La maggiore virtù del suo confuso progetto di “riforma” sarebbe consistita, sosteneva Profumo, nel non apportare ulteriori tagli alla disastrata situazione dell’università italiana. É anche incauto, il pasdaran della meritocrazia. La spending review ha riportato le cose a posto ed ecco, tra imbarazzi e parziali retromarce, un’ennesima sostanziosa sforbiciata a formazione e ricerca. Al malato terminale non viene concessa nemmeno la morfina per alleviare il dolore. L’eutanasia sarebbe decisamente consigliabile, e se non dolce la morte segnerebbe almeno la fine dell’agonia.
Ma la tragedia ha, da tempo, ceduto il passo alla farsa: così, mentre si toglie l’ossigeno, infuria il dibattito tra gli addetti ai lavori sulla valutazione. I problemi dell’università non sono lo smantellamento strutturale, gli oltre 60.000 precari senza prospettive, la dequalificazione dei saperi, l’impasto di potere feudale e tendenze aziendaliste, bensì gli “sprechi” e la “corruzione”. La ricetta è, ovviamente, l’istituzione di “oggettivi” meccanismi di valutazione. Monti e Profumo fanno bella figura, Giavazzi è contento, i baroni stanno tranquilli perché, ancora una volta, l’attenzione è distolta: i mali da combattere sono, infatti, individuali e mai sistemici. Come chiamare tutto questo se non populismo tecnocratico, cifra e sostanza dell’attuale governo?
Tutti noi dobbiamo il nostro benessere sociale ed economico agli sforzi delle innumerevoli generazioni dei nostri antenati. È palesemente disonesto predicare che il reddito rifletta una distribuzione meritocratica, che coloro che diventano ricchi lo fanno grazie al loro merito e impegno. In una certa misura, qualcuno fa meglio di altri col duro lavoro e la vivacità d’ingegno. Ma l’eredità collettiva è qualcosa che nessuno di noi, individualmente, ha donato alla società. È la ricchezza che essa rappresenta a dover essere condivisa.
Guy Standing
Demagogia prêt-à-porter
Quale sia la strategia delle politiche universitarie in Italia, se è lecito usare una parola così impegnativa per le mediocrissime figure di destra e di sinistra che si sono succedute al Miur, l’abbiamo da tempo ipotizzato (la stessa riforma Fornero potrebbe essere letta in questa direzione): ricollocare il ruolo del paese nella divisione cognitiva del lavoro, facendone una sub-area con ambizioni ridimensionate e scarso investimento in innovazione e ricerca, in grado di competere sul costo di una forza lavoro dequalificata o pagata come tale, intensificando la produzione specializzata in segmenti particolari della filiera transnazionale e riservandosi alcune nicchie di cosiddetta “eccellenza”. Da questa strategia di dismissione si salveranno solo i “meritevoli”, magari per dare il loro contributo alle punte del made in Italy, dalla Ferrari a Slow Food, oppure per andare a scoprire qualche nuovo bosone nei centri di ricerca anglosassoni o indiani.
Proprio sulla meritocrazia (rimandiamo all’articolo di Niccolò Cuppini Merito e formazione su uninomade.org) il profumo di continuità è lampante. Non è solo ideologia, ma una mistificazione specifica del capitalismo cognitivo in crisi: è un dispositivo che, a partire da elementi materiali, organizza un ordine del discorso legato agli interessi particolari dei difensori dello status quo. La condizione di precarietà e impoverimento non dipenderebbero quindi dai rapporti di produzione e sfruttamento del sistema universitario, ma dall’esistenza di singoli corrotti che ne impediscono il corretto funzionamento. Nella rappresentazione pubblica queste mele marce crescono a tutti i livelli della struttura e, dunque, a tutti i livelli vanno indiscriminatamente colpite: lo studente fuoricorso, il dottorando improduttivo, il precario fannullone, il docente assenteista. Il motto è: siamo tutti uguali davanti allo spreco!
La soluzione è, allora, una misura della produttività del lavoro accademico. Già da tempo il dibattito sui criteri di valutazione nei modelli sviluppati di corporate university, segnatamente nel mondo anglosassone e nei sistemi accademici a esso ispirati, è estremamente ampio. Il punto chiaro è, comunque, l’inesistenza di indicatori universali e super partes. Come si fa, ad esempio, a giudicare come produttivo l’accumulo di brevetti e copyright, quando è ormai chiaro perfino a incalliti neoliberali come la proprietà intellettuale finisca per bloccare quella cooperazione sociale di cui la produzione di ricerca e saperi si nutre? Incuranti o all’oscuro di tutto ciò, nella provincia italiana è stata creata dal ministro senza qualità Fabio Mussi – alla faccia degli sprechi che si vorrebbero combattere – l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). Il fatto che il suo consiglio direttivo sia nominato dal governo già la dice lunga sulla sua presunta indipendenza. Ancora una volta, si innestano i meccanismi aziendalisti anglosassoni in un sistema feudale, per giunta senza finanziamenti: se in Gran Bretagna si dice “publish or perish”, qui si muore comunque.
Proprio sulle pubblicazioni, individuate come un indicatore fondamentale, è l’Anvur a decidere quali riviste siano meritevoli. La misura della produttività non corrisponde al giudizio sul valore del testo pubblicato (che già, di per sé, è tutt’altro che oggettivo), ma all’accreditamento scientifico del luogo che lo ospita, il che dipende esclusivamente dalle gerarchie di potere editoriali e universitarie.
Facciamo un esempio: un articolo sull’accelerazione della crisi economica che contribuisce a coglierne attualità e tendenze pubblicato su un sito aperto a processi di verifica e dibattito collettivo non avrà alcun valore; l’esatto contrario avviene per un articolo completamente sbagliato congelato nella peer review per un paio di anni e infine pubblicato su una rivista accademicamente prestigiosa, circoscritta a quelle elite del mainstream economico che della crisi sono complici. Un altro dei criteri di valutazione usati è, poi, quello delle citazioni: è noto che all’interno delle lobby disciplinari ci si cita a vicenda, aumentando il valore dei singoli membri e quello della cordata nel suo insieme. Se la misura è artificiale, in modo altrettanto artificiale può essere moltiplicata.
Non solo allora la quantità va a discapito della qualità, ma possiamo affermare che la misura della meritocrazia – tesa all’individualismo competitivo – è un blocco alla produttività del sapere, basata sulla cooperazione sociale. In questa insistenza sugli indicatori oggettivi di valutazione, si profila una caratteristica che va al di là del contesto universitario: alligna quella stessa idea di neutralità del sapere che è essenza e giustificazione del governo “tecnico”. Se si tagliano salari e servizi, se si impongono austerità e sacrifici, è perché sono i mercati a chiederlo. Se studenti e precari non hanno prospettive nell’università, è semplicemente perché non se le sono meritate. I rapporti di sfruttamento svaniscono, il potere si fa astratto e disincarnato. Il cerchio si chiude, la mistificazione è completa.
Precari senza alleati
La meritocrazia è perciò l’equivalente del cottimo nel sistema di fabbrica, uno strumento di divisione e segmentazione della forza lavoro cognitiva. La carta “IoMerito” di Profumo ne è una caricaturale esemplificazione: più la cooperazione è centrale nei processi produttivi, più il valore deve essere misurato su base individuale. La retorica della fuga dei cervelli è, in fondo, imprigionata in questa logica: come se il problema della precarietà non riguardasse milioni di lavoratori che faticano ad arrivare alla fine del mese, ma pochi geni potenziali a cui viene impedito di vincere il premio Nobel.
In questo quadro, bisogna allora distinguere una critica conservatrice al sistema della valutazione, portata avanti dai baroni che non vogliono si ficchi il naso nel loro autogoverno (per quanto continuino a tenere saldamente in mano le redini della decisione sui criteri proposti dall’Anvur), da una critica trasformatrice, capace di mettere in discussione alla radice l’economia politica dei saperi di cui quel sistema è espressione. É possibile un’alleanza tattica? Si ripresenta il problema già emerso nel periodo dell’Onda. All’epoca la scelta di una parte di movimento di attestarsi sulla difesa dell’università pubblica ha finito per abbandonare un pezzo maggioritario di quella composizione (che nell’università pubblica vede esclusivamente la riproduzione dei rapporti feudali) alle perverse forme del giustizialismo meritocratico anziché alla costruzione di nuove istituzioni. Da quel nefasto arretramento alla stretta di mano al custode della costituzione Napolitano il passo è stato breve e, purtroppo, devastante.
Il fantasma dell’accademia
Oggi, scommettendo su un possibile autunno di lotte, non si può ripetere lo stesso errore. Da un lato, i dispositivi di valutazione non vanno solo rifiutati, ma inflazionati: trasformati, cioè, in un campo di battaglia in cui affermare nuove “misure” del sapere, cooperative e comuni. Dall’altro, è necessario agire sulle fratture della fantomatica “comunità accademica”: da una parte vi è chi governa la strategia di dismissione, dall’altra i produttori di formazione e ricerca. Questi, a loro volta, non si distinguono solo tra strutturati e non strutturati: anche il precariato universitario si stratifica, tra le molteplici figure della ricerca e della docenza e gli studenti. Vi è pure una stratificazione generazionale, a grandi linee su tre livelli. Coloro che oggi hanno tra i 35 e i 45 anni hanno vissuto in prima persona la chiusura degli spazi e fatto i conti con una precarietà che, lungi dalla tradizionale gavetta, è diventata elemento permanente. Oscillano, in modo ambivalente, tra una speranza individuale nel barone di riferimento e una disillusione che fatica a farsi terreno di mobilitazione generale. Il secondo livello (gli attuali laureati, dottorandi e post-dottorandi) è più pragmatico e disincantato: qui l’avversione per il sistema di potere esistente può prendere le forme, opposte, della meritocrazia o della ricerca di autonomia. L’ansia per il futuro di questi due livelli del precariato non riguarda invece il terzo, quello emergente: i giovani precari di seconda generazione si sono da subito socializzati in un ambiente di declassamento e blocco della mobilità sociale, il presente è ab origine costituito da rarefazione dei diritti e discontinuità salariale. Di quello che può succedere anche i più avveduti consiglieri del principe iniziano ad avere paura: non è un caso che, a fronte del prevedibile aumento delle tasse e, soprattutto, dell’ormai evidente asciugamento delle sacche di welfare famigliare a disposizione delle nuove generazioni di precari, è previsto dalla spending review un piccolo esborso per il prestito d’onore (leggi: l’italica traduzione del sistema del debito). In tendenza, sono proprio i precari di seconda generazione che possono diventare soggetti centrali della lotta contro un dispositivo, quello meritocratico, che perde qualsiasi efficacia a contatto con chi si socializza nella precarietà permanente.
Commenti recenti