Enrico Berti, L’etica delle virtù e l’educazione del futuro

by gabriella

In questo importante intervento, Berti discute i presupposti particolaristici dell’«etica delle virtù» alla luce del testo aristotelico, prendendo posizione nel dibattito tra comunitarismo e liberalismo, contro il primo, per i Lumi.

Indice

1. Il contributo di McIntyre
2. Comunità e società
3. Tradizione e razionalità
4. Quale futuro per l’educazione?

 

1. Il contributo di MacIntyre

Alasdair MacIntyre è sicuramente uno dei più originali e interessanti filosofi contemporanei. Specialmente col libro Dopo la virtù (1981) [A. MacInyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, Notre Dame, Indiana, University of Notre Dame Press, 1981, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1988] egli ha portato un contributo decisivo al dibattito sull’etica nella filosofia del Novecento, prospettando la possibilità di una “terza via” tra contrattualismo e utilitarismo, la quale da lui ha preso il nome di “etica delle virtù”.

Egli non è stato il primo a richiamarsi ad Aristotele, perché già in Europa la cosiddettariabilitazione della filosofia pratica”, ad opera di Hans Georg Gadamer, Joachim Ritter e i loro scolari, aveva richiamato l’attenzione sull’etica aristotelica. Ma l’energia con cui MacIntyre ha proposto l’alternativa “Nietzsche o Aristotele”, come alternativa tra la dissoluzione dell’etica e l’unica etica possibile, non ha avuto uguali in Europa. La sua proposta naturalmente è stata criticata, è stata accusata di conservatorismo, di comunitarismo, di relativismo. Egli stesso l’ha in parte corretta ed in parte migliorata nei suoi libri successivi [A. MacIntyre, Whose Justice? Which Rationality?, ivi, 1988, trad. it. Milano, Anabasi, 1995; Three Rival Versions of Moral Inquiry (Encyclopaedia, Genealogy and Tradition), ivi, 1989, trad. it. Milano, Massimo, 1993; Dependent Rational Animals: Why Human Beings Need the Virtues, London, Duckworth, 1999, trad. it. Milano, Vita e pensiero, 2001], ma recentemente l’ha ripresentata, dichiarando di non avere trovato motivi sufficienti per abbandonare le tesi principali di Dopo la virtù [A. MacIntyre, Dopo la virtù, un quarto di secolo dopo, prefazione alla nuova edizione italiana di Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, a cura di M. D’Avenia, Roma, Armando, 2007].

Secondo questo libro, l’unica etica possibile è appunto l’etica delle virtù, sviluppata nell’antichità, soprattutto ad opera di Aristotele, e nel medioevo, soprattutto ad opera di Tommaso d’Aquino, e poi abbandonata in seguito al rifiuto dell’aristotelismo compiuto dall’età moderna.
Questa etica anzitutto indicava un fine della vita umana, cioè un ideale di “vita buona”, che in Aristotele era un misto di vita politica e vita teoretica, e in Tommaso si arricchiva del contributo della visione cristiana. Ma poi essa individuava nelle “virtù” il mezzo per realizzare la vita buona, anzi faceva consistere quest’ultima fondamentalmente nell’esercizio delle virtù.

Per “virtù” MacIntyre intende aristotelicamente delle forme di eccellenza, cioè l’eccellenza in una “pratica”, dove per “pratica” non si intende una singola azione, ma un’attività riconosciuta ed apprezzata da una determinata comunità. Tale eccellenza si configura come un “abito”, cioè una disposizione abituale, frutto di una serie di interventi sul mero dato naturale, l’indole, quali l’educazione, l’esercizio, l’obbedienza alle leggi, l’elogio e il biasimo della comunità di appartenenza. L’insieme delle virtù viene così a formare il “carattere”, in greco êthos (con la êta), da cui deriva “etica”, il quale a sua volta è il frutto dell’abitudine, in greco ethos (con la epsilon), cioè della ripetizione di azioni buone, nel caso di un carattere virtuoso, o cattive, nel caso di un carattere vizioso.

In questa concezione dell’etica, come si vede, il ruolo dell’educazione è fondamentale. Senza educazione, infatti, non si formano le virtù. Anzi per Aristotele, seguito in ciò da MacIntyre, ci sono due tipi di virtù, quelle del carattere (êthos), dette perciò virtù “etiche”, e quelle della ragione (dianoia), dette perciò virtù dianoetiche. Le prime, riguardando quella che Aristotele chiama la parte dell’anima priva di ragione (alogon), ma capace di obbedire alla ragione – cioè le emozioni, le passioni, i desideri – richiedono un certo tipo di educazione, costituita da esempi, ammonizioni, soprattutto narrazioni, cioè trasmissione di modelli; le seconde, riguardando appunto la ragione, richiedono un’educazione che è essenzialmente insegnamento, cioè istruzione. Esempi delle prime sono il coraggio, la temperanza, la giustizia, cioè tutte le virtù che consistono nel “giusto mezzo” tra due vizi opposti, nonché l’amicizia; esempi delle seconde sono la sapienza (sophia) e la saggezza (phronêsis). Quest’ultima poi ha un carattere particolare, perché da un lato presuppone la temperanza e dall’altro è indispensabile nel determinare il “giusto mezzo”, cioè tutte le virtù etiche, instaurando in tal modo una specie di circolo, che è il caso di chiamare virtuoso. Inoltre la saggezza, una volta appresa, non si dimentica più.

MacIntyre parla, citando Aristotele, di una vera e propria “educazione alle virtù del carattere” e precisa:

Le virtù sono disposizioni non solo ad agire, ma anche a sentire in modi particolari. Agire virtuosamente non significa, come poi riterrà Kant, agire contro la propria inclinazione: significa agire in base a un’inclinazione plasmata mediante la coltivazione delle virtù. L’educazione morale è una éducation sentimentale [MacIntyre, Dopo la virtù, trad. it., p. 181]

L’educazione alla virtù, a sua volta, è possibile, per MacIntyre, solo all’interno di una comunità, perché solo nella comunità esistono le “pratiche” riconosciute, gli elogi, i biasimi, cioè tutti quei valori condivisi, la cui realizzazione costituisce una forma di eccellenza. L’insieme di questi valori costituisce anch’esso un êthos, inteso non più come carattere di un individuo, ma come costume di una comunità (il latino mos-moris, da cui “morale”). Forme di comunità sono la famiglia, il clan, le comunità etniche, linguistiche, e per i Greci soprattutto la polis, la famosa “cittàstato”, sulla cui natura ritorneremo.

Nell’educazione, come abbiamo visto, una funzione essenziale è svolta dalla narrazione, cioè dalla trasmissione in forma di racconto di modelli di umanità, di imprese eroiche, di vicende particolarmente istruttive, insomma di valori morali condivisi dall’intera comunità, ciò che costituisce una “tradizione”. Esempi di tali narrazioni sono nell’antichità i poemi omerici e nel medioevo i poemi cavallereschi. Educazione, comunità e tradizione sono dunque concetti strettamente legati, che svolgono un ruolo fondamentale nel pensiero di MacIntyre e pertanto fanno di lui, giustamente, un'”icona” dell’educazione, come è detto nel titolo generale di questo convegno. Vedremo se egli sia anche un’icona per l’educazione del futuro.

Sulla validità complessiva di tale concezione dell’etica e quindi dell’educazione, se prescindiamo, per ora, dalla questione della sua eventuale riproponibilità per il futuro, mi pare che non vi possano essere dubbi. Nell’antichità e nel medioevo le cose sono effettivamente andate come MacIntyre le descrive. Una riprova di ciò è data, per quanto riguarda l’antichità, da un’altra concezione, della quale Macintyre, mi sembra, non fa mai parola, cioè quella proposta dal filologo tedesco Werner Jaeger nella sua opera dal titolo Paideia. La formazione dell’uomo greco.

Anche Jaeger, infatti, vede anzitutto nei poemi omerici una forma di educazione alla virtù, in particolare alle virtù eroiche, e poi nella lirica dorica, nell’antica medicina, nella sofistica, nell’idea della polis, nella filosofia di Platone e di Aristotele, altrettante forme di educazione, come dice il titolo della sua opera, che in greco significa appunto “educazione”. Jaeger tuttavia insiste su un aspetto che sembra meno accentuato nel pensiero di MacIntyre, cioè il fatto che la paideia greca voleva essere formazione dell’uomo in quanto tale, cioè dell’uomo universale, non di un particolare tipo di uomo. Ma anche su questo ritorneremo.

 

2. Comunità e società

Abbiamo visto che Macintyre, giustamente, stabilisce una stretta connessione tra educazione alle virtù e appartenenza ad una comunità. Per questo motivo il suo pensiero è stato accomunato a quelle dei cosiddetti “comunitaristi” (communitarians), pensatori che considerano possibile l’etica solo all’interno di una comunità e quindi rifiutano ogni forma di universalismo, quale il liberalismo, la teoria dei diritti umani, il marxismo. Perciò essi sono stati duramente criticati da pressoché tutti gli altri esponenti delle principali concezioni etiche contemporanee. È difficile, a questo proposito, fare dei nomi di comunitaristi, perché i più noti tra quelli che a volte sono stati fatti, cioè Michael Sandel, Charles Taylor, Michael Walzer, hanno una statura che va molto al di là dei limiti spesso angusti del comunitarismo vero e proprio. Lo stesso vale per MacIntyre, il quale rifiuta l’etichetta di comunitarista ed effettivamente nei suoi ultimi libri si è aperto ad una visione dell’uomo più generale di quella dei comunitaristi, pur continuando a polemizzare contro il liberalismo.

Il valore positivo della comunità, anche ai fini dell’educazione, secondo MacIntyre, è il fatto che in essa gli uomini perseguono, insieme con altri, un bene condiviso da tutti, e non semplicemente ciò che ciascun individuo considera il proprio bene personale. Quali esempi di comunità egli indica, come abbiamo visto, la famiglia, la casa, il clan, la tribù, la città, la nazione, il regno, e afferma esplicitamente che tutte queste comunità, inclusa la polis antica e la monarchia medievale, hanno in comune il perseguimento del bene umano [MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 207].

Ma a questo proposito MacIntyre trascura di fare un’importante distinzione, la cui omissione lo espone a critiche fondate da parte non tanto di pensatori liberali, quanto da parte di coloro che si fondano su una tradizione di pensiero a lui molto vicina, quella aristotelico-tomistica, ma nella formulazione che di essa ha dato un grande pensatore politico cattolico, Jacques Maritain [Ho già avanzato questo tipo di critica in Il problema dell’etica oggi: Nietzsche o Aristotele?, in F. Fanizza, M. Signore (ed.), Filosofia in dialogo: scritti in onore di Antimo Negri, Roma, Pellicani, 1998, pp. 59-68; vedi anche A. Da Re, Virtù universali e liberali?, in “Fenomenologia e società”, 29, 2006, pp. 84-106].  Mi riferisco alla distinzione tra “comunità” e “società”, che Maritain colloca all’inizio di quello che io considero il suo capolavoro, cioè L’uomo e lo Stato.

Il termine “comunità” (in greco koinônia), deriva da “comune” (in greco koinon), il che significa che la comunità è formata da un insieme di persone che hanno qualcosa in comune. Questo elemento comune, tuttavia – spiega Maritain –, può essere un dato di fatto che precede l’intelligenza e la volontà umane e agisce indipendentemente da esse per creare una psiche inconscia comune, sentimenti comuni e costumi comuni. Oppure può essere un fine da raggiungere, o un dovere da compiere, che si basa sulle determinazioni dell’intelligenza e della volontà. Nel primo caso abbiamo una “comunità” nel senso stretto del termine, nel secondo abbiamo invece una “società”. Esempi di comunità sono la tribù, il clan, i gruppi regionali, etnici, linguistici, le nazioni. Esempi di società sono invece un’azienda commerciale, un sindacato, un’associazione scientifica. La famiglia e la polis, malgrado le apparenze, non sono comunità, ma società, ancorché naturali [J. Maritain, Man and the State, Chicago, The University of Chicago Press, 1951, trad. it. Milano, Vita e pensiero, 1963, pp. 3-4].

La famiglia nasce infatti dalla libera decisione di due persone di vivere insieme, di generare dei figli, di educarli: quindi, almeno per i genitori, non c’è un elemento comune che preceda la loro decisione. La famiglia perciò è una società, anche se la decisione che la produce è conforme ad una tendenza naturale ed è richiesta dalla natura per la conservazione della specie. Forse si può dire che la famiglia è una comunità per i figli che nascono all’interno di essa, ma fino ad un certo punto, perché poi, quando essi si formano una famiglia propria, divengono membri di una società. Ma anche la polis antica era una società. L’elemento comune su cui essa si fondava, infatti, era il fine, cioè quello che Aristotele chiama il bene politico, o il bene della città, cioè il “vivere bene”, vale a dire la felicità.

Se stiamo infatti alla teoria della polis sviluppata da Aristotele nella Politica, l’unica vera teorizzazione della polis antica di cui disponiamo, vediamo che la polis, come la famiglia, è fondata sulla natura, perché l’uomo è per natura “animale politico”, cioè fatto per vivere nella polis e tale per cui solo nella polis può realizzare completamente la sua natura di uomo (fuori della polis, dice Aristotele, possono vivere solo le bestie, o gli dèi). Tuttavia, mentre la famiglia ha come fine semplicemente il vivere, cioè la soddisfazione dei bisogni dell’individuo (cibo, vesti, alloggio) e della specie (la riproduzione), la polis ha come fine il “vivere bene”, cioè la piena realizzazione della propria umanità nelle relazioni sociali (giustizia, amicizia) e nelle attività culturali (scuola, spettacolo, culto, ricerca scientifica). Benché dunque in greco la polis sia definita, per mancanza di altri termini, come koinônia, che vuol dire “comunità”, anzi come koinônia “perfetta”, cioè autosufficiente (a quel tempo), essa non è una comunità, ma una società. Il perseguimento del bene comune, ovvero della felicità, infatti, richiede la collaborazione di tutti i cittadini, che impegnano in essa la propria intelligenza e la propria volontà.

Certo, la polis greca di fatto comportava una serie di restrizioni e di discriminazioni: quella tra maschi e femmine, liberi e schiavi, greci e barbari, per cui erano cittadini in senso pieno solo i maschi, liberi e greci, mentre le donne, gli schiavi e i barbari non godevano dei diritti politici e quindi non erano ritenuti capaci di collaborare al conseguimento del bene comune, ovvero della piena umanità, della felicità. Questa del resto era la caratteristica di tutte le società antiche; e queste discriminazioni non sono del tutto scomparse nemmeno oggi.

Lo stesso Aristotele, principale teorico della polis antica, ammetteva le suddette discriminazioni, ritenendo [a differenza di Platone, NDR] il maschio “più adatto a governare” (anche se con eccezioni), ritenendo che esistessero schiavi per natura (coloro che non sanno governarsi da sé) e ritenendo i barbari inferiori ai greci, perché incapaci di dar vita a società come la polis e quindi destinati a vivere tutti come schiavi. Ma la concezione della polis elaborata da Aristotele, nei suoi principi fondamentali, ha un carattere universale.

Aristotele dice infatti che l’uomo è “per natura” animale politico, cioè lo è in quanto uomo (anthrôpos), non in quanto maschio, libero o greco, così come dice che “tutti gli uomini (pantes anthrôpoi) per natura desiderano conoscere”, non solo i maschi, i liberi ed i greci. Del resto, essendo l’uomo una specie, all’interno della stessa specie non vi possono essere differenze di natura, cioè di essenza, perché la specie, per Aristotele, è caratterizzata dal possesso di una forma, cioè di un’essenza, come risulta anche dal fatto che entrambe, la specie e la forma, sono indicate dalla stessa parola, eidos [Ho documentato queste affermazioni nel volume su Aristotele della collana “I pensatori politici”, Roma-Bari, Laterza, 1997].

Per questo Maritain può dire che la “società politica”, da lui chiamata anche “corpo politico”, non deve essere confusa con lo “Stato”, tipica creazione moderna avente come fine unicamente la propria conservazione, ed è anch’essa, come la polis antica, una società, non una comunità. La “società politica” infatti è una polis senza più discriminazioni (in teoria), nella quale cioè tutti sono cittadini, uomini e donne, senza più schiavi, con cittadini immigrati che abbiano chiesto di diventarlo, molto più estesa della polis greca per poter essere ugualmente “perfetta”, cioè autosufficiente.

In età moderna la “società politica” è spesso venuta a coincidere, come estensione territoriale, con lo Stato nazionale, ma non deve essere confusa con questo, perché essa rimane la società di tutti coloro che collaborano alla realizzazione di un fine comune, quello che nei paesi democratici è indicato dalla costituzione, liberamente accettato da tutti, con una scelta implicante intelligenza e libera volontà [Maritain, Man and the State, trad. it, pp. 11-15;10].

La distinzione tra “comunità” e “società”, formulata più o meno nei termini in cui viene ripresa da Maritain, risale al sociologo tedesco Ferdinand Tönnies, autore di Comunità e società (1887), il quale però attribuiva maggior valore alla “comunità” (Gemeinschaft), da lui ritenuta una realtà organica, fondata su valori profondi e caratterizzata da una coesione autentica, mentre la “società” (Gesellschaft) era per lui il prodotto della volontà arbitraria e della riflessione intellettuale, quindi una realtà artificiale, i cui membri hanno rapporti soltanto estrinseci [F. TÖNNIES, Gemeinschaft und Gesellschaft. Grundbegriffe der reinen Soziologie, Berlin, K. Curtius, 1922, trad. it. Milano, Edizioni di Comunità, 1963].

Maritain capovolge il giudizio di Tönnies, giudicando autentica espressione della natura umana la società, specialmente le società “naturali” quali la famiglia e la società politica. Questa diversa valutazione è resa possibile dal concetto aristotelico di “natura umana”, intesa non come il dato originario e primitivo, ossia ciò che l’uomo è per nascita (concezione moderna, di Hobbes e di Rousseau), bensì come il pieno sviluppo delle capacità umane, il “compimento” (telos) dell’uomo, quindi coincidente con quella che
noi chiamiamo “cultura” e che in greco si dice, ancora una volta, paideia, opera dell’intelligenza e della volontà.

Quando MacIntyre critica il liberalismo, anche quello che si ispira maggiormente a un ideale di giustizia, come il liberalismo di John Rawls, per il fatto che esso rifiuta un’idea di bene comune e si limita ad assicurare le condizioni in cui ciascuno possa perseguire un suo individuale progetto di vita, a mio avviso ha ragione di dire che il liberalismo non garantisce un’autentica comunità (o meglio società) politica, ma solo un aggregato di estranei tenuto insieme da interessi individuali (le regole del mercato); che la politica moderna è la guerra civile proseguita con altri mezzi; e che perciò la tradizione delle virtù è incompatibile con l’ordinamento politico ed economico moderno [MacIntyre, Dopo la virtù, cit., pp. 302-303.12].

Tuttavia egli non tiene conto del fatto che nell’età moderna e contemporanea non esistono solo gli Stati, ma esistono anche le società politiche, che sono società naturali, perché l’uomo è per natura, cioè in quanto insufficiente a sé stesso, animale politico [È lo stesso concetto esposto da Macintyre nel suo ultimo libro, Animali razionali dipendenti, trad. it, pp. 3-13, dove si sottolineano da un lato le affinità tra l’uomo e gli altri animali, specialmente quelli intelligenti, come i delfini, e dall’altro gli aspetti della natura umana che rendono gli uomini dipendenti dagli altri, propri specialmente dei bambini, dei vecchi e dei disabili]. E nelle società politiche – non negli Stati, cioè non da parte dei governi – si persegue il bene comune, e lo si persegue da parte di cittadini che possono far parte di comunità diverse per lingua, per tradizioni, per cultura, per nazionalità – perché la società politica moderna è pluralistica –, i quali hanno tutti accettato la stessa idea di bene comune.

Naturalmente la società politica può, anzi deve, articolarsi in una molteplicità di società politiche locali, quali i comuni, le province, le regioni, le autonomie, che sono realtà intermedie tra la famiglia e lo Stato. Anche MacIntyre, in Animali razionali dipendenti, denunciando l’insufficienza sia della famiglia che dello Stato a provvedere a tutti i bisogni degli uomini e quindi al bene comune, affida tale compito a queste società, che egli chiama “comunità locali”[Ivi, pp. 127-144]. Più recentemente, in una raccolta di saggi di etica e politica, MacIntyre ribadisce il suo aristotelismo, sottolineando da un lato la funzione svolta dalla phronêsis nell’educazione degli uomini politici [A. MacIntyre, Ethics and Politics. Selected Essays, Volume 2, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, specialmente il saggio Rival Aristotles: Aristotle against some Renaissance Aristotelians, ivi, pp. 3-21.] e dall’altro il carattere anche pratico della filosofia politica di Aristotele [MacIntyre, Ethics and Politics, cit., in particolare Rival Aristotles: Aristotle against some modern Aristotelians, ivi, pp. 22-40].

Anche qui, riaffermando che la pratica della filosofia aristotelica richiede un tipo di comunità caratterizzata da una concezione comune dei propri fini, egli insiste nel precisare che ciò è possibile solo in piccole comunità locali, i cui membri siano in grado di chiamarsi l’un l’altro a rendere conto dei loro standard deliberativi [Ivi, p. 39.17]. Queste tuttavia non sono necessariamente comunità, fondate su un elemento comune già dato, ma possono essere vere e proprie società, per esempio associazioni di volontariato, società di beneficenza, o anche vere e proprie istituzioni, come le USL (Unità sanitarie locali), o le università. Lo stesso MacIntyre, nel suo scritto più recente sul tema, porta come esempi le imprese familiari, le associazioni di pescatori, le cooperative agricole, le scuole, le cliniche, i quartieri, le piccole città [Ivi].

Esse non presuppongono necessariamente la condivisione dell’intera visione della vita, comprendente religione, cultura, tradizioni: è sufficiente che si fondino su un fine comune, cioè sulla condivisione della nozione di bene, di quel bene umano che riguarda questa vita e che può essere condiviso da persone di culture e religioni diverse. In tal senso esse sono vere e proprie società politiche, ancorché di dimensioni ridotte. Ciò che le distingue dalle comunità, intese nel senso di Tönnies, è il fatto di essere aperte a chiunque voglia farne parte, condividendone il fine, mentre le comunità basate su un elemento comune già dato sono necessariamente chiuse.

Particolarmente significativo, ovviamente, è il caso delle scuole. Infatti, anche se è consuetudine parlare, a proposito di esse, di “comunità educanti” – e l’espressione è anche bella –, non si deve dimenticare che le scuole, proprio perché aperte a tutti, sono delle società piuttosto che delle comunità. A proposito della connessione stabilita da MacIntyre tra educazione e comunità ritengo dunque necessario precisare che l’educazione, nella società politica moderna così come nella polis antica, è opera delle società, cioè della famiglia, delle società politiche locali e della società politica nel suo complesso, non necessariamente delle sole comunità. Le società non sono solo quelle che perseguono interessi particolari, come i partiti, i sindacati, le società per azioni, le aziende commerciali, ma possono avere come fine anche il bene comune. Questo è costituito dal complesso di valori, o di diritti, che in genere è espresso nelle carte costituzionali dei paesi democratici.

L’aristotelismo di MacIntyre, a questo proposito, dovrebbe essere integrato con l’aristotelismo di Maritain, o anche col pensiero di un filosofo contemporaneo che si considera sicuramente non aristotelico, ma che invece sotto certi aspetti lo è, come ho mostrato altrove, cioè Jürgen Habermas, il quale parla di “patriottismo della costituzione”, cioè riconosce come unico patriottismo valido, e compatibile con le moderne società pluralistiche, non l’attaccamento alla nazione, che è una comunità particolare, ma l’attaccamento ai valori della costituzione [J. HABERMAS, La rivoluzione in corso, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1990. Sull’aristotelismo di Habermas si veda il mio saggio Il contributo della dialettica antica alla cultura europea, in E. Berti, S. Averincev, E. Nolte, L. Siedentop, La filosofia dell’Europa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 3-25. Vedi anche Serena Floresta, Poiêsis e praxis. Aristotele nella filosofia di Jürgen Habermas, in “Fenomenologia e società”, 29, 2006, pp. 69-83].

Un’altra istituzione, che non so se si possa considerare comunità o società, la quale mantiene viva l’idea di bene comune, e che cito per riequilibrare l’impressione di eccessivo modernismo che posso avere dato citando Habermas, è la Chiesa cattolica, la quale sia nelle encicliche dei papi che formano la cosiddetta “dottrina sociale della Chiesa”, sia nella costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, fa esplicitamente riferimento all’idea di bene comune, definendolo ora come il soddisfacimento dei bisogni, sia materiali che spirituali dell’uomo [Leone XIII, Rerum novarum, Padova, Gregoriana, 1961, pp. 26-27] ora come il rispetto dei diritti e della dignità della persona umana [Giovanni XXIII, Pacem in terris, nn. 25 e 60; Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 47] ora come le condizioni che permettono agli uomini, sia come individui che come gruppi, di raggiungere la loro piena realizzazione [Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 26. A questo proposito mi permetto di rinviare ai miei scritti Il bene in Tommaso d’Aquino, in “Filosofia politica”, 2, 1988, pp. 323-344; L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra”, in E. Berti, S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62; Il concetto di “bene comune” di fronte alla sfida del terzo millennio, in Pontificia Academia Thomae Aquinatis, Atti del Congresso Internazionale su “L’umanesimo cristiano nel terzo millennio: La prospettiva di Tommaso d’Aquino”, Città del Vaticano 2004, pp. 121-139].

 

3. Tradizione e razionalità

L’altra stretta connessione che abbiamo visto stabilita da MacIntyre è quella fra educazione e tradizione. Questa connessione passa attraverso il ricorso alla narrazione, poiché nelle culture ispirate dall’etica delle virtù, cioè quella antica e quella medievale, il mezzo principale dell’educazione morale consisteva nel “raccontare storie” [MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 148]. Naturalmente il discorso morale, pur potendo servirsi di favole e parabole, nei suoi momenti seri e adulti abbandona la forma narrativa per uno stile e un genere più discorsivo [Ivi, p. 159]. Ma il riferimento a un passato comune, quale risulta appunto dalla narrazione, e quindi ad una comunità particolare, che condivide tale passato, fa sì che la narrazione prima e la discussione poi diventino l’espressione di una “tradizione”, cioè, come dice Macintyre, di “una discussione vivente che si estende nella storia e si incarna nella società, e una discussione che verte in parte proprio sui valori che costituiscono tale tradizione”[Ivi, p. 265].

Ma le tradizioni, proprio per il loro carattere particolare, sono inevitabilmente molte, quindi diverse l’una dall’altra. Nel passato le diverse tradizioni si sviluppavano l’una accanto all’altra, senza doversi necessariamente mescolare: si pensi alla coesistenza, nell’antichità, della cultura greca e di quelle orientali (egiziana, persiana), e nel medioevo della cultura cristiana e di quella musulmana, anche se esistevano casi particolari di mescolanza, costituiti ad esempio dagli Ebrei, presenti sia nei paesi di cultura cristiana che in quelli di cultura musulmana. Nell’età moderna, e soprattutto contemporanea, le diverse tradizioni invece sono entrate in un contatto, per così dire, più stretto, data l’ormai generalizzata convivenza nel medesimo territorio di individui appartenenti a culture e a tradizioni diverse. Ciò ha posto il problema del rapporto fra le tradizioni, che in Dopo la virtù MacIntyre non ha affrontato sistematicamente, ma al quale ha dedicato un altro libro, cioè Enciclopedia, genealogia e tradizione. Tre versioni rivali di ricerca morale (1989), di cui mi occuperò tra poco.

Prima vorrei invece segnalare il modo in cui MacIntyre affronta il problema nella prefazione alla nuova edizione di Dopo la virtù, intitolata Dopo la virtù, un quarto di secolo dopo. Qui egli parla anzitutto della necessità di “capire” che cosa vuol dire pensare secondo le modalità fissate da una particolare tradizione rivale; poi della necessità di individuare le domande irrisolte e i problemi rimasti insoluti all’interno di quella tradizione; infine della possibilità che le difficoltà della tradizione rivale possano essere adeguatamente comprese e superate solo dal punto di vista della propria tradizione. Se questo accade, la propria tradizione si rivela più adeguata di un’altra, senza che per questo si debba ammettere l’esistenza di criteri neutrali, in riferimento ai quali qualsiasi agente razionale possa stabilire la superiorità di una tradizione nei confronti di un’altra [MacIntyre, Dopo la virtù, un quarto di secolo dopo, cit.]. Si tratta dunque, mi sembra di capire, di fare una specie di “critica dall’interno” delle altre tradizioni, cioè di cercar di mostrare che esse non sono in grado di risolvere i problemi da esse stesse posti se non a prezzo di eventuali incoerenze. Questa è una forma di argomentazione teorizzata già dai filosofi greci, cioè la “confutazione” (elenkhos), consistente nel dedurre delle contraddizioni all’interno della posizione sostenuta da un avversario, partendo dalle sue stesse premesse.

A questo tipo di confutazione MacIntyre aveva fatto ricorso anche nel libro sopra citato, in cui metteva a confronto tre versioni rivali dell’etica, corrispondenti ad altrettante tradizioni, cioè l’enciclopedia, corrispondente alla tradizione illuministica, la genealogia, corrispondente alla posizione di Nietzsche e di quanti a lui si ispirano (Heidegger e seguaci), e la “tradizione” vera e propria, corrispondente alla tradizione antica e medievale dell’etica delle virtù, ripresa in età moderna dalla scuola scozzese del Settecento. In questo libro anzi egli si era esplicitamente richiamato alla concezione della dialettica teorizzata da Aristotele nei Topici, ripresa da sant’Agostino e da Boezio nella tarda antichità e dal metodo delle dispute nelle università medievali [MacIntyre, Enciclopedia, genealogia e tradizione, trad. it. cit., pp. 135 e 322]. Egli aveva poi fatto uso di questo tipo di confutazione soprattutto nei confronti dei “post-moderni” che si ispirano al metodo genealogico di Nietzsche e a Heidegger, rilevando la loro incoerenza nei confronti dei maestri nel momento in cui si preoccupano della carriera universitaria.

Nietzsche – egli scrive –, per assumere il ruolo di genealogista, dovette rinunciare tanto alla cattedra che a quel modo di rapportarsi al pubblico che presupponeva ed esprimeva l’adesione al sistema accademico [Ivi, p. 79]

Invece “i genealogisti oggi occupano le cattedre universitarie con una tale apparente disinvoltura che avrebbe sconcertato Nietzsche, e perfino quando essi inneggiano all’aforisma come a un genere tipicamente nietzscheano, tale devozione si esprime attraverso articoli di riviste accademiche e lezioni [Ivi, p. 304]

Come possiamo vedere, si tratta di confutazioni certamente valide, ma è dubbio che siano sufficienti a mostrare che la tradizionale etica della virtù è superiore, o più adeguata a risolvere i propri problemi, di quanto la sia la tradizione che si ispira a Nietzsche. Ciò che colpisce, in questa concezione della dialettica professata da MacIntyre, è l’uso esclusivo di premesse interne alla posizione dell’avversario, conseguente al rifiuto esplicito, dichiarato anche nella prefazione alla nuova edizione di Dopo la virtù, di criteri comuni, cioè universali, condivisi da tutti, alla luce dei quali valutare le diverse tradizioni.

Anche nel libro che seguì immediatamente la prima edizione di Dopo la virtù, cioè Giustizia e razionalità, MacIntyre aveva esposto la sua concezione tutto sommato particolaristica, non universale, sia della giustizia che della razionalità, come risultava chiaramente dal titolo originale, Whose Justice? Which Rationality?, letteralmente “giustizia di chi?” e “quale razionalità?”. Proprio a proposito di Aristotele egli aveva infatti sostenuto che la giustizia suppone la phronêsis, la quale fa uso del sillogismo pratico, che è sempre legato a situazioni particolari, e quindi aveva attribuito ad Aristotele la tesi che “la propria razionalità debba essere in parte costituita dalla propria appartenenza a una specifica istituzione sociale e dalla propria integrazione in essa” [MacIntyre, Whose Justice? Which Rationality?, trad. it. cit., p. 153].

Può valere la pena, pertanto, di verificare se questa sia effettivamente la concezione della razionalità pratica professata da Aristotele e in quale misura essa sia utile per affrontare il confronto fra tradizioni diverse. A proposito della razionalità pratica di Aristotele è anzitutto necessario fare una distinzione che MacIntyre, come molti altri (per esempio talora anche Gadamer), trascura, cioè quella tra la phronêsis, o saggezza, da una parte, e la vera e propria “filosofia pratica”, o, per dirla con Aristotele, “scienza politica” dall’altra. La saggezza è una virtù dianoetica, consistente nella capacità di deliberare bene, cioè di applicare la tendenza generale verso un fine già noto (il bene proprio, della propria famiglia o della propria città) all’individuazione particolare dei mezzi più idonei a realizzarlo. Per fare questo, la saggezza si serve del cosiddetto “sillogismo pratico”, che effettivamente si applica a situazioni particolari ed esprime, sia nella premessa maggiore (l’indicazione del fine), sia in quella minore (l’individuazione dei mezzi), una determinata cultura, legata a una determinata comunità di appartenenza.

La filosofia pratica, invece, è una scienza, sia pure con tutte le peculiarità delle scienze pratiche (grado limitato di esattezza, maggiore flessibilità, validità soltanto “per lo più”), e come tale si serve di sillogismi, cioè di ragionamenti, ma non di sillogismi pratici, bensì di sillogismi dialettici. Questi ultimi non sono vere e proprie “dimostrazioni”, come quelli, ad esempio, delle scienze matematiche, perché non partono da “princìpi”, cioè da premesse necessariamente vere, ma partono da premesse soltanto probabili, anzi, per usare il termine di Aristotele, “endossali” (endoxa, il contrario di paradoxa, cioè “paradossali”).

Queste premesse, come dice Aristotele, sono ammesse da tutti gli uomini, o dalla maggior parte di questi, o da tutti quelli che se ne intendono, o dalla maggior parte di questi, o infine dai più famosi, o autorevoli. Esse non sono sempre vere, ma lo sono “per lo più”, cioè nella maggior parte dei casi, per cui anche le conclusioni che ne derivano, sono vere nella maggior parte dei casi, cioè quasi sempre, “di regola”, una regola che tuttavia ammette eccezioni [Per illustrare queste affermazioni devo rinviare a miei scritti quali Filosofia pratica, Napoli, Guida, 2004, e Nuovi studi aristotelici, I – Epistemologia, logica e dialettica, Brescia, Morcelliana, 2004].

Nel richiamarsi, giustamente, alla dialettica teorizzata da Aristotele, MacIntyre dovrebbe dunque tenere conto che essa è, sì, una forma di razionalità non rigorosamente dimostrativa, come lo è invece quella delle scienze teoretiche, ma tuttavia è dotata di un suo grado di universalità, perché gli endoxa che ne formano le premesse possono essere ammessi da tutti gli uomini, o almeno dalla maggior parte. Come a proposito della polis, che non è una comunità particolare, ma una società politica in linea di principio universalizzabile, così anche a proposito della dialettica, cioè della razionalità pratica, Aristotele è – almeno nelle sue intenzioni, che sono quelle che più interessano – molto più universalista di MacIntyre, perché con la sua etica e la sua filosofia politica egli è convinto di avere dimostrato, sia pure dialetticamente, che il vero bene dell’uomo, la vera felicità, il vero “vivere bene”, è quel tipo di vita mista tra vita politica e vita teoretica che MacIntyre ha descritto così bene in Dopo la virtù e che per Aristotele vale, almeno in teoria, per tutti [Cfr. anche M. C. Nussbaum, Non-Relative Virtues. An Aristotelian Approach, in M. C. Nussbaum, A. Sen (eds.), The Quality of Life, Oxford, Clarendon Press, 1993, trad. it. in M. Mangini (ed.), L’etica delle virtù e i suoi critici, Napoli, La Città del Sole, 1996, pp. 167-209.]

L’obiezione che MacIntyre farebbe a questa critica, è che oggi non esistono più endoxa, cioè premesse ammesse da tutti, non esiste più una concezione del bene comune condivisa da tutti, e quindi un’etica universale non è più possibile. Questo è vero, a mio avviso, solo fino a un certo punto. È vero, infatti, che nell’odierna società pluralistica – frutto, come si suol dire, della “globalizzazione” – coesistono tradizioni diverse, culture diverse, religioni, filosofie, modelli educativi del tutto diversi e spesso inconciliabili tra loro. Ma ciò non esclude che vi siano alcuni princìpi i quali sono ammessi, se non da tutti, almeno dalla maggior parte degli uomini, quale che sia la loro cultura, la loro religione, la loro tradizione. Mi riferisco ai princìpi enunciati nelle costituzioni degli Stati democratici e nelle dichiarazioni internazionali dei diritti, per esempio la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dalle Nazioni Unite nel 1948, o la Carta dei diritti, approvata dall’Unione Europea a Nizza nel 2000. I princìpi enunciati nelle costituzioni degli Stati democratici sono più o meno uguali in tutte le costituzioni e si deve supporre che, se sono inclusi nella costituzione di uno Stato, siano stati approvati, direttamente o indirettamente,
dalla maggior parte dei cittadini di quello Stato, quindi riflettono l’opinione della maggioranza dei cittadini della maggioranza degli Stati oggi esistenti. La Dichiarazione delle Nazioni Unite, a sua volta, è stata approvata dai rappresentanti della maggior parte degli Stati del mondo e quindi riflette anch’essa l’opinione della maggior parte degli esseri umani.

MacIntyre non ama i diritti, li considera espressioni della razionalità moderna, cioè dell’illuminismo, vale a dire di quella concezione dell’etica di cui Nietzsche ha proclamato la fine. Questo è vero storicamente, ma non c’è dubbio che le moderne dichiarazioni dei diritti esprimono in forma esplicita valori che erano implicitamente contenuti nell’etica cristiana, quali il diritto alla vita, all’uguaglianza, alla libertà, alla dignità, e valori che la migliore cultura moder na ha portato alla luce, quali il diritto alla salute, all’educazione, al lavoro, alla proprietà, all’autogoverno, ecc. Alcuni pensatori contemporanei hanno saputo riformulare tali diritti attraverso le nozioni di “capacità” (capabilities) o “opportunità” e hanno proposto una concezione del bene, ovvero della felicità, come “piena realizzazione” (fulfilment) delle capacità umane, della quale è stata riconosciuta la perfetta corrispondenza con quella di Aristotele: mi riferisco all’economista Amartya K. Sen e alla filosofa Martha C. Nussbaum [anche a questo proposito devo rinviare a miei scritti precedenti, quali Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1992, e Incontri con la filosofia contemporanea, Pistoia, Editrice Petite Plaisance, 2006].

Ciò dimostra che esiste, almeno in una certa misura, una concezione del bene comune ancora oggi utilizzabile per argomentare, in materia di etica, mettendo a confronto con essa le diverse tradizioni e criticandole non solo dall’interno, ma anche da un punto di vista più generale.

 

4. Quale futuro per l’educazione?

Nel titolo di questo convegno si parla dell’educazione del futuro, indicando Macintyre come una delle “icone” di questa. Ho già detto all’inizio che il contributo di Macintyre al tema dell’educazione è certamente rilevante, come lo sono le connessioni da lui illustrate tra l’educazione e la comunità e l’educazione e la tradizione. Ho qualche dubbio invece sulla possibilità che, in tema di educazione, MacIntyre possa essere un'”icona” del futuro. La sua posizione, francamente, mi sembra troppo pessimistica per fornire qualche prospettiva positiva per il futuro.

Già in Dopo la virtù MacIntyre dava l’impressione più di volere criticare la concezione moderna dell’etica, che di proporre una nuova concezione alternativa ad essa. L’etica delle virtù è infatti l’etica dell’antichità e del medioevo, che è stata rifiutata dalla modernità in conseguenza del rifiuto complessivo dell’aristotelismo, e il prezzo pagato dalla modernità per tale rifiuto è stato, secondo MacIntyre, la fine dell’etica, proclamata da Nietzsche, o la sua dissoluzione in forme di emotivismo, equivalenti alla sua fine. L’alternativa “Nietzsche o Aristotele”, dichiarata in Dopo la virtù, non voleva essere la proposta di una scelta per il futuro, ma la dimostrazione storica che il rifiuto di Aristotele comporta la fine di qualsiasi possibile etica. La conclusione del libro era un richiamo a san Benedetto come simbolo, nel momento di declino dell’impero romano e di ingresso nei secoli bui delle invasioni barbariche, della costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta:

Ciò che conta, in questa fase – scriveva MacIntyre –, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi … Stiamo aspettando un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso [MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 313]

Nella prefazione alla nuova edizione di quel libro egli aggiunge:

Quando scrissi quella fase conclusiva nel 1980, era mia intenzione di suggerire che anche la nostra epoca è un tempo di attesa di nuove e inattese possibilità di rinnovamento. Allo stesso tempo è un periodo di resistenza prudente e coraggiosa, giusta e temperante nella misura del possibile, nei confronti dell’ordine sociale, economico e politico dominante nella modernità avanzata. Questa era la situazione ventisei anni fa, e tale ancora oggi rimane [MacIntyre, Dopo la virtù, un quarto di secolo dopo].

Resistenza e attesa, dunque: non è un programma molto incoraggiante per quanto riguarda il futuro, anche se non del tutto privo di speranza. Certamente chi condivide la diagnosi storica di MacIntyre può anzitutto far proprio questo programma, cioè fare come san Benedetto, educare alla virtù, non necessariamente limitandosi a forme locali di comunità, che pure possono essere importanti – soprattutto negli Stati Uniti, dove le scuole migliori e le università migliori sono private –, ma impegnandosi anche nei luoghi istituzionali, cioè nelle scuole pubbliche e nelle università di Stato.

Ma che significa oggi educare alla virtù? A mio giudizio, ciò significa educare ai valori espressi, per esempio in Italia, dalla costituzione repubblicana. Per quanto ne so, la cosiddetta educazione civica nelle scuole superiori è alquanto trascurata, a vantaggio di altre materie più “nozionistiche” quali la storia e la filosofia (che poi è storia della filosofia). Forse sarebbe il caso di valorizzarla maggiormente, anche attraverso indicazioni di carattere normativo. Quanto al costruire nuove comunità, la cosa è possibile, ma rimane affidata alla buona volontà e all’iniziativa di singoli e di gruppi, cioè a una specie di volontariato, per cui l’esito non è del tutto certo. Resta poi il compito di comprendere le altre culture, diverse dalla propria, con le quali siamo ormai obbligati a convivere, non solo allo scopo di criticarle, mostrandone le insufficienze interne – come consiglia MacIntyre –, ma anche allo scopo di individuare all’interno di esse delle aree di valori sovrapponibili a quelli presenti nella propria cultura, in modo da realizzare quello che Rawls ha chiamato overlapping consensus, cioè “consenso per sovrapposizione” [J. Rawls, Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993, trad. it. Torino, Edizioni di Comunità, 1994].

Sono convinto che, se si riesce a individuare e a descrivere l’area di valori condivisi dalle varie culture, anzitutto si ritroveranno in essa quelli che prima abbiamo chiamato le premesse “endossali” a partire dalle quali si può argomentare in materia di etica e di politica, giungendo a conclusioni valide almeno “per lo più”, cioè per la maggior parte dei soggetti e nella maggior parte dei casi; inoltre si vedrà che l’insieme di tali valori forma quella che potremmo chiamare la nozione moderna, anzi contemporanea, attuale, di bene comune, fatto di diritti o, se si preferisce, di capacità o, meglio ancora, di dignità, che alcuni filosofi contemporanei hanno contribuito a chiarire. Certo, ci saranno sempre dei filosofi che non condivideranno tale nozione, o che contesteranno la possibilità stessa di una nozione di bene comune. Ma l’educazione non deve preoccuparsi di convincere i filosofi, per essa è sufficiente convincere in generale i giovani e, in particolare, gli uomini ai quali è affidata la responsabilità delle generazioni future, cioè gli uomini politici, i legislatori. Questa potrebbe essere, a mio avviso, un’idea accettabile di futuro dell’educazione.

http://www.dircost.unito.it/dizionario/pdf/Berti-MacIntyre.pdf

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