Il professor Hegel

by gabriella

Hegel_Berlin

Ho sempre amato Hegel, come già Machiavelli, per la severità della prova a cui sottopone ogni spirito critico che non si accontenti delle consolazioni dell’anima bella, e per aver armato l’intelligenza di Marx.

Dalla biografia dei filosofi si traggono di solito quegli spunti o quegli eventi che spiegano e rendono concreta l’urgenza delle loro teorizzazioni; il modello vita-e-opere, insomma, è didatticamente tramontato. Accade così che, mentre si affronta la Fenomenologia dello spirito, del giovane Hegel si ricordi l’attonito stupore per aver visto “lo spirito del mondo a cavallo” (Napoleone) entrare a Jena, o la fuga dalla città con i manoscritti del capolavoro sotto braccio, giusto il giorno prima dell’arrivo dei napoleonici che con le carte Hegeldegli scrittoi jenesi accendevano i caminetti, l’amicizia studentesca con Schelling e l’irreparabile rottura dopo il sarcasmo della Fenomenologia sul suo assoluto paragonato a “una notte in cui tutte le vacche sono nere”. 

Lo si ritrova, di solito, a Berlino, professore celebrato e grande antagonista di Schopenhauer, di cui fu esaminatore nel concorso per la libera docenza durante il quale scoppiò il celebre diverbio sul quadruplice principio di ragion sufficiente. Hegel diventa allora l’uomo che tolse all’autore del Mondo anche il pubblico universitario, convocato dall’astioso contendente nello stesso orario in cui il grande professore teneva le sue lezioni, in una competizione dalla quale il filosofo di Danzica uscì sempre sconfitto. 

Di quegli anni berlinesi si tende così ad avere un’idea schopenhaueriana, quella dell’accademico di successo “insediato dall’alto, dalle forze al potere”, anche senza condividerne necessariamente la tombale visione di “sicario della verità”. Può stupire allora, il ritratto che ne fecero i suoi studenti, dal quale emerge un uomo niente affatto condizionato dalla ricerca del successo, ma un introverso spesso in guerra con le parole, messaggere malcerte della sua filosofia.

HegelAlcune testimonianze – racconta Claudio Cesa in G.W.F. Hegel. Filosofia della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1975 – ci danno un’idea di Hegel in cattedra; nulla della sapiente oratoria dei suoi colleghi francesi, di un Cousin o di un Guizot, le cui lezioni erano spesso interrotte da applausi; aveva l’aria stanca, preoccupata, la testa insaccata nelle spalle, nel parlare sfogliava ininterrottamente le ampie pagine dei suoi fascicoli di appunti, spesso – soprattutto quando l’argomento era importante – leggeva; agli orecchi dei berlinesi non sfuggiva il suo marcato accento meridionale, svevo [era nato a Stuttgart].

Già nell’incominciare balbettava, cercava di andare avanti, ricominciava daccapo, si fermava di nuovo, parlava germaniae rifletteva; la parola adatta sembrava non volergli venire, ed invece proprio adesso gli usciva con somma sicurezza: aveva l’aria di una parola comune ed era invece, inimitabilmente, la più idonea, altre volte non era di uso corrente e pure era l’unica esatta; sembrava che il nocciolo del discorso dovesse sempre venire dopo, ed invece, senza che ci se ne accorgesse, era già stato esposto, nel modo più completo possibile. […].

Proprio nelle cose più facili Hegel era pesante, noioso; ma quando toccava i punti essenziali, allora

la voce si alzava di tono, l’occhio, fattosi acceso, si volgeva all’uditorio, e la lezione, senza che questa volta le parole le mancassero, penetrava nelle altezze e nelle profondità dell’animo.

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