Stralcio dal lungo articolo di Sergio Cesaratto, L’agenda rossa. Note sul programma del centro-sinistra, la parte introduttiva dedicata alle scelte di politica economica della cosiddetta classe dirigente italiana nel secondo dopoguerra.
Il disegno della borghesia italiana
Le classi dominanti italiane muovono dalla tradizionale constatazione che il paese è privo di materie prime e risorse naturali esportabili, è tecnologicamente di seconda linea e soffre di eccesso di manodopera (nonostante il calo demografico ampiamente compensato, peraltro, da un’ampia tolleranza verso i flussi migratori, altro cavallo di battaglia della sinistra nostrale). Se ne deduce che la crescita italiana dipende fondamentalmente dal generare un flusso di esportazioni sufficiente a finanziare le importazioni di energia, materie prime e tecnologia comprimendo salari e domanda interna. La disponibilità dei mercati internazionali in una condizione di disciplina sindacale, con la Fiom fuori dai cancelli tanto per capirci, avrebbe consentito al paese uno sviluppo di questo tipo, il miracolo economico a cavallo degli anni 1950 e ’60.
Nei fatti, la crescente conflittualità suscitata dalla tradizionale assenza di lungimiranza sociale della borghesia italiana, oltre alla sua incapacità a far compiere un salto tecnologico ulteriore alle produzioni nostrane, hanno messo successivamente in crisi tale modello liberista ed “export-led”. In seguito, la mediazione al conflitto operata dallo Stato attraverso un uso, ahimè, spesso distorto della spesa pubblica ha gravato nel tempo il sistema con un’alta e mal distribuita imposizione fiscale e servizi pubblici spesso inefficienti. Il connubio di inflazione e svalutazione del cambio avevano reso possibile negli anni 1970 e ’80 la sostenibilità di tale modello. Il combinato disposto della tolleranza per l’evasione fiscale e degli alti tassi di interesse per tenere l’Italia nel Sistema Monetario Europeo (1979-1992) fecero successivamente esplodere il debito pubblico. Dopo il tentativo dello SME, la moneta unica ha rappresentato per la borghesia italiana (o per parte di essa) il tentativo ultimo di imporre al paese la disciplina del paese europeo più virtuoso.
Dopo che i bassi tassi di interesse sul debito pubblico hanno consentito fra il 1999 al 2008 di mascherare i problemi – così riprende il ragionamento implicito nel disegno Monti – con la crisi i nodi sono venuti al pettine e ineludibili le scelte imposte dalla moneta unica. Non rimane al paese che sottoporsi a una cura da cavallo: realizzare il pareggio di bilancio con avanzi primari (al netto del pagamento degli interessi) tali da ridurre il debito pubblico; liberalizzare il mercato del lavoro e rendere quanto più flessibile l’uso del lavoro riducendo i salari e accrescendo la produttività; liberalizzare e privatizzare quanto è possibile (inclusi istruzione, sanità e pensioni) per ridurre la spesa pubblica; contenere l’invadenza dello Stato e recuperare efficienza. Tutto ciò consentirebbe di riguadagnare credibilità di fronte ai mercati, con conseguente riduzione dei tassi di interesse, e competitività esterna confidando che questa funga da traino a un po’ di ripresa.
Si tratta di idee semplici e non nuove nei riguardi dei destini dell’economia italiana (rimando a Fernando Vianello, Lo sviluppo capitalistico italiano dal dopoguerra al «miracolo economico»: una veduta di insieme, in Il profitto e il potere, Torino 1979). Si tratta di posizioni che ripropongono una borghesia italiana retriva, incapace di una visione progressiva della società italiana in senso inclusivo di vaste masse di popolazione, sempre volta alla difesa dei propri privilegi. Nei salari è visto il nemico ultimo dello sviluppo, e non nella propria incapacità a perseguire un processo di sviluppo moderno e tecnologicamente avanzato. Sebbene qualcosa Monti abbia espresso nei confronti dell’evasione fiscale – gli va dato atto della felice frase che chi evade mette le mani nelle tasche di altri italiani – poco si dice dei ceti parassitari che si annidano nel lavoro autonomo e a vari livelli della pubblica amministrazione, i topi nel formaggio di Labiniana memoria. Si tratta da ultimo di un modello da neo-mercantilismo Einaudiano di serie B – in quanto non sorretto dalle istituzioni che puntellano quello tedesco: consenso di sindacati forti, uno stato lungimirante e paternalista che investe nel benessere sociale, in ricerca e istruzione. Anzi, proprio queste istituzioni il Montismo vuole demolire rivelando la sua pochezza. Altro che Economia Sociale di Mercato,[1] liberismo Manchesteriano sarebbe un termine più proprio ( come suggerisce l’approvazione di Marchionne). La visione dell’Europa che tale modello presuppone non è che la proiezione di quello nazionale. Lo sviluppo europeo non si basa sullo sviluppo del mercato interno sostenuto da livelli crescenti di benessere, ma si affiderà al traino delle economie emergenti. In quest’ambito l’Italia delegherà la ripresa a un po’ di subfornitura verso l’economia tedesca – per quanto consentito dalla concorrenza ai paesi dell’est europeo ed emergenti – e ai mercati extra-europei. Lo sviluppo di politiche europee, fiscali, monetarie e distributive, concertate e volte al sostegno della domanda interna sono estranee all’agenda Monti in quanto potrebbero allentare il rigore necessario alla definitiva cancellazione delle incrostazioni istituzionali che impediscono uno sviluppo liberale e liberista della società italiana (i famosi “lacci e lacciuoli” cari a Guido Carli). Alla Germania tutto questo va bene in quanto disinteressata a un’Europa progressiva, quanto piuttosto volta a perseguire il ruolo di Svizzera dei mercati globali con un retroterra europeo che le funga da bacino di manodopera a buon prezzo e da mercato residuale.
Si tratta dunque, come s’è detto, di un progetto che, se non nuovo, è ben chiaro. Non lo deve naturalmente essere per gli elettori – e infatti esso non viene con questa chiarezza esplicitato essendo la presa elettorale del centro pro-Montiano già alquanto debole. Il punto è che Monti sa bene dove andare, mentre la copertura dei poteri forti cattolici, interessati allo sviluppo del terzo settore in luogo dello stato sociale, gli offre la copertura di un ambiguo messaggio sociale. Non sappiamo se l’esito elettorale darà a Monti i numeri per rendere la sua presenza in una coalizione di centro-sinistra indispensabile. Indipendentemente da questo, cioè persino se il centro-sinistra avesse i numeri per governare (e il fegato per farlo), dispone esso di un disegno veramente alternativo a quello sopra delineato?
[1] Si badi a non confondere Socialdemocrazia con “Economia sociale di mercato”. La prima trova dopotutto la propria ispirazione nella visione conflittuale del capitalismo propria del marxismo, mentre la seconda espressione è sinonimo di “Ordo-liberismo”, una filosofia economica volta a tollerare la presenza dei sindacati nella misura in cui assecondino le istituzioni del libero mercato, e fondamentalmente basata sulla teoria economica dominante.
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