Questa distinzione è importante, perché quando riflettiamo sull’Islam politico consideriamo un tutt’uno tutto lo spettro delle organizzazioni che vanno dai moderati agli estremisti. Se non facciamo queste distinzioni, se non capiamo la prospettiva interna, mettiamo nello stesso calderone movimenti che intendono agire in quanto musulmani, finiamo per mettere l’islam moderato con i movimenti più insurrezionalisti, in particolare del mondo arabo.
In che modo la preclusione alla rappresentanza politica, in Egitto ad esempio, comporta un vantaggio per l’estremismo?
Dobbiamo riflettere su un punto poco percepito: è stato negato – e in questo i regimi arabi sono stati sostenuti dagli occidentali — all’ala moderata dell’Islam politico di divenire un attore legittimo del gioco politico dei singoli paesi arabi. Un attore che se il gioco è democratico poteva anche essere un’alternativa di governo nell’alternanza democratica.
Aver negato questo ha molto semplicemente chiuso un’opzione, ha formato una diga che ha precluso la canalizzazione della domanda dell’islam moderato che c’è in tutte le società musulmane, ha precluso la possibilità che questa domanda si traducesse nella formazione di un sistema rispettoso dei valori islamici fondamentali, ma riformista.
C’è stata una repressione di questi movimenti – dalla cancellazione della vittoria islamista agli inizi degli anni 90 in Algeria, alla negazione della vittoria politica di Hamas nei territori nel 2006 che ha portato alla spaccatura della leadership palestinese — quando hanno avuto un successo anche elettorale, come nel caso più recente dell’Egitto. Sono arrivati dunque interventi di vario tipo proprio di quei regimi (con il sostegno attivo delle potenze occidentali) che i moderati avrebbero sostituito. Impedire che l’islam divenisse un elemento “normale” nella vita politica araba (come è avvenuto ad esempio in Tunisia, dove nel 2011 gli islamisti ottennero la maggioranza, e le elezioni dopo l’hanno persa) ha bloccato questo sbocco della volontà e del desiderio di gran parte della società araba.
I movimenti moderati sono entrati in un declino cui è corrisposta l’ascesa dei movimenti radicali. Questi movimenti nascono e crescono già negli anni 90 in reazione a quella globalizzazione neoliberista e alla diseguaglianza crescente. Movimenti che sono cresciuti e che oggi risultano più attraenti per i giovani, proprio perché vincenti, rispetto ai moderati cui è stata preclusa la via riformista.
In che modo questo attentato e quello di Beirut cambiano il rapporto sciiti-sunniti e come può essere letto nella più generale strategia dell’Isis? (se ad esempio è una risposta alle vicende della guerra tra Siria e Iraq dove sembra che l’Isis abbia perso posizioni, seppure minime, quanto meno la continuità territoriale dopo Sanjar)
Sulla questione più contingente, più legata a una strategia di penetrazione di conquista dei musulmani, soprattutto quelli arrabbiati che non sono pochi, gli attacchi in Europa sono un elemento potentissimo di propaganda, rispetto ai movimenti riformisti che non sono riusciti a ottenere neanche i loro obiettivi minimi nei paesi arabi.
La percezione dunque è che con la paura questi movimenti radicali impongono il rispetto dell’islam. L’attacco in Europa ha un significato di rilancio, non credo per l’eventuale difficoltà strategica sul campo (che è tutta da verificare), significa rilanciare la posta verso i potenziali adepti del mondo arabo, quelli delusi dall’azione dei movimenti riformisti, è un atto di forza.
Se pensiamo al giuramento di fedeltà del califfo da parte di una fazione dei talebani afghani, siamo totalmente ancora in fase di espansione del sostegno e di egemonia dell’Isis sull’islam radicale. Si tratta di un rilancio in un momento di forza, per aumentare lo scontro perché si hanno le forze per farlo, con implicazioni pericolose, come fosse una tappa di una strategia che prevede un’escalation.
Per quanto riguarda il rapporto sciiti-sunniti, Isis nasce da uno scontro ideologico e politico con al qaeda e il distacco politico nasce in buona parte non solo in campo ideologico proprio per il rapporto con gli sciiti. Per al qaeda sono simili agli apostati perché non riconoscono appieno l’unità divina, ma non sono un nemico da combattere sempre e a oltranza, mentre lo sono per i movimenti di cui fa parte l’Isis.
Cosa comporta questo attacco per la comunità islamica in Europa? Come si potrebbe evolvere il rapporto istituzioni europee e comunità islamica?
L’osservazione che mi sento di fare è che abbiamo una visione molto strabica anche al riguardo. L’Islam in Europa non è la quinta colonna dei movimenti attivi nei paesi musulmani, perché si inserisce in un altro gioco, è una partita diversa.
Le comunità musulmane sia di recente immigrazione, sia quelli di seconda e terza immigrazioni non dipendono soltanto dai loro legami con i movimenti di origine. C’è un elemento che non guardiamo mai: tutta quella costruzione di discorso sull’Islam europeo che è fatta dai movimenti xenofobi in Europa e come hanno indebolito le capacità delle politiche di integrazione da parte dei singoli paesi europei.
Nell’italia berlusconiana le politiche di integrazione, i soldi spesi per creare centri culturali si sono azzerati. L’Islam della comunità europea è sottoposta alla spinta aggressiva sia della destra, sia dalla penetrazione dell’islam radicale. Le capacità di difesa sono indebolite dalla cancellazione delle politiche di integrazione e dall’indebolimento dell’idea di Europa integrata democraticamente. Noi parliamo di prevenzione sempre in senso poliziesco, in realtà facciamo sempre troppo poco e sempre meno per l’integrazione dell’islam in Europa come parte dell’integrazione in europea.
16 novembre 2015
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Francia, il fallimento dell’opzione militare. Analisi. E’ tempo di interrogarsi sull’uso sistematico della guerra. Tratto da Il Manifesto.
Mai, nella sua storia, la Francia ha subito, in una sola sera, attentati così devastanti: oltre 125 morti e un centinaio di feriti gravi; mai si erano verificati attentati-suicidi. Contrariamente all’attaco contro il settimanale Charlie-Hebdo e contro il supermercato kosher a gennaio del 2015, sono stati presi di mira luoghi pubblici, scelti non per il loro carattere simbolico, ma perché erano, di venerdì sera, molto frequentati e perché si poteva provocare il maggior numero di vittime.
Che l’emozione domini in tali circostanze, è normale, ma questo non deve impedirci di riflettere e di analizzare quel che è successo con la necessaria distanza.
Il clima politico interno rischia tuttavia di impedire questa riflessione. Diversamente dal momento degli attacchi contro Charlie-Hebdo, l’appello all’unità nazionale non funziona. Una escalation si è innescata nel campo della destra, segnatamente in vista delle regionali di dicembre: che rischiano di vedere il Front National di Marine Le Pen impadronirsi, per la prima volta, della presidenza di alcune di queste.
Altri dirigenti «scivolano» a loro volta nell’islamofobia. Philippe de Villiers, presidente del Mouvement pour la France, non ha esitato ad attribuire questo «immenso dramma di Parigi», al «lassismo e alla “moscheizzazione” della Francia».
Quanto al numero 3 del partito Les Républicains (il partito di Nicolas Sarkozy), Laurent Wauquiez, ha chiesto un Patriot Act alla francese e la reclusione di «4.000 persone schedate per terrorismo» nei «centri d’internamento».
L’aggravarsi dell’islamofobia, la messa in questione delle libertà fondamentali costituirebbero però una vittoria degli autori degli attentati.
Un’altra dimensione degli avvenimenti riguarda la politica estera di Parigi su cui sarebbe necessario avere un dibattito franco e sereno. Se la Francia è particolarmente presa di mira, è perché, insieme agli Stati uniti, è la più impegnata militarmente all’estero, dal Mali alla Siria, dal Centrafrica all’Iraq.
Ora, il bilancio della «guerra al terrorismo» scatenata dopo l’11 settembre e rilanciata dopo la conquista di Mosul da parte dello Stato islamico (Isis), nell’estate del 2014, è disastroso.
Il suo fallimento è evidente: mai sono stati commessi tanti attentati, spesso negli stessi paesi musulmani – negli ultimi mesi soltanto, l’attentato di Ankara, l’attacco contro l’aereo russo sopra il Sinai o gli attacchi suicidi a Beirut in una periferia popolare, per non parlare dei numerosi attentati in Iraq.
E mai così tante persone, soprattutto giovani, si sono arruolate nei gruppi estremisti, che si tratti di al-Qaeda o dell’Isis, convinte di participare alla resistenza contro un’aggressione internazionale diretta al mondo musulmano.
Non è tempo di interrogarsi sull’uso sistematico della guerra? Se è necessario sradicare l’Isis, al di là dei bombardamenti spesso inefficaci, non si dovrebbe privilegiare l’azione politica per ricostruire un Medioriente trascinato in una spirale di caos, in particolare dopo l’intervento nordamericano in Iraq del 2003?
Non sarebbe tempo di promuovere un’azione coordinata delle potenze regionali che, ognuna alla loro maniera, hanno aggravato il conflitto siriano? La riunione di Vienna del 14 novembre che ha visto la partecipazione di tutte le potenze segna, forse, un passo nella giusta direzione.
E’ più che mai arrivato il tempo di spingere realmente per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, che passa per la fine dell’occupazione israeliana.
Rifiuto dei tentativi di dividere la popolazione francese – tra musulmani e non musulmani, tra immigrati e francesi -, priorità alla politica e alla diplomazia sulle bombe in politica estera, questa dovrebbe essere la strategia della Francia.
* Giornalista, animatore della rivista online OrientXXI.info
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