Nel ricordare che il 2 giugno è la festa della Repubblica, non delle forze armate, lo storico ripercorre la storia delle celebrazioni e il loro senso. Tratto da Il Manifesto, 3 giugno 2013.
Nel 2011, un film, (I primi della lista, di Roan Johnson), raccontò la «psicosi» del colpo di stato che aveva caratterizzato gli anni ’70. I tre ragazzi che scappavano in Austria per sottrarsi a un ipotetico golpe dei militari, erano stati messi in allarme dallo spiegamento di forze armate alla vigilia della ricorrenza 2 giugno. Allora la «festa» era così: sfilata di reparti corazzati, Frecce tricolori, ostentazione di una potenza bellica del tutto incongrua; quella concentrazione di carri armati, in piena strategia della tensione, era guardata a sinistra con un misto di timore e di rabbia. Oggi quella psicosi può anche far sorridere. In realtà, allora, la sfiducia nello Stato era largamente motivata dall’incalzare delle stragi impunite e delle inquietanti manovre del potere invisibile.
Nel 1977, raccogliendo anche queste sensazioni, la Festa della Repubblica del 2 giugno, fu «retrocessa» alla prima domenica del mese, perdendo così il suo carattere festivo. La motivazione ufficiale del provvedimento rinviava, però, soprattutto alle esigenze di non perdere salari e produttività in un momento difficile della nostra economia. Una linea di pensiero che è affiorata, anche recentemente, nelle file della Lega Nord quando si è trattato di festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia («quanto ci costa?»).
Poi, nel 2000, fu Ciampi a ripristinarla. Lo stesso Ciampi si adoperò (nel 2005) perché alla parata militare e durante la deposizione della corona d’alloro presso il Milite Ignoto, previste dal cerimoniale, insieme a tutte le Forze Armate, a tutte le Forze di Polizia della Repubblica, al Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco e della Croce Rossa Italiana, sfilassero anche il Corpo di Polizia Municipale di Roma in rappresentanza di tutte le Polizie Locali d’Italia ed il personale della Protezione Civile: un tentativo esplicito di allargare verso il basso la condivisione di quella cerimonia, tenendo conto sia dei «localismi» che erano affiorati prepotentemente sulla scena politica della Seconda Repubblica, sia dell’impossibilità di far coincidere la rappresentazione simbolica della nostra unità nazionale con la tradizione delle Forze Armate, logorata dalla progressiva «professionalizzazione» e dagli altri cambiamenti subentrati dopo l’abolizione degli obblighi di leva.
Le ragioni di Ciampi erano evidenti. Nella desertificazione dello spazio pubblico di quella che noi intendiamo per religione civile, con un’intera classe politica soggiogata dall’egemonia berlusconiana, toccò alla Presidenza della Repubblica tentare di indicare dei valori diversi da quelli di una cittadinanza-bancomat, in cui l’« essere italiani» coincide semplicemente con la possibilità di fruire di determinati servizi e beni materiali. Ma il suo tentativo fu indebolito da alcune contraddizioni interne, come quelle racchiuse nella proposta di una memoria condivisa che cercava di tenere insieme Cefalonia e El Alamein, vittime e carnefici, Resistenza e Repubblica di Salò.
E’ stato poi Napolitano a rilanciare la Festa, collegandola più opportunamente al 25 aprile. Le due date si tengono insieme e cadono insieme. Il 2 giugno 1946, con il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, a cambiare, infatti, non fu solo la forma dello Stato. Fu quella una stagione in cui si cercò di proporre anche un nuovo fondamento ai valori di una religione civile azzerata da venti anni di «culto del Duce».
«Le parole ‘patria’ e ‘Italia’ che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola», scrisse allora Natalia Ginzburg, «perché sempre accompagnate dall’aggettivo fascista, perché gonfie di vuoto, ci parvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D’un tratto alle nostre orecchie risultarono vere».
E fu soprattutto Piero Calamandrei a battersi per rendere esplicita questa proposta, fondandola sull’antifascismo e su una Resistenza interpretata come un movimento di popolo, spontaneo, cresciuto dal basso. Partendo da questa concezione, Calamandrei cercava di sottrarre il paradigma di fondazione della nostra Repubblica all’ipoteca (che gli appariva effimera) dei partiti antifascisti per riconsegnarla direttamente al vissuto e all’esperienza collettiva di tutti gli italiani. Di qui la sua insistenza sul «carattere religioso» della lotta partigiana, non solo nei suoi aspetti legati al sacro e al divino, che pure affiorano da alcune lettere dei partigiani condannati a morte, ma soprattutto in quelli più marcatamente laici che avevano portato molti a sacrificare la propria vita per il bene degli altri, in una disposizione morale al cui interno si era preferita la morte al «tradimento lucroso di un’idea».
La nostra Costituzione era «murata con il sangue» e scaturita da uno slancio di volontariato spontaneo, senza precedenti nella storia italiana. Costruire una religione civile e dare forza alla Costituzione erano due operazioni così intrecciate da sembrare la stessa cosa: entrambe presupponevano una requisito indispensabile; quello di una partecipazione politica dal basso così come c’era stata nella Resistenza. Una religione civile senza il respiro caldo dell’impegno e dell’attivismo politico sarebbe precipitata nel burocratismo grottesco dei «riti» fascisti; e, quanto alla Costituzione,
«le costituzioni», scriveva allora Calamandrei, «vivono fino a che le alimenta dal didentro la forza politica: se in qualche parte ristagna questa circolazione vitale, gli istituti costituzionali rimangono formule inerti, come avviene nei tessuti del cuore umano, dove se il sangue cessa di affluire, si produce quella mortale inerzia che i patologi chiamano infarto».
In tutti gli anni dell’Italia repubblicana, la partita per rendere pienamente «inclusiva», nella forma voluta dal dettato costituzionale, la democrazia italiana si sarebbe giocata soprattutto sulla capacità di tener vivo ed alimentare questo slancio. Se serve a questo, vale la pena festeggiare il 2 giugno.
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