In greco antico il termine pharmakon aveva due significati principali: «cura» e «veleno». Indicava tanto quelle sostanze in grado di dare sollievo, curare e guarire, tanto quelle che avvelenavano, guastavano e deturpavano.
Il pharmakon forza sempre la natura e produce un processo «innaturale», che impedisce alla malattia di compiere il proprio decorso, eventualmente destinato alla morte del portatore.
Il pharmakon è contemporaneamente curativo e velenoso proprio perché interferisce nell’ordine delle cose, anche quando agisce per «sanare»: ogni micro-spostamento produce una serie indefinita di micro e macro cambiamenti dagli effetti imprevedibili.
È con questa comprensione nel cuore, spiega Derrida in La farmacia di Platone, che nel mito il dio Theuth dona al faraone Thamus la scrittura, e la descrive come «farmaco della memoria»: ogni volta che si affida un concetto alla scrittura si deve mettere in conto che, a differenza di quel che accade con l’oralità, succederà qualcosa di imprevisto, uno spostamento dei tasselli con cui è composta la realtà. Con il pretesto di supplire la memoria, la scrittura rende ancora più smemorati; ben lungi dall’accrescere il sapere, lo riduce. Si comporta dunque proprio come qualsiasi altro pharmakon.
Tratto da Tlon.
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