I maschi greci sopportavano anche dolorose operazioni chirurgiche pur di ostentare un prepuzio conveniente a un uomo libero.
E’ un tratto biologico dell’homo sapiens il fatto che, in gioventù, quella parte del pene che chiamiamo prepuzio assuma una notevole lunghezza, sino a più di tre quarti di quella del pene. Questo fatto anatomico non è privo di conseguenze culturali o artistiche. Nella sua ricerca sulle immagini genitali nella pittura vascolare greca, Kenneth Dover nota come le rappresentazioni di soggetti interessanti, virtuosi, eroici o divini mostrino sempre un prepuzio di lunghezza impressionante. Potrebbe trattarsi di un preciso riferimento a una norma etica, un tratto culturale fortemente radicato, centrato su un’idealizzazione del pene; oppure, in altre immagini, la rappresentazione realistica di un prepuzio deliberatamente allungato. In ogni caso, un prepuzio ben proporzionato, per i greci, era molto lungo, con una caratteristica forma conica o tubolare.
Lo speciale valore attribuito dai greci al prepuzio è rispecchiato nella letteratura medica. Galeno, nel De usu partium corporis humani (11.13), lo pone nella categoria degli ornamenti:
La natura è prodiga di ornamenti, soprattutto nell’uomo. Molte parti del corpo umano hanno una funzione ornamentale, anche se questa è spesso nascosta dalla loro funzione. Le orecchie, ad esempio, mostrano un’evidente natura ornamentale e così è, suppongo, anche per il prepuzio e per la carne delle natiche.
In effetti, vorrei dimostrare che la preferenza estetica per un prepuzio lungo e affusolato era il riflesso di un ethos più profondo che coinvolge l’identità culturale, la moralità, la correttezza, la virtù, la bellezza e la salute. E per contrasto, la violazione di questo ethos causata da un prepuzio carente era affrontata con rimedi individuali, politici, legali e medici. Come spesso è accaduto, la medicina sosteneva i valori culturali e le loro applicazioni politiche.
La lingua greca rifletteva queste valutazioni con una terminologia molto precisa. I greci consideravano il prepuzio formato da due parti distinte: il posthe designava la pelle che ricopre il glande, anche se a volte si usava questa parola per intendere tutto il prepuzio o l’intero pene. L’akroposthion indicava invece la porzione di forma conica e tubolare che si estende oltre il glande e termina con l’orifizio prepuziale.
Il laccio del cane
L’associazione fra un lungo prepuzio e la rispettabilità era così forte che i greci usavano prendere una serie di provvedimenti per evitare un’indesiderata esposizione del glande. Il kynodesme, ad esempio, letteralmente il “guinzaglio del cane,” consisteva in una sottile striscia di cuoio legata attorno all’akroposthion così da impedire che il glande potesse in alcun modo diventare visibile. Il kynodesme poteva a sua volta essere annodato alla base del pene, conferendo a quest’ultimo il tipico aspetto arricciato visibile in numerose statue, oppure legato attorno alla vita, assicurando così l’immobilità dei genitali.
La legatura dell’akroposthion con il kynodesme è spesso confusa con l’infibulazione prepuziale, che aveva scopi diversi ed era attuata per via chirurgica tramite piercing del prepuzio e l’inserzione nei buchi così creati di un fermaglio metallico (la fibula), sempre per assicurare la chiusura del prepuzio. Celso, che scrisse le sue opere durante il regno di Tiberio (14-37 d.C.) descrive l’infibulazione degli adolescenti praticata “per motivi di salute”, senza accenni all’aspetto del pene.
I dipinti su vaso e le sculture mostrano con frequenza atleti nudi che indossano il kynodesme. Data la frequenza con cui questo appare nelle scene sportive, alcuni studiosi hanno ipotizzato che esso fosse indossato solo durante le gare atletiche. Ma Paul Zankler, nel suo saggio su La maschera di Socrate, ha dimostrato come il kynodesme fosse portato regolarmente, non solo dagli atleti. Lo indossano i comuni cittadini, i comasti, e a volte persino i satiri, anche se in questo caso l’intento può essere umoristico, indicando il loro impossibile tentativo di somigliare a un cittadino.
Per coloro che indossavano permanentemente il kynodesme, la continua trazione dell’akroposthion si tramutava in un allungamento permanente, salvando al contempo l’estetica e la morale.
Chirurgia plastica maschile
La medicina greca considerava come condizione patologica, sotto il nome di lipodermos (letteralmente “mancanza di pelle”), un pene non completamente ricoperto a causa di una congenita insufficienza dell’akroposthion, e numerosi sono i rimedi elaborati dai medici greci e poi romani.
Anazarbus Dioscoride (41-68 d.C.) in Materia Medica raccomanda le proprietà curative e lenitive del miele in combinazione con ripetuti impacchi con acqua calda per rendere la pelle più morbida e permettere così l’allungamento del prepuzio. Nel De compositione medicamentorum generi capite, Galeno consiglia l’uso della tapsia (una pianta erbacea della famiglia delle ombrellifere) e suggerisce prolungati impacchi con una preparazione a base di tapsia, pepe nero, grasso di vitello, incenso, balsamo, resina di pino e cera d’api. Sorano di Efeso, medico sotto i regni di Traiano e Adriano (98-138 d.C.), nella sua Ginecologia, giustifica gli interventi sul prepuzio solo per motivazioni estetiche, non quindi igienico-sanitarie. Consiglia comunque alle balie di massaggiare periodicamente il neonato lipodermico, tirandogli la pelle e legandola con un filo di lana sino ad ottenere la lunghezza desiderata (ovviamente liberandolo ogni tanto perché potesse orinare).
In alternativa a queste blande manipolazioni, in De metodologiche medendi, Galeno propone una serie di metodi di trazione e tensione, applicabili soprattutto durante la giovinezza. Il primo consiste nell’avvolgere intorno alla circonferenza del pene una protesi formata da strisce di papiro forte e ancora morbido, dopo aver ricoperto la pelle con una sostanza collosa, così da mantenerla aderente alle strisce.
Fissando l’estremità dell’intelaiatura di papiro alla estremità del prepuzio, il lento restringersi del papiro trascinerà con sé la pelle, allungandola. Un secondo metodo prevedeva di posizionare sul glande un piccolo ma pesante oggetto di piombo, attorno al quale si poteva tendere la pelle da allungare fissandola alla fine con un kynodesme. Si tratta di metodi tutto sommato efficaci, data la particolare plasticità della pelle nella zona prepuziale, e non molto diversi dai sistemi ancora oggi praticati nella chirurgia estetica del pene.
Interventi chirurgici
Come estremo rimedio, Celso nel De medicina (7.25.1) descrive un’operazione di chirurgia plastica per correggere un akroposthion troppo corto.
Dapprima si compie una incisione circolare sulla pelle alla base del pene, poi si tira la pelle staccata sino a coprire abbondantemente il glande e si impedisce che ritorni nella posizione precedente legando con un filo il prepuzio sporgente. Nel giro di qualche settimana la crescita naturale delle pelle avrebbe ricoperto la carne rimasta scoperta alla base del pene ricostituendo così la completezza dell’organo genitale.
Celso raccomanda di eseguire l’operazione da giovani, sia per approfittare della maggior plasticità del corpo infantile, sia per evitare la possibilità di avere un’erezione durante la lunga convalescenza. Si tratta di un intervento doloroso ma tutto sommato semplice e di probabile successo, se si tralascia il rischio di infezioni.
Circoncisione e castrazione
L’intensità con cui i greci stimavano la lunghezza del prepuzio è pari a quella con cui ne esecravano la mutilazione praticata in certe comunità, rimanendo sempre profondamente scettici riguardo alle motivazioni rituali addotte a giustificazione.
Erodoto (484-420 a.C.) nelle sue Storie attribuisce l’uso della circoncisione agli abitanti della Colchide [l’attuale Georgia], agli etiopi, ai fenici, ai siriani, ai macroni [una tribù dell’attuale Turchia], oltre che alla casta dei preti egiziani. In un passo molto citato descrive il loro mondo alla rovescia. Nel resto del mondo i preti hanno i capelli lunghi, ma in Egitto si radono il cranio; nel resto del mondo le persone vivono separate dagli animali, ma in Egitto convivono, e così via sino al più paradossale dei comportamenti:
Tutti i popoli, a parte quelli influenzati dagli egiziani, lasciano i loro genitali nella condizione naturale, ma gli egiziani praticano la circoncisione.
La ragione di tale assurdo comportamento sta, secondo Erodoto, nel loro igienismo, giustificato da una religiosità maniacale, che li porta a “apprezzare la pulizia più della decenza”.
Scrittori più tardi, come Diodoro Siculo (90-27 a.C.) e Strabone (58 a.C.-25 d.C.) terrorizzano i loro lettori con racconti di mutilazioni genitali praticate da numerosi popoli, sia gli egiziani e gli ebrei, sia tribù cavernicole attorno al Mar Rosso, le quali amputerebbero non solo il prepuzio ma anche il glande e persino l’intero pene (Geografia, 16,4,5). Dato che il nome della pelle tagliata nella circoncisione, il posthe, indicava anche l’intero pene è comprensibile come non si facesse distinzione fra circoncisione e castrazione. Sigmund Freud ha sottolineato la tendenza ad equiparare le due cose, suggerendo anche che la circoncisione possa essersi sviluppata come ritualizzazione e più blando sostituto di una castrazione primitiva. In effetti, per i greci e i romani entrambe le mutilazioni sembravano costituire il massimo dell’insensatezza, della barbarie, dell’eccesso e della depravazione.
È comprensibile quindi come la conquista del Medio Oriente da parte di Alessandro Magno diede origine al tentativo dei Seleucidi [la prima dinastia ellenistica] e poi degli amministratori romani di estirpare ogni forma rituale di mutilazione genitale maschile.
Nel quadro di un programma di ellenizzazione della Giudea, la circoncisione fu posta fuori legge da Antioco Epifane (215-164 a.C.). Sotto il suo regno, a Gerusalemme si
mettevano a morte le donne ebree che avevano fatto circoncidere i loro figli, con i loro bambini appesi al collo (1 Macc. 1, 60-62).
E più tardi in epoca romana, Tacito (55-120 d.C.) riprende la strategia interpretativa per “ribaltamento” inaugurata da Erodoto nel trattare della circoncisione ebraica, inserita in una lista di costumi abominevoli e depravati.
Là, in Giudea, sono empie le cose che presso di noi sacre e, viceversa, lecito quanto per noi aborrito. Mangiano separati, dormono divisi; benché sfrenatamente libidinosi, si astengono dall’accoppiarsi con donne straniere, ma fra loro l’illecito non esiste. Hanno istituito la circoncisione per riconoscersi con questo segno particolare. Chi adotta i loro costumi, segue la medesima pratica, e la prima cosa che imparano è disprezzare gli dèi, rinnegare la patria, spregiare genitori, figli e fratelli (Le storie, 5.5).
In questo periodo la circoncisione è ormai intesa come un segno identitario di appartenenza esclusivo degli ebrei. Nel Satiricon di Petronio, ad esempio, si legge: “Circoncidici, così che possiamo sembrare ebrei” (102.14).
La de-circoncisione
La chirurgia ricostruttiva del prepuzio si sviluppò presso gli ebrei per sfuggire alle persecuzioni, non solo in Palestina. Nel 19 d.C., ad esempio, Tiberio espulse 4.000 ebrei da Roma mandandoli in Sardegna in supporto all’esercito.
In altri casi, però, fu scelta come spontanea adesione alla cultura ellenistica, oppure ancora come libera scelta d’ordine religioso da parte di alcuni ebrei cristianizzati. Certamente si poneva il problema della partecipazione degli atleti ebrei alle gare sportive, in cui la nudità era obbligatoria. Dato che la circoncisione impediva l’uso del kynodesme, la visione dei loro genitali non trattenuti durante la corsa aveva per gli spettatori un effetto ridicolo e grottesco. A questi problemi accenna più di una volta san Paolo, per negare ogni valore alle pratiche di ricostruzione.
“Qualcuno è stato chiamato quando era circonciso? Non faccia sparire la sua circoncisione. Qualcuno è stato chiamato quand’era incirconciso? Non si faccia circoncidere” (1 Cor. 7, 18). Ed anche: “La circoncisione non conta nulla, e la de-circoncisione non conta nulla; ma ciò che conta è l’osservanza dei comandamenti di Dio” (1 Cor. 7, 19).
Nel primo Libro dei maccabei si ricorda come i filoellenisti giudei
costruirono una palestra in Gerusalemme secondo le usanze pagane, cancellarono i segni della circoncisione e si allontanarono dalla santa alleanza (1 Macc. 1, 15).
Il più semplice metodo per la restaurazione di un prepuzio circonciso era il pondus judaeus, ovvero un peso di bronzo o rame fissato alla pelle, così da tirarla verso il basso. Ma ove questa strategia non fosse possibile si poteva ricorrere a una rischiosa e complessa operazione di de-circoncisione descritta da Celso nel De medicina.
In questo caso, infatti, oltre all’allungamento forzato della pelle ottenuto con il taglio e stiramento, come nel caso dei lipodermici, si tratta di ricostruire il prepuzio nella sua tipica forma. Il che era ottenuto operando un’incisione in senso verticale della pelle tale da permettere l’inserimento di una temporanea protesi di gesso modellata in modo tale da favorire il ripiegamento della pelle. Era un’operazione molto dolorosa e costosa; coloro che vi si sottoponevano erano chiamati in ebraico meshukim, ricuciti.
Un’ultima fonte importante è Filone d’Alessandria (20 a.C.-50 d.C.), il filosofo ellenistico di cultura ebraica, cui si deve il tentativo di giustificare la circoncisione sia per motivi igienico-sanitari sia soprattutto per motivi etici. Facendo appello a valori su cui anche i greci potevano convenire, egli afferma infatti che l’intervento ha prima di tutto un significato simbolico:
Un taglio netto con la dinamica dei piaceri che ottenebrano la mente, tramite la mutilazione rituale dell’organo responsabile di tali tendenze.
Ma questa prospettiva di conquistare una moralità per via chirurgica sembrava ai greci paradossale e assurda, prima di tutto dal punto di vista scientifico, perché la mancanza di adeguata copertura del glande si traduce in una crescita della lascivia.
F.M. Hodges, The Ideal Prepuce in Ancient Greece and Rome: Male Genital Aesthetics and Their Relation to Lipodermos, Circumcision, Foreskin Restoration, and the Kynodesme, in “The Bulletin of the History of Medicine”, vol. 75, 2001.
Tratto da Diogene N° 25
http://www.diogenemagazine.eu/home/index.php?option=com_content&view=article&id=575:il-prepuzio-del-buon-cittadino&catid=4:articoli-in-prima-pagina
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