Cultura, diversità, culturale, inculturazione

by gabriella

Clyde Kluckhohn, Cultura e diversità culturale

In questo frammento de Lo specchio dell’uomo, l’antropologo americano si sofferma sull’apparente stranezza dei costumi degli Altri.

Kamikaze giapponese

L’antropologia fornisce una base scientifica per trattare il cruciale dilemma del mondo attuale: come possono popoli di aspetto diverso, di lingue reciprocamente inintellegibili o di diversi sistemi di vita coesistere pacificamente? […] Perché il latte e i latticini non piacciono ai cine­si? Perché i giapponesi accettano volentieri di mo­rire in una «carica della morte» che sembra senza senso agli americani?

Perché alcuni popoli calco­lano la discendenza attraverso il padre, altri attra­verso la madre e altri ancora attraverso ambedue i genitori? Non perché popoli diversi abbiano istinti diversi, non perché fossero destinati da dio o dal fato a diverse consuetudini, non perché il clima sia diverso in Cina, in Giappone e negli Stati Uniti. Tal­volta il perspicace senso comune ha una risposta che è vicina a quella dell’antropologo: «perché sono stati allevati così». Per «cultura» l’antropologia in­tende il complesso del modo di vivere di un popolo, il patrimonio sociale che l’individuo riceve dal suo gruppo. Oppure la cultura può essere considerata quella parte dell’ambiente che è creata dall’uomo.

Questo termine tecnico ha un significato più ampio che non «cultura» in storia e in letteratura. Un umile recipiente da cucina è un prodotto cul­turale tanto quanto una sonata di Beethoven. Nel linguaggio corrente un uomo colto è quello che sa parlare lingue diverse dalla sua, che conosce la sto­ria, la letteratura, la filosofia o le belle arti. In qual che cerchia la definizione è ancora più ristretta. La persona colta è quella che sa parlare di James Joyce, Scarlatti e Picasso. Per l’antropologo, tuttavia, cul­tura significa umanità. C’è la cultura in generale e poi ci sono le culture specifiche, come quella russa, americana, inglese, ottentotta, inca. Il concetto generale astratto serve a ricordare che non possia­mo spiegare degli atti solamente in relazione alle caratteristiche biologiche del popolo in questione, alla loro esperienza individuale e alla situazione immediata. Sotto forma di cultura l’esperienza passa­ta di altri uomini entra in quasi ogni avvenimento.

Ciascuna cultura specifica costituisce una specie di marchio di fabbrica per tutte le attività della vita. […]  Anche quelli di noi che più si vantano del proprio individualismo, seguono per la maggior parte del tempo un modello che non è di loro fabbrica­zione. Ci laviamo i denti quando ci alziamo. Met­tiamo le mutande e non un perizoma di pelle o una gonna d’erba. Consumiamo tre pasti al giorno, non quattro o cinque o due. Dormiamo in un letto, non in un’amaca o in una pelle di pecora. La donna occidentale aborrisce «istintivamente» un sistema di vita poligamico. Non può capire come vi siano donne che possano non essere gelose e inquiete se devono dividere il marito con altre donne. Trova che è «contro natura» accettare una situazione del genere. D’altra parte una donna koryac della Siberia, per esempio, troverebbe dif­ficile comprendere come si possa essere così egoiste e così poco desiderose di compagnia femmini­le in casa da voler costringere il marito ad avere una sola compagna.

Alcuni anni or sono incontrai a New York un giovane che non sapeva una parola di inglese ed era evidentemente sconcertato dalle usanze ame­ricane. Di «sangue» era americano, perché i suoi genitori si erano trasferiti dall’Indiana alla Cina. Rimasto orfano da bambino, era stato allevato da una famiglia cinese in un villaggio sperduto. Tutti quelli che lo incontrarono lo trovarono più cinese che americano. Gli occhi azzurri e i capelli biondi non contavano molto di fronte al suo modo cine­se di camminare, ai movimenti cinesi del viso, al modo cinese di pensare. L’eredità biologica era  americana, ma l’educazione culturale era cinese. Ritornò in Cina.

 

Esercitazione

Leggi il brano e sintetizza in una breve registrazione l’argomento di Kluckhon, provando anche a descrivere qualche modello culturale dell’ambiente in cui vivi.

 

Melville Herskovits, Inculturazione

Herskovits mostra come la cultura non sia un dato biologico, ereditato dai genitori, ma sia oggetto di apprendimento in quanto membro di un gruppo.

Melville J. Herksovits (1895-1963)

In queste pagine sono discussi insieme i con­cetti riguardanti la natura, le forme e il funzio­namento della cultura, in modo da presentare la teoria della cultura che ha costituito la base della nostra analisi. Elenchiamo qui di seguito, nella forma più concisa possibile, le proposizioni che possono essere astratte da quest’analisi:
1) la cultura è appresa;
2) la cultura deriva dalle componenti biologiche, ambientali, psicologiche e storiche dell’esi­stenza umana;
3) la cultura è strutturata;
4) la cultura si divide in aspetti;
5 ) la cultura è dinamica;
6) la cultura è una variabile;
7) la cultura mostra uniformità che ne permet­tono l’analisi con i metodi della scienza;
8) la cultura è lo strumento mediante il quale l’individuo si adatta al suo ambiente complessivo e si procura i mezzi necessari per l’espressione creativa. […]

1) La cultura è appresa
Definita come la parte dell’ambiente fatta dall’uomo, la cultura è essenzialmente un costrutto che descrive il corpo complessivo delle creden­ze, del comportamento, della conoscenza, delle sanzioni, dei valori e degli obiettivi che contrad­distinguono il modo di vita di un popolo. Ciò vuol dire che, per quanto la cultura possa essere trattata dallo studioso come suscettibile di una descri­zione oggettiva, in ultima analisi essa comprende le cose che le persone hanno, quelle che fanno, ciò che esse pensano. Quando ci chiediamo come le persone pervengono alle forme di credenza e di comporta­mento che contraddistinguono il loro modo di vita, la risposta può essere trovata nel processo di apprendimento, inteso in senso lato. Esso in­clude sia quelle reazioni al condizionamento a livello inconscio, mediante cui nel bambino in via di sviluppo vengono fissati i modelli fondamentali del gruppo, sia quelle forme di istruzio­ne recepite più consapevolmente che chiamiamo «educazione».

Questo processo di apprendimento della pro­pria cultura è stato designato col termine «inculturazione»; è l’inculturazione che ci permette di spiegare il fatto che una cultura mantiene una forma riconoscibile di generazione in genera­zione. Ciò avviene perché ogni essere umano nasce in un gruppo i cui costumi e le cui credenze sono stabilite prima che egli compaia sulla scena. Me­diante il processo di apprendimento egli acquisi­sce questi costumi e queste credenze; egli impa­ra le sue lezioni culturali talmente bene che gran parte del suo comportamento negli anni succes­sivi assume la forma di risposte automatiche agli stimoli culturali che gli si presentano. L’incultu­razione è realizzata in larga misura attraverso il simbolismo del linguaggio, che viene a costituire un «indice della cultura» in senso più profondo di quanto di solito non ci si renda conto. Questo processo è straordinariamente sottile e influenza perfino certi aspetti del comportamento come i diversi tipi di abiti motori o le reazioni emotive a situazioni di tensione. Il processo ha una por­tata così vasta che risulta ormai evidente come la personalità stessa dell’individuo sia in misura considerevole il risultato della sua esperienza inculturativa.

Gli elementi comuni nell’inculturazione dei membri delle generazioni successive di un grup­po danno alla loro cultura l’apparenza di una tale continuità che si è attribuita alla cultura una spe­cie di esistenza indipendente. Questa posizione è rafforzata dalla considerazione di un fenomeno come la corrente culturale, che ha condotto alcuni studiosi ad attribuire alla regolarità del mutamen­to culturale una inevitabilità che si ritiene scatu­risca dagli impulsi interni di una cultura, senza al­cun riferimento a – o con scarso riguardo per – gli esseri umani.

 

 

Esercitazione

Rifletti sul processo di inculturazione e commenta in circa 1200 battute (20 righe, 60 battute l’una) le conclusioni di Herskovits: i singoli individui subiscono o possono dar luogo a cambiamenti culturali?

 

Alfred Kroeber, Significato e origine del concetto di cultura

Mi propongo di discutere il concetto di cultura –  la sua origine e la sua validità, il suo uso e i suoi limiti. Come ogni concetto, anche questo è uno strumento; e come strumento, il concetto di cultura è a doppio taglio. Esso collega certi fenomeni e certe interpretazioni, ne differenzia e ne distingue altri: ma di ciò diremo più avanti. Come tutte le idee importanti, l’idea di cultura è il frutto dell’elaborazione di molti, e si è sviluppata gradualmente. Vi sono ancora grandi nazioni civili, per esempio la Francia, che rifiutano di accogliere la parola «cultura» nel proprio vocabolario intellettuale. D’altra parte, gli antichi conoscevano (e i primitivi in epoca moderna ne sono consapevoli) alcuni fenomeni della cultura –  per esempio, i costumi distintivi.

«Noi non facciamo così, facciamo in quest’altro modo»:

Auguste Comte (1798-1857)

quest’affermazione, che probabilmente ogni essere umano prima o poi fa, rappresenta il riconoscimento di un fenomeno culturale. I fenomeni hanno un modo di presentarsi composito, intricato. Le loro qualità, e più ancora i loro aspetti generali concettualizzati, possono essere districati soltanto gradualmente dal guscio delle apparenze. Fino al secolo XIX inoltrato, e in certe situazioni e in certi contesti fino ad oggi, il concetto di cultura è rimasto confuso con quello di società. Quando Comte fondò la sociologia e ne coniò il nome più di un secolo fa, impresse su di essa il marchio del sociale. Ma i suoi ben noti tre stadi della mitologia, della metafisica e del positivismo sono stadi in primo luogo di ideologia, e quindi stadi di cultura. Soltanto incidentalmente essi sono stadi di relazioni specificamente sociali o inter-personali. Questo riferimento essenziale alla cultura piuttosto che alla società vale ancor più per le caratterizzazioni delle differenze tra cattolicesimo e protestantesimo e per centinaia di altre considerazioni specifiche di Comte.

Émile Durkheim (1585 – 1917)

Quando uno studioso originale e penetrante come Durkheim ipostatizza la società come ciò da cui furono impressionati i primi gruppi e che essi adorarono, dando così origine alla religione, egli enuncia una concezione che è sembrata a  giudizio di tutti stiracchiata, e a molti mistica. Ma non appena sostituiamo all’entità indifferenziata della «società» i  costumi e le credenze che tengono unite le società primitive e sembrano aiutarle a sopravvivere –  in altri termini la loro «cultura» –  l’interpretazione di Durkheim comincia allora ad apparire ragionevole. Sembra corretto supporre che è questo che Durkheim «voleva dire», quello che direbbe oggi.

È prevedibile che, entro un certo limite, la mancata differenziazione dei due aspetti sia destinata a continuare, dato che per definizione la cultura include, o quanto meno presuppone, la società. In quanto essa è qualcosa di condiviso e di sovraindividuale, la cultura può esistere solamente quando esiste una società; e inversamente ogni società umana è accompagnata da una cultura. Questo reciproco non ha certamente un valore assoluto: esso si applica soltanto alle società umane. In linea di principio, la limitazione è però estremamente importante. L’esistenza di società subumane prive di cultura o praticamente prive di cultura, in particolare di quelle altamente elaborate degli insetti sociali, serve da pietra di paragone inoppugnabile per discriminare in modo significativo il concetto di sociale e quello di culturale: essi possono esistere indipendentemente. In ogni caso, uno di essi esiste indipendentemente.

Aristotele (384-322 a.C.)

La parola «sociale» è in se stessa una denominazione relativamente recente. Il termine romano era civilis, civitas, da civis, cittadino, che corrisponde alla definizione aristotelica dell’uomo come zoòn politikòn «animale politico» –  animale civile per i romani, animale sociale per noi. Naturalmente le istituzioni erano implicite nel termine «animale politico», e con ciò vi era implicita la cultura, ma non come concetto a sé stante, coagulato. Questi antichi termini mediterranei sono illuminanti del modo in cui idee astratte traggono origine da una matrice concreta. Quando Aristotele voleva parlare genericamente di ciò che noi chiamiamo «società» e «cultura», usava la parola polis, che recava ancora con sé l’immagine della cittadella e delle mura, dei liberi cittadini aventi titolo a votare e a combattere.

La parola «cultura» nel suo senso scientifico moderno, cioè nel senso in cui qualsiasi antropologo, per esempio, la userebbe con la sicurezza di chi condivide un concetto che ogni altro antropologo intende, è ancora più recente. La prima definizione di «cultura» in questo senso ampio ma determinato dell’uso corrente della scienza sociale –  in quanto distinta da coltivazione e da raffinamento, da educazione, da  agricoltura e da perlicoltura e dalle colture in provetta –  la prima definizione da me trovata in un dizionario inglese risale alla fine degli anni venti del ‘900. La prima volta che il termine venne deliberatamente impiegato in un libro fu nel 1871, quando Tylor pubblicò Primitive Culture e formulò la più spesso citata delle definizioni della cultura, che comincia con le parole «quell’insieme complesso che include…».

Edward B. Tylor (1832 – 1917)

È chiaro che Tylor si rendeva conto di introdurre il termine, così come era consapevole di usare «cultura» e «civiltà» come sinonimi nel suo discorso. Per l’esattezza, egli aveva già impiegato qualche volta la parola «cultura» come esitante alternativa a «civiltà», e nello stesso senso, ma senza darne una definizione, l’aveva usata sei anni prima nelle sue Researches, come per sperimentarla sul pubblico inglese. Egli potrebbe averla desunta dall’etnografo tedesco Klemm, da lui letto e citato. Klemm scrive la parola con la C (Cultur) tanto nel suo libro del 1843 quanto in quello del 1854. In quel periodo la parola era nell’uso corrente della lingua tedesca con il suo senso moderno, e non fu affatto considerata un neologismo. Non so con precisione quanto indietro nel tempo risalga la parola tedesca Cultur nel suo significato scientifico moderno. Kant la usa ripetutamente nell’Anthropologie, ma è estremamente difficile stabilire se egli pensi alla cultura nel nostro senso oppure nel senso di diventare più colto.

 

Esercitazione

 

Print Friendly, PDF & Email


Comments are closed.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: