L’introduzione e i primi due capitoli [I. Estinzione dell’inconscio? Una recente mutazione antropologica; II. Evaporazione del Padre e discorso del capitalista] de L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicanalitica [Milano, Raffaello Cortina, 2010]. Con esercitazione in coda.
Introduzione
I. Estinzione dell’inconscio? 1.1 Il deserto cresce; 1.2 Il soggetto dell’inconscio; 1.3 Una mutazione antropologica: estinzione dell’inconscio; 1.4 Clinica del vuoto; 1.5 Il fondo psicotico della nuova psicopatologia; 1.6 Le identificazioni solide; 1.7 Il nuovo principio di prestazione.
II. Evaporazione del Padre e discorso del capitalista 2.1 Il discorso del capitalista come distruzione dei legami; 2.2 L’insoddisfazione come prodotto del discorso del capitalista; 2.3 Il narcinismo ipermoderno; 2.4 Evaporazione del Padre, universalismo e nuove segregazioni; 2.5 Cosa resta del padre; 2.6 L’epoca della precarietà e le patologie del legame; 2.7 Legami alla deriva; 2.8 Il rischio del legame.
Schema del testo esaminato
Introduzione
È un errore considerare il soggetto dell’inconscio come un dato di natura, o peggio come un’essenza sovrastorica immune dalle trasformazioni sociali. E un errore anche pensare che la sua esistenza sia garantita in quanto espressione ontologica della realtà umana. Di conseguenza è, a mio giudizio, un grave errore non contemplare la possibilità disastrosa che il soggetto dell’inconscio possa declinare, eclissarsi, persino estinguersi.
Anche per questa ragione Jacques Lacan [1901-1981] ha sempre insistito sulla necessità di evitare di attribuire all’inconscio uno statuto ontologico mostrandone invece la valenza eminentemente etica o, come si esprime in apertura del Seminario XI, “preontologica” [J. Lacan, Il seminario, Libro XI]. Perché il soggetto dell’inconscio preservi la sua forma specifica di esistenza è necessario che la psicoanalisi installi la condizione della sua operatività. Non c’è soggetto possibile dell’inconscio se non attraverso l’esperienza della psicoanalisi. Per questa ragione Lacan poteva affermare, non senza un certo gusto per il paradosso, che lo psicoanalista è parte integrante del concetto di inconscio.
In questo libro avremo modo di studiare le condizioni cliniche e sociali che disattivano (tendenzialmente) il funzionamento del soggetto dell’inconscio. Le forme attuali della psicopatologia (dipendenze patologiche, anoressie, depressioni, somatizzazioni, attacchi di panico) sembra confermino, con una virulenza drammatica, questa possibilità di una estinzione del soggetto dell’inconscio, di una sua progressiva abrogazione.
La psicopatologia tradizionale ci aveva già confrontati con forme radicali di rifiuto del soggetto dell’inconscio: il lavoro della paranoia e quello della melanconia vengono descritti da Freud e da Lacan come lavori antagonisti al lavoro del soggetto dell’inconscio. Nell’attualità questo antagonismo al soggetto dell’inconscio sembra informare tutte le forme prevalenti della psicopatologia. Se il grande passo di Freud è stato quello di mostrare che il soggetto dell’inconscio era l’artefice di tutte quelle manifestazioni della realtà umana che sfuggivano al dominio intenzionale della coscienza (sogni, sintomi, lapsus, sbadataggini, dimenticanze, motti di spirito, coazioni a ripetere) e che avevano il potere di imprimere alla sofferenza sintomatica il carattere metaforico di un messaggio cifrato, di un discorso singolare, eccentrico a ogni discorso comune già stabilito, il quale esigeva di essere ascoltato e interpretato, l’attualità della clinica ci confronta sempre più frequentemente con forme della sofferenza che sembrano aver interrotto ogni contatto con l’inconscio, che, più radicalmente, sembrano decretare in primis non tanto e non solo la morte della psicoanalisi, come si sente frequentemente dire, ma la morte, assai più grave, del soggetto stesso dell’inconscio.
Cosa ci insegnano le nuove forme sintomatiche della clinica contemporanea? Ci insegnano che in esse non è più in gioco primariamente il desiderio del soggetto come manifestazione principe del soggetto dell’inconscio, ma il suo annullamento nichilistico. E ci insegnano pure che questo annullamento tende a manifestarsi secondo due direttrici fondamentali: come rafforzamento narcisistico dell’Io che dà luogo a identificazioni solide che irrigidiscono sterilmente l’identità soggettiva o come un’esigenza imperiosa di godimento che travalica ogni principio di mediazione simbolica per imporsi come un comandamento tanto assoluto quanto mortifero. E così che in questo libro propongo di differenziare in due grandi capitoli la nuova clinica psicoanalitica: il capitolo della clinica delle identificazioni solide e il capitolo della clinica dello strapotere dell’Es.
L’“evaporazione del Padre“, per usare una felice espressione di Lacan [Nota sul padre e l’universalismo, tr. it. in “La psicoanalisi”, 33,2003, p. 9] sulla quale ritorneremo frequentemente, costituisce lo sfondo sociale delle profonde trasformazioni che hanno investito la psicopatologia. Soggetti spaesati, alla deriva, vuoti, privi di punti di riferimento ideali, ingessati in identificazioni conformistiche, indifferenti, chiusi monadicamente nelle loro nicchie narcisistiche, prigionieri delle loro pratiche di godimento dove l’Altro è assente; legami liquidi, sbriciolati dalla potenza idolatrica dell’oggetto di godimento offerto illimitatamente dal sistema globale del mercato, sempre a disposizione, contiguo, adesivo, incalzante; legami morti, privi di desiderio, asettici, smembrati, fragili, inconsistenti, legami che riducono la dimensione dell’incontro con l’Altro alla riproduzione monotona dello Stesso. Questo libro interroga l’epoca ipermoderna come l’epoca dell’evaporazione del Padre provando a inquadrare le cosiddette nuove forme del sintomo all’interno di questo passaggio epocale.
L’epoca ipermoderna è l’epoca dell’individualismo atomizzato che s’impone sulla comunità, è l’epoca del culto narcisistico dell’Io e della spinta compulsiva al godimento immediato che stravolgono il circuito sublimatorio della pulsione imponendosi nella forma di un inedito principio di prestazione che situa il godimento stesso come nuovo dovere superegoico. Tutte le forme contemporanee del disagio della civiltà, tutta la nuova psicopatologia con la quale lo psicoanalista oggi si deve confrontare riflettono questa duplice tendenza: da una parte l’individuo staccato dalla comunità, atomizzato, ridotto a pura maschera sociale, prodotto di una identificazione solida, disinserito dai legami per un eccesso di alienazione ai sembianti sociali; dall’altra parte, la spinta della pulsione che rifiuta la castrazione simbolica e la sua necessaria canalizzazione sublimatoria per imporsi come una spinta sadiana al consumo dell’oggetto, come esigenza imperativa di ottenere un godimento senza passare dall’Altro. Si tratta di una contraddizione che attraversa il nostro tempo: chiusura monadica, ritiro libidico, compattamento narcisistico, indifferenza, apatia, rifiuto dell’Altro, adattamento passivo e conformista alle insegne sociali e tracimazione del godimento nocivo, compulsione per il nuovo, ricambio febbrile dell’oggetto, volatilizzazione dell’esperienza.
Il passaggio dal postmoderno all’ipermoderno, anche come viene apertamente teorizzato da Gilles Lipovetsky [Les temps hypermodernes, Grasset, Paris 2004] mette in evidenza come l’emancipazione dai modelli ideali rigidi della modernità non accentui più solo la “gadgetizzazione della vita”, il culto frivolo ed effimero del godimento, la fluidità vacua dei piaceri, ma generi fenomeni di insicurezza e di angoscia diffusa dove è la vulnerabilità del soggetto a essere in primo piano. Lo sanno bene gli psicoanalisti: senza l’ombrello protettivo del Padre l’insicurezza dell’esistenza emerge senza più schermi difensivi.
L’epoca ipermoderna non è allora solo l’epoca dell’alleggerimento della vita dai pesi ingombranti degli Ideali, ma è anche l’epoca della vita alla deriva, caotica, spaesata, priva di punti di riferimento, destabilizzata, smarrita, vulnerabile; della vita che si rifugia in identificazioni solide o che si dissipa in legami liquidi con l’oggetto di godimento.
Jacques Lacan, in una celebre conferenza milanese del maggio del 1972, ha provato a formulare il mathema preciso di questo nuovo sfondo sociale attraverso la figura concettuale del discorso del capitalista che costituisce un polo teorico rilevante per la mia riflessione [lacan in Italia, 1978]. L’epoca dominata dal discorso del capitalista definisce lo spazio dell’ipermodernità come quello spazio che si genera dall’esaurimento della funzione orientativa e strutturante dei grandi ideali moderni, sulla depoliticizzazione, sulla desacralizzazione, sulla demitizzazione, sull’affermazione incontrastata del potere globalizzante del mercato, sull’iperattività fondamentale dell’individualismo edonistico, sulla volatilizzazione e sull’accelerazione maniacale del tempo.
Il tempo ipermoderno è un tempo nel quale la desostanzializzazione del soggetto e il suo affrancamento dalla pesantezza e dalla rigidità degli ideali della tradizione espongono soggetto stesso a un vuoto insensato, a una “apatia frivola” che paralizza la sua vita emotiva [Lipovetsky, L’ère du vide. Essais sur l’individualisme contemporain, 1993], qualcosa che ritroviamo in certe analisi di Lipovetsky: l'”estasi del nuovo”, l’esaltazione euforica dell’attualità come tempo dell'”iperconsumo”, l’assolutizzazione di un “presente perpetuo” come aveva avuto modo di predire Orwell in 1984.
Consumare senza attendere, viaggiare, divertirsi, non rinunciare a niente: alle politiche dell’avvenire radioso subentra il consumare come promessa di un presente euforico [L‘ère du vide, p. 59].
L’epoca ipermoderna è, in questo senso, l’epoca dell’impero del discorso del capitalista nel quale la macchina del godimento sostituisce la macchina della rimozione. La caduta degli ideali della tradizione e delle forme disciplinari di regolazione della pulsione – il cui centro metapsicologico è costituito dall’attività della rimozione – ha lasciato il posto al culto sfrenato di un consumo che, come fa notare Lacan, consuma nichilisticamente se stesso in una circolarità diabolica. Ma qui le analisi di Lacan si discostano nettamente da quelle di Lipovetsky perché manca al sociologo francese la categoria di godimento e quella di pulsione di morte, senza le quali il rischio di enfatizzare l’estasi ludica e il reale come puro sembiante è sempre in agguato. Lacan condivide l’idea di fondo di Lipovestky che il tempo ipermoderno non abbia più nulla di tragico, non sia più il tempo di Antigone.
Ma per Lacan non è l’homo felix il protagonista di questo tempo ma piuttosto l’uomo del godimento promosso dal marchese De Sade. Per questo egli non trascura affatto il fattore mortifero che abita il godimento quando esso si sgancia perversamente dal desiderio. E ciò che accade nei legami sociali ispirati dal discorso del capitalista. Questo discorso si configura in effetti come una macchina del godimento che prescinde dalla dialettica della rimozione: il godimento dissipativo della pulsione di morte, strutturalmente antagonista e alternativo a quello del desiderio, trascina il soggetto in una deriva autistica che lo separa dall’Altro. È questa una tesi metapsicologica dell‘ultimo Freud: la potenza del Todestrieb [termine usato da Freud in Al di là del principio di piacere (1920) per “pulsione di morte”, NDR.] è una potenza che rompe gli argini di Eros, scioglie il legame del soggetto con l’Altro, distrugge e devasta la vita disinserendola dal campo dell’Altro.
In questo senso questo libro sostiene la tesi che la clinica contemporanea è sempre meno una clinica del desiderio e sempre più una clinica della pulsione di morte. Al suo centro non c’è più la problematica, centralissima nella nevrosi, delle vicissitudini della vita amorosa e delle sue interrogazioni soggettive: Posso accettare il rischio dell’amore? Posso trovare un amore che non generi solo insoddisfazione? Posso unire l’amore al godimento? Posso amarne una sola senza volerle tutte? Posso trovare un partner che non abusi di me? Posso amare come una donna e non come una madre? Posso evitare che ogni mio amore si trasformi in merda? Posso esserle fedele? Posso esserle infedele? Posso sopportare la sua mancanza? Posso amare la sua mancanza?
Queste interrogazioni costituiscono ancora oggi il cuore della problematica amorosa della nevrosi, ma sembra non occupino più alcun posto nel discorso del soggetto ipermoderno. Anche per questa ragione definiamo la nuova clinica come una clinica antagonista al discorso amoroso, come una clinica dell’antiamore. Questo significa che nei nostri nuovi pazienti non è più decisiva la difficoltà nevrotica di assumere, soggettivandolo, il proprio desiderio – di togliere la rimozione, nel linguaggio di Freud – , quanto la difficoltà di dare un senso alla propria vita, di avere delle passioni feconde, di animare la propria esistenza la quale appare invece come trascinata da una spinta acefala verso un godimento maledetto, nocivo alla vita, rovinoso, non inquadrato dal fantasma, non articolato al soggetto dell’inconscio, oppure bloccata sterilmente in un arroccamento difensivo, in una apatia indifferente, in una pseudoidentità che risulta dall’alienazione passiva alle insegne sociali.
Il soggetto ipermoderno, diversamente dal soggetto nevrotico, appare come privo di senso di colpa eppure massimamente colpevole. La sua colpa consiste nel non assumere col coraggio adeguato la fatica dell’esistenza e il programma inconscio del proprio desiderio. Non c’è assunzione etica del proprio desiderio, ma nemmeno la sua delega nevrotica. Si assiste piuttosto al suo annullamento, alla sua cancellazione, al suo aggiramento, alla sua negazione. E quello che mi colpisce maggiormente nei nostri nuovi pazienti: la dimensione del desiderio inconscio e della sua cornice fantasmatica sembra semplicemente non esistere più. L’uomo senza inconscio diventa così la figura inquietante che abita la scena del disagio contemporaneo della civiltà. Si tratta di un soggetto che tende a liquidare l’esperienza freudiana dell’inconscio come esperienza della verità, della differenza e del desiderio. Il consumo tossicomanico di sostanze, l’ipnosi narcisistica dell’anoressica, la spinta al divoramento compulsivo della bulimia, lo spaesamento del soggetto panicato, il ritiro libidico del depresso, la solitudine apatica dell’obeso, la lesione silenziosa di certi fenomeni psicosomatici, l’identificazione desoggettivata e conformistica ai sembianti sociali dominanti, la fatica crescente di esistere, di dare un senso alla propria presenza nel mondo, la fuga nella normalità come maschera di un falso adattamento definiscono il campo variegato della clinica contemporanea dove non è più il soggetto dell’inconscio a essere protagonista ma un uomo che appare, appunto, come sganciato, “disabbonato” come direbbe Lacan, separato drasticamente dal proprio inconscio.
La tesi sostenuta con vigore da Bauman e divenuta con successo una chiave di lettura della nostra epoca considerata come l’epoca dei legami liquidi, alla luce delle trasformazioni più recenti della psicopatologia, non è scorretta ma deve essere integrata. La liquidità è, infatti, solo un aspetto della civiltà contemporanea. Attraverso di essa si manifestano gli effetti della dissoluzione della funzione orientativa dell’Ideale edipico che aveva cementato la società moderna. L’altro aspetto del disagio contemporaneo della civiltà che dobbiamo registrare è quello delle identificazioni solide, come vengono definite in questo libro, ovvero quelle identificazioni che segnalano la tendenza del soggetto alla chiusura autistica, alla pietrificazione, alla solidificazione narcisistica come risposte estreme alla liquefazione generalizzata dei legami sociali.
In questo senso con il doppio riferimento allo “strapotere dell’Es” (formula con la quale originariamente Freud indicava la condizione del soggetto psicotico) e alle “identificazioni solide” intendo definire il campo di oscillazione della nuova clinica; da una parte l’aspetto incandescente, caotico, infernale, distruttivo della ripetizione pulsionale, dall’altra parte la tendenza del soggetto contemporaneo a dare vita a identificazioni compatte, pietrificate, irrigidite, senza crepe che appaiono come delle isole autistiche nel mezzo della liquefazione diffusa dei legami sociali. Se lo strapotere dell’Es trascina il soggetto verso la devastazione pulsionale, le identificazioni solide gli offrono l’illusione di una consistenza immaginaria che promette falsamente di salvare la vita da una deriva mortifera. Da una parte abbiamo una clinica che si occupa della liquefazione del legame con l’Altro a partire da una incandescenza della dimensione del godimento pulsionale che appare come non regolato dalla castrazione e privo della cornice inconscia del fantasma; dall’altra parte abbiamo una clinica che si occupa delle patologie dell’identificazione, delle identificazioni solide, compatte, prive di flessibilità, rigide che tendono a offrire una padronanza illusoria al soggetto a prezzo della cancellazione della sua stessa singolarità desiderante.
La prima è una clinica dell’Es senza inconscio, è una clinica dove domina la sregolatezza pulsionale, la spinta a raggiungere la scarica immediata, l’evacuazione delle tensioni interne, la tendenza compulsiva alla ripetizione di un godimento che prescinde dallo scambio con l’altro sesso, la tendenza ad agire, al passaggio all’atto, alla negazione di ogni mediazione simbolica (parola, pensiero), lo scivolamento verso un godimento mortifero, narcotizzante o devastante la vita. La seconda è invece una clinica dell’Io senza inconscio, una clinica dell‘iperidentificazione, dell’immedesimazione alienante e conformistica ai sembianti dell’Altro, una clinica dell’armatura narcisistica, del governo disciplinare del corpo, della negazione di ogni esperienza dell’alterità, del rifugio nella maschera sociale, dell’indifferenza e dell’apatia, dell’assimilazione desoggettivata all’insegna sintomatica.
Quello che accosta queste declinazioni alternative della clinica contemporanea (la prima hard, la seconda cool) è la comune cancellazione del soggetto dell’inconscio. Questa cancellazione si evidenzia innanzitutto nel declino della problematica soggettiva del desiderio e del discorso amoroso. La clinica dell’Es senza inconscio o dell’Io senza inconscio, la clinica della sregolazione pulsionale o delle identificazioni solide, è una clinica che non si istituisce più – come accade invece ancora nella clinica freudiana delle nevrosi – sulla dimensione singolare e indistruttibile del desiderio, ma sulla sua soppressione nichilistico-conformistica. Per questa ragione una delle tesi di questo libro è che la matrice delle cosiddette nuove forme del sintomo deve essere reperita nella clinica delle psicosi, del narcisismo e della perversione, nelle quali al centro non c’è l’istanza inconscia del desiderio ma la sua negazione nella forma di una prevalenza dell’agire pulsionale privo di articolazione simbolica o in quella di un aggiramento della castrazione – dalla quale invece il desiderio, come insegna Freud, scaturisce – che sospende la differenza sessuale e l’angoscia dell’incontro con l’altro sesso. La liquidità del godimento e la solidità dell’identificazione annullano la potenza creativa del desiderio congelandolo in una monade separata dall’Altro o disperdendola in una ricerca del nuovo che, in realtà, non è altro se non la ripetizione mortifera dello Stesso.
Come dobbiamo allora intendere questo disabbonamento del soggetto ipermoderno dall’inconscio? Come dobbiamo pensare questa tendenza all’estinzione del soggetto dell’inconscio, alla sua liquidazione sociale? Come possiamo articolare questa disinserzione del soggetto dal campo dell’Altro? Questo libro prova a rispondere a queste domande ricorrendo alla clinica psicoanalitica delle nuove forme del sintomo come forme antagoniste al lavoro dell’inconscio. La scommessa della psicoanalisi oggi non è più quella di portare la “peste” nella Civiltà borghese sconvolgendo il suo falso moralismo. Il secolo della psicoanalisi ha ampiamente metabolizzato quel virus con l’effetto, imprevisto dal suo fondatore, della sua parziale neutralizzazione e del suo addomesticamento. Soppiantata dalla diffusione degli psicofarmaci e dalle terapie cognitivo-comportamentali che pretendono di offrire soluzioni terapeutiche più efficaci e in tempi brevi, accusata di intellettualismo e di impotenza clinica, criticata nei suoi modelli epistemologici, giudicata, nella migliore delle ipotesi, un capitolo concluso della storia delle idee del Novecento, esclusa dal diritto di cittadinanza nella comunità della cosiddetta psicologia scientifica, ridotta a una superstizione ormai arcaica, la psicoanalisi oggi è obbligata a dare prove della sua forza anche confrontandosi con la nuova clinica. E questo un terreno privilegiato dove essa potrà rilanciare il suo progetto etico: mostrare che la cura dall’incombenza sempre più cupa della pulsione di morte e del suo potere devastatore non avviene nelle forme di una normalizzazione psicologica, come una ortopedia disciplinare dell’Io, ma può accadere solo riabilitando l’alleanza del soggetto col suo desiderio inconscio. La psicoanalisi è destinata a estinguersi se non ritroverà la ragione etica che fonda la sua pratica: rianimare il soggetto del desiderio, rendere il desiderio capace di realizzazioni creative, promuovere la singolarità irriducibile del soggetto come obiezione a ogni sua assimilazione conformistica.
I. Estinzione dell’inconscio? Una recente mutazione antropologica
1.1 Il deserto cresce
II nostro tempo è il tempo nel quale, come si esprimeva Heidegger, “il deserto cresce”. Ma che cosa significa, nella prospettiva della psicoanalisi, affermare che il nostro tempo è il tempo del deserto che cresce? Significa innanzitutto pensare che il nostro tempo è il tempo di un naufragio dell’esperienza del soggetto dell’inconscio, significa pensare che il nostro tempo è un tempo esposto al rischio di estinzione del soggetto dell’inconscio. Significa, più propriamente, pensare che il soggetto dell’inconscio non è un soggetto garantito per natura, non è un soggetto-essenza, ma un soggetto che è compito etico della psicoanalisi far esistere. Si tratta di una mutazione antropologica in corso: l’uomo senza inconscio sarebbe l’uomo ridotto all’efficienza inumana della macchina, al suo funzionamento automatico, privo di desiderio; sarebbe l’uomo animato da una spinta pulsionale acefala, imperativa, senza ancoraggio nella funzione simbolica della castrazione. Il deserto cresce, dunque, quando il soggetto dell’inconscio declina, quando il carattere, secondo Freud, “indistruttibile” del desiderio viene rigettato.
1.2 Il soggetto dell’inconscio
Quale genere di esperienza è quella del soggetto dell’inconscio? Come si è articolata originariamente in Freud questa esperienza? Che tipo di esperienza è l’esperienza freudiana dell’inconscio? Solo se si prova a rispondere a queste domande si può cogliere il senso di quale mutazione antropologica provocherebbe la sua estinzione. Provo allora a rispondere isolando almeno tre caratteristiche essenziali dell’esperienza freudiana dell’inconscio.
Prima caratteristica: l’esperienza dell’inconscio freudiano è innanzitutto un’esperienza di verità. Ma non di una verità impersonale, universale, assoluta, archetipica, collettiva; la verità in gioco nell’esperienza analitica non è la verità trascendentale della filosofia, né la verità priva di contraddizione della logica e nemmeno la verità universale della religione. La verità che concerne l’esperienza dell’inconscio è una verità che ci tocca nella nostra intimità, nel nostro essere più singolare, nella nostra bizzarra, stramba, scabrosa, oscena e irriducibile particolarità. Tuttavia questa verità, essendo sempre in fuga, non coincidendo mai con la rappresentazione narcisistica di noi stessi, essendo sempre, come si esprimeva Lacan, nel soggetto ma trascendente il soggetto, si dà solo come rimossa, si manifesta come un’esperienza di decentramento, di perdita di padronanza, di spiazzamento dell’Io. La verità analitica, infatti, non assume mai le forme ontologiche dell’adaequatio intellectus et rei poiché il soggetto non può avanzare nei suoi confronti nessuna pretesa di governo; non è mai il soggetto che la determina, essendone piuttosto, in una parola chiave dell’insegnamento di Lacan, “assoggettato”.
E questo il significato dell’apologo lacaniano della verità che si trova esposto in La cosa freudiana. La verità parla solo laddove il soggetto si eclissa, laddove il pensiero e l’essere si disgiungono evidenziando che “io” non sono mai quello che penso di essere poiché il mio essere trascende sempre il mio pensiero. E quello che si esprime in ogni formazione dell’inconscio (lapsus, sogno, atto mancato, sbadataggine, sintomo): ciò che pensavo di essere si incrina di fronte a un’altra verità che sgorga nei punti di incertezza e di vacillamento della padronanza dell’Io. Diversamente da quanto si istituisce come certezza indubitabile attraverso il movimento del cogito cartesiano (cogito ergo sum), non solo io non sono quello che penso di essere, ma posso accostare la verità del mio essere soltanto attraverso il cedimento dell’illusione del governo razionale e autocratico di me stesso, del potere della mia “volontà di volontà”, dell’affermazione narcisistica della mia immagine come autosufficiente. La verità dell’inconscio freudiano, in effetti, parla (“ça parle“) solo dove “ça souffre“), ovvero solo dove si concentra il mistero spesso e pungente della sofferenza sintomatica del soggetto, dove il soggetto. Il soggetto dell’inconscio è un “soggetto nel soggetto, trascendente il soggetto”, dove il soggetto perde ogni padronanza su se stesso. In questo senso la verità analitica resta assolutamente eccentrica alla dimensione puramente teoretica della verità del logos filosofico e di quella puramente logico-formale e quantitativa di ogni ratio scientista.
Seconda caratteristica dell’esperienza freudiana del soggetto dell’inconscio freudiano: l’esperienza dell’inconscio è un esperienza della differenza. Cosa significa? L’esperienza dell’inconscio come esperienza della verità mostra come l’incontro con l’inconscio implichi sempre un effetto di riduzione dell’Io, di alterazione, di erosione, di indebolimento della sua funzione di governo verticale della personalità. L’esperienza freudiana dell’inconscio non è mai un’esperienza di identità ma, casomai, di disidentità, di scompaginamento, di imbastardimento dell’identità; è esperienza del soggetto come differenza, come singolare assoluto, come non-comune, non-comparabile, non-uniformabile. Il soggetto dell’inconscio emerge sempre come una discontinuità nella trama costituita del discorso universale. Per questa ragione la psicoanalisi eleva alla dignità della verità tutte quelle espressioni apparentemente più infime e scabrose della vita del soggetto; il catalogo freudiano di queste espressioni (lapsus, motto di spirito, sintomo, atto mancato, sogno) riassume l’esperienza dell’inconscio come antiuniversale, non generalizzabile, resistente a ogni comparazione, perché vi può essere manifestazione dell’inconscio – in un lapsus come in un sogno – solo quando v’è caduta del discorso universale, solo quando l’omogeneità di questo discorso viene bucata dall’emergenza di una particolarità indomabile dal “senso comune” di ogni discorso già stabilito.
Terza caratteristica: l’esperienza dell’inconscio è un ‘esperienza del desiderio. Del desiderio, precisa Freud, in quanto “indistruttibile”, ovvero impossibile da redimere, educare, governare, adattare. In questo senso l’indistruttibilità del desiderio evoca un nocciolo singolare che resiste a ogni addomesticamento, a ogni dressage normalizzante di tipo disciplinare. Il movimento del desiderio è un movimento insistente di apertura verso l’Altro. Non bisogna mai ridurre la forza del desiderio inconscio alla manifestazione di una interiorità psicologica. L’esperienza della indistruttibilità del desiderio è un’esperienza di apertura che rigetta ogni versione solipsistica dell’apparato psichico. L’apertura del desiderio, la sua trascendenza fondamentale, invoca l’alterità come radice ultima dell’esperienza dell’inconscio. In questo senso l’incontro col soggetto dell’inconscio porta con sé l’incrinatura dell’ideale morale dell’autosufficienza dell’Io e di ogni sua supposta impermeabilità sostanziale.
Non c’è esperienza del desiderio inconscio se non come apertura all’Altro – a quell’Altro che abita il soggetto e a quell’Altro verso il quale il desiderio del soggetto si dirige oltrepassando i confini chiusi del proprio Io. E questo un altro aspetto dell’indistruttibilità del desiderio: esso è “indistruttibile” proprio perché non dipende dalla volontà dell’Io, non è portato dall’Io, non è deciso dall’Io, ma, al contrario, è ciò da cui la volontà dell’Io dipende, è ciò che porta l’Io, che lo rende, appunto, “assoggetto” (asujet, per Lacan). Per Freud questo collocava la matrice del desiderio umano nelle esperienze infantili rimosse: elementi, frammenti, mozziconi di infanzia che non tramontano mai; passato che non passa, passato che ritorna; pezzi di reale che, seppure rimossi, o, se si preferisce, proprio perché rimossi, non rinunciano a ritornare, come spettri anarchici, sulla scena del mondo facendo valere le loro antiche ragioni, interferendo sullo scorrere falsamente lineare del nostro tempo comune.
1.3 Una mutazione antropologica: estinzione dell’inconscio
La mia tesi è che sia in corso una profonda mutazione antropologica promossa dal dominio del discorso del capitalista; la mia tesi è che nella civiltà ipermoderna, dominata dal discorso del capitalista [il discorso del capitalista non può essere ridotto a una versione storica del capitalismo come sistema economico. Si tratta piuttosto di una figura concettuale insieme più ampia e più specifica proposta da Lacan per definire una certa declinazione del legame sociale caratterizzata, tra l’altro, dal fatto che viene meno l’esperienza cruciale della castrazione simbolica e, di conseguenza, il godimento dell’oggetto – senza appunto l’ormeggio simbolico offerto dalla castrazione tende ad affermarsi come un godimento puramente dissipativo, senza limiti, compulsivo, imparentato con il carattere nichilistico-distruttivo della pulsione di morte. l‘esperienza del soggetto dell’inconscio come esperienza di verità, di differenza e del carattere indistruttibile del desiderio rischi l’estinzione perché è un’esperienza che risulta inassimilabile all’ordine di quel discorso].
La mia tesi è che la civiltà ipermoderna e le sue declinazioni sintomatiche prevalenti (anoressie e bulimie, obesità, tossicomania, dipendenze patologiche, depressioni, attacchi di panico) diano luogo a una tendenziale soppressione del soggetto dell’inconscio freudiano. In altre parole, il mio punto di partenza consiste nel considerare che il nostro tempo, il tempo in cui viviamo, è un tempo antagonista al tempo del soggetto dell’inconscio. Proverò a radunare sinteticamente in cinque punti le ragioni di questo antagonismo.
Primo punto: il nostro tempo è antagonista all’esperienza del soggetto dell’inconscio freudiano perché, se tale esperienza è, come abbiamo appena visto, esperienza dell’incommensurabile, del singolare assoluto, del desiderio come differenza, ciò che oggi sembra dominare il grande Altro del campo sociale è invece l’impero del numero, della cifra, della comparazione quantitativa, della quantificazione scientista, della negazione del desiderio come l’impossibile da misurare. Il nostro tempo è il tempo del trionfo iperpositivista dell’oggettività che tende a considerare l’inconscio psicoanalitico come una forma arcaica e irrazionale di superstizione, introducendo surrettiziamente un nuovo concetto di inconscio ridotto al neuronale, al cerebrale, a una mera alterazione biochimica dell’organismo, come quando si vuole ridurre il sentimento dell’amore a una serie di turbolenze delle endorfine che mobilitano in modo iperattivo le nostre reazioni neuronali, ovviamente destinate in modo inesorabile a degradare nel corso del tempo.
Secondo punto: il nostro tempo è antagonista all’esperienza dell’inconscio freudiano perché questa esperienza esige pensiero e, dunque, esige tempo per pensare, disponibilità a perdersi, a incontrare il caos, l’imprevisto, il reale come l’impossibile da pensare. Il nostro tempo è un tempo sordo al tempo “lungo” del pensiero perché è il tempo della maniacalizzazione dell’esistenza – della sua agitazione perpetua, della sua intossicazione per eccesso di stimolazioni – che rende impraticabile il concetto stesso di esperienza dissolvendola nella tendenza compulsiva alla “scarica”, all'”agire”, al passaggio all’atto privo di pensiero e totalmente desimbolizzato. A questo proposito due definizioni di Agostino Racalbuto mi sembrano preziose ed efficaci per definire la mutazione antropologica in corso: “perversione del cambiamento” e “spazio drogato”.
Con la prima formula egli indica con precisione il risvolto psicopatologico di questa accelerazione costante della temporalità ipermoderna. Nella ricerca affannosa di nuove sensazioni e di nuovi oggetti di godimento, nel culto esasperato del “nuovo” e del cambiamento continuo dell’oggetto, il soggetto ipermoderno prova ad aggirare perversamente lo scoglio della castrazione, operando un suo rinnegamento radicale, cercando cioè di annullare gli effetti di limitazione del godimento che la castrazione simbolica ha il potere benefico di introdurre. Con la seconda definizione Racalbuto vuole invece definire l’effetto di intasamento mentale provocato dalla serie moltiplicata di oggetti frammentati, non simbolizzati, non mentalizzati, di oggetti beta nel linguaggio di Bion, che impediscono il tempo del pensiero e della elaborazione psichica, il tempo della simbolizzazione, a causa di un eccesso di presenza e di iperstimolazione.
Terzo punto: il nostro tempo è antagonista all’esperienza dell’inconscio freudiano perché tale esperienza è esperienza del carattere indistruttibile del desiderio nel suo rapporto costituente con la Legge. Essa mostra che senza l’esperienza del limite, della castrazione dell’immediatezza del godimento, non si dà mai esperienza del desiderio, la quale, per esistere, necessita, appunto, dell’alleanza fondamentale con la Legge. Sebbene il desiderio non si appiattisca mai sulla Legge, non vi si identifichi mai risolutivamente (tranne nel programma fantasmatico del desiderio ossessivo che però è una patologia del desiderio), per realizzarsi creativamente il desiderio necessita del sostegno simbolico della Legge. Per questo Lacan ha sempre insistito sulla necessità di pensare insieme, e non in una semplice e cieca opposizione, desiderio e Legge, di pensare, in altre parole, l’alleanza che li costituisce come il retro e il verso di un unico foglio. Per questa ragione l’esperienza freudiana dell’inconscio è l’esperienza di una tensione conflittuale che unisce e, mentre unisce, differenzia il desiderio e la Legge. Il soggetto freudiano è, effettivamente, un soggetto diviso tra il programma normativo del principio di realtà e quello edonistico del principio di piacere. Il suo disagio scaturisce proprio dalla difficile e precaria articolazione di questi due programmi.
Diversamente le forme sintomatiche più recenti del disagio della civiltà disegnano una configurazione inedita di questa conflittualità. Il desiderio svincolato dalla Legge smarrisce la sua forza propulsiva per integrarsi anonimamente in un programma collettivo di godimento sconnesso dalla castrazione simbolica e privo di soddisfazione, attivato dal discorso del capitalista. In questa prospettiva Herbert Marcuse in L’uomo a una dimensione, per definire lo stato d’essere della soggettività nell’epoca delle società industrialmente avanzate rette dal programma iperedonistico di un accesso falsamente democratico al godimento, introduceva già, con grande lungimiranza, la figura, volutamente paradossale, della “desublimazione repressiva”. Mentre il sogno ingenuo di una civiltà liberata, coltivato dallo stesso Marcuse in Eros e civiltà, era quello di una “sublimazione non repressiva” [Vedi H. Marcuse, Eros e civiltà, tr, it. Einaudi, Torino 1980, p. 224] cioè di una emancipazione della pulsione dai vincoli repressivi indotti dal sistema capitalista che però assumeva come dato incontrovertibile quella quota necessaria di sacrificio pulsionale richiesto dalla “repressione fondamentale” che istituisce il programma della civiltà in quanto tale, la società industriale avanzata mobiliterebbe invece una “travolgente desublimazione”, un iperedonismo diffuso che vorrebbe gettare alle sue spalle ogni limite al godimento. In questo modo il sacrificio pulsionale viene negato nel nome di una falsa liberazione della pulsione che si svincola da ogni forma di sublimazione, promettendo un godimento immediato, desublimato appunto, senza mediazioni simboliche e senza più limiti. In questo senso Marcuse adotta l’espressione paradossale di desublimazione repressiva per indicare come, in questa apparente diffusione della libertà, è solamente la realtà del dominio a intensificarsi [Vedi H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, tr. it. Einaudi, Torino 1967, pp. 90-91].
La facilitazione dell’accesso al godimento, la via libera – priva del necessario passaggio sublimatorio – concessa alla scarica pulsionale, una sessualità agita compulsivamente, senza veli e, dunque, senza Eros, scorporata dall’amore, insomma l’effetto generale della desublimazione della pulsione indotta dalla nuova civilizzazione, non risulta affatto disalienante e liberatorio, ma altamente repressivo poiché spegne il movimento del desiderio annullando ogni disimmetria critica nei confronti della realtà alla quale, invece, il soggetto tende a adeguarsi sempre più passivamente. Il culto ipermoderno del consumo non è tanto, come crede invece Gilles Lipovetsky, una forma alleggerita di edonismo che lascerebbe alle sue spalle la tragedia dell’alienazione e del nichilismo descritta da Marx e da Nietzsche – ovvero dell’uomo ridotto dal potere delle merci a essere una merce tra le altre e dell’uomo smarrito perché privo di punti di riferimento ideali – , realizzando una nuova forma dell’umano, quella del “turboconsumatore” che liberamente gestisce il suo piacere di consumare ciò che più aggrada i suoi “appetiti per le esperienze” in tempi ridotti all’istantaneità dei suoi “desideri” policromi [ Vedi G. Lipovetsky, Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007, in particolare pp. 71-155].
Questa rappresentazione della soggettività ipermoderna trascura pericolosamente la differenza tra godimento e desiderio o, se si preferisce, oppone semplicemente l’edonismo contemporaneo al culto ideologico del sacrificio senza cogliere come l’abbandono a un piacere scisso dallo scambio con l’Altro – effetto, come direbbe lo stesso Lipovetsky, della gadgettizzazione ipermoderna della vita – comporti di per sé una caduta del desiderio come desiderio dell’Altro e un’affermazione di un godimento tossico, sganciato dalla castrazione simbolica.
La libertà illimitata del consumo si può così rovesciare drasticamente in una vita emotiva che rinuncia all’incontro con l’alterità dell’Altro e si richiude narcisisticamente su se stessa e sul consumo ludico del futile e dell’aleatorio. In questo senso affermo che il nostro tempo è antagonista all’esperienza dell’inconscio perché tende a cancellare la tensione critica e conflittuale di Legge e desiderio in nome di un edonismo ben integrato al sistema e dell’affermazione entusiasta e disincantata dell’homo felix. Il nostro tempo è il tempo nel quale l’imperativo sadiano [il riferimento è al marchese de Sade; NDR] al godimento illimitato (la “desublimazione repressiva” della pulsione, nel linguaggio di Marcuse) è divenuto un comandamento sociale inedito, installandosi nel luogo stesso della Legge. Il nostro tempo è il tempo dove tutto si consuma e dove tutto, consumandosi, si distrugge, rivelando il suo carattere totalmente effimero ed evanescente; è il tempo chiuso del cinismo della monade di godimento. E il tempo dove domina il carattere inumano del discorso del capitalista che annichilisce la spinta singolare del desiderio nell’ideologia iperedonista per la quale ciò che solo conta è l’imperativo al godimento illimitato.
Quarto punto: il nostro tempo è antagonista all’esperienza dell’inconscio perché abolisce la dimensione della verità riassorbendola in quella del sapere biotecnologico. Come abbiamo visto, l’esperienza freudiana dell’inconscio è l’esperienza di una verità che scompagina il sapere costituito costringendolo a rinnovarsi permanentemente. Nella teoresi di Freud il sapere non esaurisce mai l’essere. Ed è proprio in questa non coincidenza che la partita dell’analisi trova la sua molla di innesco. La frase: “Non penso di sapere più cosa davvero sono… “ non accompagna forse sempre il soggetto che bussa alla porta dell’analista? Qui la certezza granitica del cogito cartesiano si fessura: non sono ciò che penso, ma ciò che sono oltrepassa la rappresentazione che io ho sempre avuto di me stesso; ciò che sono esorbita il mio pensiero. Tuttavia, questa erosione del sapere e delle sue certezze non comporta affatto per la psicoanalisi un rigetto del sapere. L’esperienza dell’inconscio non è l’esperienza di un relativismo nichilistico. Al contrario: l’esperienza dell’analisi prova, come afferma Lacan, a ricongiungere il sapere alla verità, offrendo al soggetto l’occasione per produrre un nuovo sapere sulla sua verità più particolare, sulla verità che tocca l’intimo del suo essere; prova, in altri termini, a ricostruire l’alleanza, recisa patologicamente, tra il desiderio e la Legge.
Il nostro tempo non sospinge affatto in questa direzione, nella direzione della ricostruzione di una possibile alleanza tra il sapere e la verità; esso sembra alimentare invece una loro disgiunzione netta affermando un primato sterile del sapere che riduce la verità dell’inconscio, come si è espresso una volta Christopher Bollas, a un mero “arcaismo”. Ciò che per il nostro tempo conta è solo il potere delle cose; il sapere come classificazione, catalogazione anonima, protocollare dei fatti, il sapere come manifestazione del potere grigio e formale della statistica. L’uomo della burocrazia anonima del sapere iperspecializzato che si adatta conformisticamente all’ordine stabilito delle cose prende il posto dell’uomo freudiano che vuole sapere l’enigma della verità del suo desiderio e che per questo è disposto a mettere in gioco tutte le sue certezze acquisite sfidando l’ordine costituito delle cose.
Quinto punto: l’esperienza della cura analitica è esperienza di una trasformazione che avviene grazie a una nuova alleanza che il soggetto stabilisce con l’inconscio. Non per esorcismo, negazione, colonizzazione dell’inconscio ma per una nuova alleanza (anche terapeutica) con il proprio inconscio. Sappiamo, infatti, come i cosiddetti effetti terapeutici di una cura analitica non si producono se non in “sovrappiù”, come si esprimeva Lacan, promosso proprio da questo riabbonamento inedito del soggetto al proprio inconscio. Nel nostro tempo, invece, l’esperienza “psy” della cura si pone come un’esperienza tendenzialmente disciplinare, come un’operazione di aggiustamento ortopedico del corpo o del pensiero del soggetto, come una riabilitazione del soggetto alla normalità, al principio di prestazione, all’assimilazione conformista al discorso stabilito. In questa direzione si muovono in effetti le terapie cognitivo comportamentali oggi sul mercato sempre più diffuse ed egemoni.
1.4 Clinica del vuoto
Abbiamo mostrato come il carattere sovversivo dell’esperienza dell’inconscio sia in contrasto con la civiltà del nostro tempo e come questa esperienza sia a rischio di estinzione soppiantata dal potere scientista della cifra, dagli oggetti di godimento, dalle pratiche psicoeducative di tipo disciplinare, dalla falsa liberazione promessa dal discorso del capitalista. Abbiamo anche accennato a come questo contrasto abbia generato una nuova psicopatologia, nuove forme del sintomo, una inedita clinica psicoanalitica. Il fondamento di questa nuova clinica è costituito da ciò che ho avuto modo di definire come una metamorfosi fondamentale che consiste nella riduzione della “mancanza a essere” al “vuoto” [M. Recalcati, Clinica del vuoto, anoressie, dipendenze e psicosi, 2002 ].
Se la “mancanza a essere” costituisce per Lacan la realtà umana come tale ed è il prodotto di una simbolizzazione fondamentale del vuoto, l’esperienza del vuoto è un’esperienza di riduzione, di reificazione, di ossificazione, di congelamento della mancanza. Nell’attualità ipermoderna, questa esperienza sembra imporsi univocamente su quella della mancanza: se l’esperienza umana della mancanza è la matrice del dinamismo del desiderio, della sua funzione di apertura verso l’Altro, verso lo scambio simbolico con l’Altro, quella del vuoto è un’esperienza di annullamento, di nirvanizzazione, di ibernazione, di pietrificazione, di cancellazione del desiderio. La mancanza ridotta a vuoto sarebbe allora una mancanza sconnessa dal desiderio. Questa metamorfosi è effettivamente l’indice di una sorta di mutazione antropologica: l’uomo della clinica del vuoto appare come un uomo senza inconscio.
Mentre la clinica classica della nevrosi era centrata sul conflitto fondamentale tra il programma del desiderio e quello della civiltà, la clinica del vuoto pone l’accento sulla necessità primaria di arginare l’angoscia, dunque sulla difesa dall’angoscia più che sulla rimozione del desiderio. Al suo centro non c’è più il programma del desiderio ma quello del narcinismo (narcisismo + cinismo) del godimento; del godimento dell’Uno […] autistico, monadico, del godimento senza l’Altro che si oppone allo scambio simbolico [Il termine “narcinismo” viene proposto da Colette Soler in Declinaciones de l’angustia, Anfora, Bogotá 2007, pp. 61-68].
Lo sfondo di questa metamorfosi è sociale e riguarda una modificazione essenziale del comandamento del Super-io. L’ideologia del Superio sociale freudiano era di tipo kantiano. Non a caso Freud individuava nel Super-io l’erede (legittimo) dell’imperativo categorico di Kant. La sua voce morale esigeva la rinuncia pulsionale come condizione di accesso alla civiltà; l’incivilimento imponeva, hegelianamente, l’annientamento dell’animale. Nella civiltà ipermoderna si assiste a un cambio di segno del programma del Super-io sociale: il suo comandamento non parla più con la voce kantiana della coscienza morale, la torsione ipermoderna del Super-io avviene in modo inedito attraverso l’elevazione del godimento, del “narcinismo” del godimento, a nuovo imperativo sociale. Il godimento viene, in altre parole, reso equivalente alla Legge [Il carattere epocale di una figura come quella di Silvio Berlusconi non consiste ovviamente nell’azione di governo che ha caratterizzato la sua missione politica, ma nel come la sua persona abbia suggellato paradigmaticamente questa equivalenza ipermoderna tra Legge e godimento. Non solo i suoi cosiddetti comportamenti privati, ma in modo assai più emblematico, la sua stessa azione legislativa (vedi, per esempio, le cosiddette leggi adpersonam), svelano come il massimo rappresentante della vita dello Stato miri alla realizzazione del proprio godimento situato non come capriccio estemporaneo, ma come di diritto inscritto nella funzione istituzionale che egli ricopre. Mentre l’epoca dominata da figure come quelle di Alcide De Gasperi o di Enrico Berlinguerappariva caratterizzata da una tensione etica tra Legge e godimento ancora edipica (si pensi solo alla politica dell’austerità teorizzata negli anni Settanta da Berlinguer), l’azione di Berlusconi appare totalmente svincolata da questo dissidio. Non c’è vergogna, senso di colpa, senso del limite appunto, poiché non c’è senso della Legge disgiunto da quello del godimento, perché il luogo della Legge coincide propriamente con quello del godimento. Tutto è apertamente (perversamente) giocato come se non esistesse castrazione. La figura del capo del governo riabilita così i fantasmi del Padre freudiano dell’orda, del Padre che ha diritto di godere di tutte le donne, del Padre bionico, immortale, inscalfibile, osceno e inattaccabile, non come limite al godimento (è il volto ancora rassicurante dei Padri della nostra prima Repubblica), ma come esercizio illimitato del godimento. In questo la figura di Berlusconi fa davvero epoca]. In questo si può notare la tendenza non solo cinica ma anche perversa del programma ipermoderno della civiltà. Il godimento assume la forma di un imperativo categorico che rifiuta la castrazione: Devi godere!
Il paradigma della clinica del vuoto è stato ricavato dalla clinica dell‘anoressia. E stata l’anoressica a insegnarci l’eterogeneità tra vuoto e mancanza, ma anche come il godimento del vuoto possa annichilire la dialettica del desiderio che scaturisce dalla mancanza. L’anoressica fa muro, come si suole dire, nei confronti del muro del linguaggio. Vive nella mortificazione, nella privazione apparente del godimento, per non pagare il prezzo della castrazione simbolica; mortifica il proprio corpo, lo disciplina attraverso un regime drastico di privazioni, ma fa tutto questo solo per sottrarsi alla mortificazione simbolica indotta dal significante. La scelta anoressica è cioè una scelta antagonista alla funzione simbolica della castrazione. In questo quadro clinico, l’esperienza del vuoto assume un carattere particolarmente rilevante. Il soggetto sembra operare una sconnessione dall’Altro attraverso un rifiuto radicale che, separandolo dall’Altro, lo concentra solo sul vuoto del proprio corpo e sulle strategie finalizzate alla sua preservazione. In questo modo la mancanza a essere dalla quale sorge il desiderio viene letteralmente ossificata nel vuoto che il soggetto pretende di saper governare.
Questa metamorfosi porta con sé una serie di implicazioni: l’affermazione narcisistica dell’Io ideale che recide ogni legame con l’Altro; la scelta perversa di un oggetto inumano (l’immagine speculare del corpo magro, il vuoto del proprio corpo) come partner fondamentale; le pratiche di governo del corpo finalizzate a custodire il vuoto; la solidificazione dell’identificazione idealizzante all’immagine del corpo magro con una finalità difensiva rispetto all’angoscia. La tendenza all’abolizione del soggetto dell’inconscio, alla sconnessione del soggetto dall’inconscio, l’assenza del soggetto dell’inconscio in quanto soggetto del desiderio, sembra dunque condizionare le nuove forme della psicopatologia. La clinica del vuoto è, in effetti, come vedremo bene nel corso di questo libro, una clinica in assenza di inconscio. Questo significa che nella nuova psicopatologia la coppia rimozione-ritorno del rimosso, centrale nella clinica della nevrosi, non è più operativa, ma viene sostituita da quella angoscia-difesa.
1.5 Il fondo psicotico della nuova psicopatologia
La clinica della nevrosi viene edificata da Freud a partire dal conflitto strutturale tra il programma singolare del desiderio e quello universale della civiltà. La rimozione per Freud non è un meccanismo di difesa tra gli altri ma un processo che costituisce l’inconscio in quanto soggetto di desiderio. Tutto ciò che viene rimosso, nella prospettiva freudiana, è ciò che risulta “inconciliabile” con la rappresentazione ideale e morale che il soggetto ha di se stesso. Tuttavia, ciò che viene rimosso – separato, scisso, allontanato dalla coscienza – continua a esistere, non viene semplicemente abolito o annullato, tende, in altre parole, a ritornare. Per questo, sempre secondo Freud, la rimozione è strutturalmente fallimentare. La sua barriera non è affatto un cemento impermeabile, una scissione di tipo verticale. Piuttosto resta indissociabilmente legata agli effetti di ritorno del rimosso che essa stessa provoca.
In questo senso nella clinica freudiana della nevrosi rimozione e ritorno del rimosso sono due facce della stessa medaglia. Ma che cosa ritorna? Che cosa non si lascia dimenticare? Che cosa insiste nonostante la rimozione? Ciò che ritorna è l’istanza indistruttibile del desiderio. Essa ritorna attraverso le formazioni dell’inconscio che sono formazioni di linguaggio: lapsus, atto mancato, sogno, sintomo, sbadataggine.
Questo significa che il ritorno del rimosso è un ritorno simbolico del reale. Dobbiamo sottolineare il termine “simbolico”. L’inconscio è strutturato come un linguaggio, secondo la formula classica di Lacan, significa che le sue espressioni tendono ad articolarsi in forme linguistico-simboliche. L’apparente insensatezza di un sintomo o la trama caotica di un sogno rivelano sempre una loro profonda strutturazione semantica.
In questo senso il soggetto dell’inconscio è sempre, come si esprimeva Franco Fornari, una volontà di significazione, un voler dire. E, in questo contesto, la responsabilità del soggetto consiste innanzitutto nella sua volontà di sapere la verità contenuta nella significazione enigmatica delle sue formazioni dell’inconscio, consiste nell’assumere soggettivamente quella verità, dunque nel sovvertire il movimento della rimozione; se la rimozione è un allontanare ciò che il soggetto non vuole incontrare – la parte di sé inconciliabile con la rappresentazione narcisistica che egli ha di se stesso – , la responsabilità del soggetto consiste nel voler sapere, dunque nel voler incontrare, questa parte di sé estranea a se stesso.
La clinica del vuoto segnala un declino del funzionamento dialettico della coppia freudiana rimozione-ritorno del rimosso avanzando la tesi di un fondo psicotico della nuova psicopatologia. Il che non autorizza in nessun modo ad affermare che i soggetti che portano le stimmate dei nuovi sintomi siano necessariamente psicotici. Piuttosto propongo di utilizzare il riferimento alla psicosi – come Freud aveva utilizzato il riferimento alla nevrosi per diagnosticare il disagio della civiltà della sua epoca o all’isteria per costruire i fondamenti della clinica psicoanalitica – come chiave di lettura del disagio della civiltà ipermoderna.
Questo riferimento alla clinica della psicosi come matrice della nuova psicopatologia ci obbliga a recuperare, seppur rapidamente, i concetti cardine della clinica freudiana della psicosi. Freud e Lacan sostengono una discontinuità strutturale di nevrosi e psicosi: la follia si genera dal rifiuto del disagio della civiltà, mentre la nevrosi è invece una malattia del disagio della civiltà. In termini freudiani classici questo significa che nelle psicosi lo “strapotere dell’Es” non tiene affatto conto della realtà esterna, mentre nelle nevrosi lo “strapotere” nei confronti del quale il soggetto soccombe è quello “della realtà esterna” che obbliga la rimozione dell’istanza del desiderio. Nelle psicosi si tratta, scrive sempre Freud, di un tipo speciale di rimozione: rimosso non è il desiderio inconscio ma la realtà stessa [Cfr. S. Freud, La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi, tr. it. in Opere, Boringhieri, Torino 1980, voi. 10, p. 39.], nelle nevrosi invece la rimozione colpisce l’istanza del desiderio generando quel dissidio tra Legge e desiderio che costituisce il centro instabile del soggetto freudiano.
Lacan riprende il cuore di questa differenziazione strutturale tra nevrosi e psicosi stabilita da Freud quando afferma che nella psicosi la parola del soggetto è l’espressione di una libertà solo negativa, di una parola che ha rinunciato a farsi riconoscere. Lo psicotico è, infatti, un soggetto che si vuole disperatamente libero e che dunque non tollera di integrarsi in nessun discorso già stabilito. La sua libertà vuole essere assoluta opponendosi al patto simbolico tra gli uomini; la separazione psicotica dai legami sociali non è dialettica perché manca di quella quota di alienazione necessaria che, come scrive Winnicott, la rende autenticamente possibile. In questo senso la separazione psicotica non è una separazione soggettivata, simbolizzata, ma è una separazione agita, non pensata, senza alcuna dialettica con l’alienazione. Se dunque nella nevrosi c’è un ritorno simbolico del reale rimosso attraverso le formazioni dell’inconscio, nelle psicosi c’è un collasso simbolico e un ritorno del reale come tale, senza alcun filtro simbolico.
E’ questa tutta la differenza psicopatologica che separa un’allucinazione da un sintomo. Mentre l’allucinazione s’impone al soggetto come un reale che impedisce ogni mediazione simbolica, il sintomo è una mediazione simbolica tra il reale dell’esigenza pulsionale e l’azione della rimozione. Se mi riferisco a un fondo psicotico della nuova psicopatologia è proprio per sottolineare come i sintomi contemporanei rispondano più alla logica dell’allucinazione che a quella della formazione sintomatica. Il prevalere in essi della scarica, dell’agire, del passaggio all’atto di fronte al collasso del simbolico, di processi privi di pensiero, sembra imporre al centro della nuova clinica un “traumatismo senza rimozione”, anziché un ritorno cifrato del desiderio rimosso: al centro non c’è più il soggetto dell’inconscio ma lo strapotere dell’Es, dunque un Es che dobbiamo porre senza inconscio, non strutturato come un linguaggio, senza rapporti con il soggetto del desiderio.
[…]
1.6 Le identificazioni solide
Lo strapotere dell’Es – dell’Es senza inconscio – non è però la sola formula metapsicologica per evidenziare il fondo psicotico della nuova psicopatologia. Esiste un altro grande capitolo della nuova clinica che è quello delle patologie dell’identificazione. Se da una parte abbiamo il capitolo della sregolazione pulsionale, dello strapotere dell’Es, delle devastazioni incandescenti della pulsione di morte, delle dipendenze compulsive, addizionali, dell’eccesso demoniaco e ripetitivo del godimento, dall’altra parte dobbiamo situare una clinica più fredda, apparentemente meno turbolenta, centrata sull’identificazione adesiva, sull’iperidentificazione, sulla maschera identificatoria, sull’adattamento conformista, sociocentrico, sull’assenza del desiderio e della sua soggettivazione creativa.
Sullo sfondo comune di un collasso dell’ordine simbolico, questi mi sembrano in effetti i due capitoli fondamentali della nuova psicopatologia che possiamo distinguere solo astrattamente. Da un lato la clinica dei passaggi all’atto, delle pratiche compulsive del godimento, della necessità della scarica, della spinta coattiva della pulsione dove il reale, slacciandosi dal simbolico, non si inquadra più nella cornice inconscia del fantasma, da un lato, dunque, la clinica dell’Es senza inconscio. Dall’altro lato abbiamo invece quella clinica che Lacan definirebbe delle “psicosi sociali”, ovvero una clinica dell’identificazione solida, centrata sull’eccessiva identificazione ai sembianti sociali che sembra cancellare il desiderio e la sua soggettivazione e nella quale l’immaginario, sconnettendosi dal simbolico, dà luogo a iperidentificazioni che compensano in qualche modo (patologico) lo smarrimento liquido di soggetti senza più riferimenti ideali capaci di orientarne stabilmente la vita.
Per accostare questo secondo grande capitolo della psicopatologia contemporanea – quello delle identificazioni solide – propongo di prendere le mosse da una formidabile riflessione di Winnicott sulla clinica delle psicosi. In un passaggio decisivo di Gioco e realtà egli distingue le psicosi schreberiane, caratterizzate dalla perdita di realtà, dunque da una separazione del soggetto dal senso ordinario della realtà, da una dissoluzione delirante del mondo comune e dei suoi confini simbolici, da un’altra forma di psicosi che ci introdurrebbe a un nuovo genere di separazione. Una separazione che non allontana tanto il soggetto dalla realtà cosiddetta esterna, ma da se stesso, dal suo proprio inconscio.
Si tratta, secondo Winnicott, di soggetti talmente ancorati alla realtà esterna da perdere il contatto con se stessi, con la parte più creativa di se stessi, con la realtà soggettiva del proprio inconscio. In questo caso in primo piano non è lo strapotere dell’Es ma, come si esprime Winnicott, un eccesso di mondo oggettivo che comporta la morte del mondo soggettivo. Possiamo entrare da questa porta nella clinica variegata dell’iperindentificazione, o, se si preferisce, di quella che propongo di definire come una clinica dell’identificazione solida. La psicosi vi appare non come rottura con la realtà, ma come eccesso di alienazione, di integrazione, di assimilazione conformista al discorso comune.
Le psicosi sociali di Lacan sono quelle psicosi, secondo una sua precisa definizione, compatibili con il buon ordine. Sono il rovescio delle psicosi deliranti, perché anziché sconvolgere il senso stabilito della realtà, si identificano a esso adesivamente, passivamente, senza mostrare alcun desiderio. Ciò che accomuna psicosi deliranti e psicosi sociali è, infatti, la stessa impossibilità di accedere a una soggettivazione del desiderio, è il vuoto di fondo che abita il soggetto e che lo rende morto, apatico, indifferente, privo di un sentimento effettivo della vita. Avremo modo, nel corso di questo libro, di riprendere ampiamente il tema delle identificazioni solide. Per il momento mi limito a indicare come in questo contesto assuma un valore speciale la nozione clinica di maschera, l’annullamento della differenza tra essere e sembiante (tra ciò che un soggetto è e come esso viene rappresentato dalla catena dei significanti sociali a cui aderisce) non avviene per disintegrazione dei sembianti (come accade invece nelle psicosi deliranti), ma per un eccesso di identificazione, per una cristallizzazione della maschera sociale, per una adesione inerte, per un suo incollamento conformistico. E ciò che Christopher Bollas nomina come caratteristica principale delle personalità normotiche, nelle quali l’espressione della sofferenza individuale non avviene come esplosione delirante e anarchica della soggettività ma come “distruzione del fattore soggettivo”.
1.7 Il nuovo principio di prestazione
Quale è il contesto sociale che alimenta la diffusione di queste identificazioni solide e cosa anima e amplifica la tendenza alla distruzione del fattore soggettivo? Il contesto sociale dove si diffondono le forme solide dell’identificazione è caratterizzato da una egemonia dell’adeguamento conformistico ai sembianti sociali e al loro potere di installazione di pseudoidentità narcisisticamente fragili. Questa egemonia – sulla quale avremo modo di ritornare diffusamente – si può bene sintetizzare con una concettualizzazione proposta a suo tempo da Herbert Marcuse: sussunzione del principio di realtà nel principio di prestazione.
In questa formula il filosofo intendeva definire una vera e propria mutazione antropologica generata dal discorso del capitalista che introduceva una versione imperativa, superegoica, prestazionale appunto, del principio di realtà. Il principio di realtà sussunto in quello di prestazione non si limitava più a porre dei limiti alle esigenze del principio di piacere, ma imponeva come condizione dell’affermazione di sé la sottomissione del proprio desiderio a criteri prestazionali dettati dalla logica competitiva del profitto. Se il principio di realtà in Freud era pensato inseparabilmente dalla tensione dialettica che lo rapportava al principio di piacere – essendo una sorta di antagonista necessario del desiderio -, la sua trasfigurazione nel principio di prestazione, comporta che esso sia divenuto una sorta di principio normativo che anziché opporsi dialetticamente al principio di piacere – il quale, ricordiamo, esige che l’apparato psichico persegua il piacere ed eviti il dispiacere contenendo le tensioni interne all’apparato psichico al livello minimo – sembra assumere un inedito volto sadico. E quello che Marcuse sa cogliere con grande lucidità: il carattere normativo assunto dal principio di realtà agisce come un imperativo superegoico che esige l’annullamento del desiderio anziché alimentarne la dialettica. L’esigenza di raggiungere una capacità prestazionale efficiente, la richiesta superegoica di adattarsi inflessibilmente all’istanza normativa del principio di realtà trasfigurato nel principio di prestazione finiscono per surclassare ogni desiderio soggettivo. Al posto del conflitto freudiano tra principio di piacere e principio di realtà s’impone a senso unico il culto sociale della prestazione che incalza la soggettività come un inedito dover essere.
Quello che però Marcuse ancora non può vedere pienamente è che l’esigenza della prestazione e la prestazione stessa alla quale il soggetto deve subordinare il suo desiderio non è semplicemente alternativa al godimento ma è fondamentalmente una prestazione di godimento. Nell’epoca ipermoderna, infatti, il principio di prestazione si declina essenzialmente come un principio di godimento e non come un principio morale di sacrificio del godimento. Ciò che resta identico rispetto all’originaria teorizzazione marcusiana è l’assoggettamento alla prestazione come dovere imperativo anche se il contenuto di questa prestazione non è più in nessun modo legato alla rinuncia pulsionale. Esso manifesta piuttosto il carattere dissipativo del godimento che può prendere forme diverse e apparentemente alternative tra loro. Possiamo pensare, per un verso, a quei fenomeni dove è evidente la riduzione del corpo a puro strumento di godimento. E quello che accade nelle dipendenze patologiche dove il corpo diventa luogo di puro consumo del godimento pulsionale (obesità, bulimia, tossicomania ecc.), o in un certo modo perverso di agire la sessualità sganciandola dalla dimensione dell’incontro con l’Altro dove il corpo viene frammentato in oggetti multipli di godimento senza alcun rapporto col desiderio.
Per esemplificare questo fenomeno della frammentazione perversa del corpo possiamo pensare al “gioco” di certi adolescenti che riprendono con i loro telefonini immagini parziali di parti svestite del corpo, palpeggiamenti, organi e atti sessuali anonimi, facendo poi circolare queste immagini staccate sulla rete, in una rappresentazione smembrata del corpo come pura macchina di godimento. Si tratta di un esempio forse banale, ma anche eloquente, di come l’edonismo aristotelico del principio di piacere e il limite imposto dal principio di realtà siano stati riassorbiti e deformati in un unico imperativo, in un imperativo a una sola dimensione, direbbe Marcuse, quello, appunto del godimento sadiano, che, come Lacan ha mostrato, parcellizza il corpo dell’Altro riducendolo a mero strumento del proprio godimento. In questo senso il principio di prestazione non è solo l’obbedienza passiva al principio normativo della realtà, ma è ciò che allontana il soggetto dal suo desiderio e lo lega all’obbligazione prescrittiva della prestazione, soprattutto in quanto la prestazione non è semplicemente antitetica al godimento, ma, come abbiamo appena visto negli esempi proposti, tende piuttosto a realizzarlo compulsivamente. In questi casi la vera prestazione è divenuta la trasgressione stessa. Il Super-io sociale ipermoderno esige infatti che la trasgressione funzioni da modello di ogni prestazione. Ci troviamo di fronte a una inedita normativizzazione unidimensionale di quei comportamenti che anziché sovvertire la Legge ne applicano invece, spensieratamente, la quota sadica.
Per un altro verso però il principio di prestazione tende a configurarsi in una forma più fredda e disciplinare, meno caotica e incandescente. Prevale in queste forme non tanto la riduzione plateale del corpo a strumento perverso di godimento, ma una sorta di estasi della prestazione, di rafforzamento della volontà del soggetto e della sua efficacia pratica. Possiamo fare come primo esempio quello del consumo di cocaina. Com’è noto questa sostanza, diversamente da altre droghe come l’eroina, accentua la capacità prestazionale del soggetto agendo come un amplificatore narcisistico dell’Io. La sua assunzione può non introdurre alcun conflitto tra il principio di piacere e il principio di realtà, ma sussumere l’uno nell’altro. L’azione del cocainomane viene potenziata dalla chimica della sostanza che la rende più efficiente e più adeguata alle esigenze del sistema in cui il soggetto è iscritto; in questo caso il principio di piacere sembra coincidere pienamente con il principio di prestazione.
E la stessa logica che ispira l’azione del soggetto anoressico, per il quale l’esperienza del corpo esclude, per principio, il desiderio, essendo l’anoressia innanzitutto un’esperienza disciplinare di governo del corpo pulsionale attraverso un rafforzamento prestazionale della volontà tendente a neutralizzare la dimensione angosciante del desiderio. Attraverso il disciplinamento del corpo l’anoressia si afferma come una padronanza di sé che vorrebbe evacuare il contenuto sessuale del corpo affermando un corpo compatto, scheletrico, appunto, privo di carne, senza mancanza, un corpo-strumento come pura manifestazione della volontà di volontà dell’Io. Questa assenza di alterità che pare caratterizzare il disegno anoressico di governo disciplinare del corpo non è eccessivamente distante da un altro fenomeno ipermoderno com’è quello del palestrato che contempla la sua immagine muscolare allo specchio piegando il proprio corpo a una disciplina tanto rigorosa quanto priva di un ideale che non coincida con il proprio rafforzamento fallico-narcisistico. La prestazione del corpo obbedisce anche in questo caso al suo potenziamento come strumento di godimento che esclude l’incontro con l’Altro o, quantomeno, riduce questo incontro a un’ennesima conferma speculare della propria potenza immaginaria.
II. Evaporazione del padre e discorso del capitalista
2.1 Il discorso del capitalista come distruzione dei legami
La precarietà non è solo un effetto economico della globalizzazione che investe la dimensione del lavoro e del mercato, ma è anche ciò che nell’epoca ipermoderna mostra il generale decadimento della dimensione dell’ordine simbolico e, per questa ragione, non può non interessare la psicoanalisi. Il discorso del capitalista di Lacan è stato un primo tentativo di decifrare la declinazione ipermoderna del registro del simbolico provando a inquadrare la natura del legame sociale nel nostro tempo. La tesi che si può dedurre dalla riflessione di Lacan è che il discorso del capitalista, come quinto discorso [gli altri quattro discorsi sono quello del padrone, dell’università, dell’isteria e dell’analista] si manifesta come il discorso della distruzione di ogni legame, come il discorso asservito al potere nichilistico della pulsione di morte.
Come Lacan declina, nella celebre conferenza tenuta a Milano all’Università Statale il 12 maggio 1972, questo discorso? Innanzitutto come una nuova configurazione del regime capitalista rispetto a quello che aveva caratterizzato il tempo inaugurale della sua affermazione storica. Implicitamente, con la formalizzazione del discorso del capitalista, Lacan propone una sorta di tempo secondo del capitalismo rispetto alle tesi classiche di Karl Marx e anche di Max Weber sulle sue origini. Più precisamente, il quinto discorso di Lacan si presenta come un discorso che corregge apertamente le tesi weberiane sulla natura etica delle origini del capitalismo.
Il fondamento ideologico-culturale dell’affermazione del capitalismo si troverebbe, secondo la tesi classica di Weber, nella cultura dell’ascetismo protestante. Solo la rinuncia e il sacrificio di sé consentirebbero l’accumulazione del capitale e la produzione del profitto. Il discorso del capitalista lacaniano è, in questo senso, radicalmente antiweberiano. Esso non esalta affatto il legame come effetto della rinuncia pulsionale, come prodotto del sacrificio o come manifestazione della virtù delle opere, ma è un discorso che esalta a senso unico la spinta del godimento contro ogni forma di legame. Si tratta pertanto di un discorso al limite di ogni possibile discorso, perché se il discorso è un modo per definire il legame sociale, in quanto ogni discorso si organizza per introdurre un certo freno significante al godimento e per rendere possibile in questo modo una civilizzazione dei legami tra gli esseri umani, quello del capitalista tende a distruggere ogni forma discorsiva affermando il soggetto come pura spinta al godimento solitario, dunque dissolvendo ogni freno al godimento, anzi, incoraggiando il godimento come nuova forma di comandamento sociale. Il sacrificio di sé risulta così totalmente contraddittorio in un regime che pone il proprio fondamento sull’imperativo sregolato del “consumo di consumo”.
[…]
Il discorso del capitalista, come fa notare il conservatore Lacan, è chiaramente una forma di assoggettamento e non di liberazione. Marcuse parlava a questo proposito di desublimazione repressiva: non è il soggetto che desidera, ma che esige un godimento che spenga ogni suo desiderio. Pier Paolo Pasolini aveva sintetizzato così questa trasformazione epocale del potere: il potere ipermoderno non ha bisogno di sudditi ma di liberi consumatori!
[…]
Il “turboconsumatore” del quale Lipovetsky, per certi versi, tesse le lodi non è solo, come crede il sociologo francese, il padrone razionale dei suoi gusti e delle possibilità delle loro soddisfazioni, un Giano bifronte capace di “sfruttare a tutto campo le potenzialità aperte da quelle che sono le due grandi finalità della modernità: efficienza e felicità sulla terra”, ma è anche l’espressione di un godimento sganciato dalla castrazione simbolica, impermeabile al discorso amoroso, antivitale, che non si genera solo dai consumi ma che tende a consumare anche chi consuma, a utilizzare il consumo delle cose come modo di compensazione della disinserzione del soggetto da ogni legame con l’Altro.
La caduta dell’Ideale e della sua funzione orientativa e l’affermazione dell’oggetto di godimento in una posizione di agente sono i due elementi cruciali che animano il discorso del capitalista come macchina anonima di godimento e mostrano la precarietà simbolica dell’Altro contemporaneo: crisi della politica, dell’ideologia, del religioso, della dimensione valoriale, del discorso educativo, epoca postideologica, postmoderna, ipermoderna, postumana. Si tratta di una precarietà che è il prodotto di una instabilità dei legami, di legami senza Ideale, instabili, liquidi direbbe Bauman, esposti alla contingenza del sintomo. Ma anche di legami chiusi, cristallizzati, non-liquidi, reificati, solidificati, gelati, molecolari, involuti, segregativi. La caduta dell’Ideale, la crisi del discorso del padrone, come ho già fatto notare, non comporta solo la liquefazione dei legami in quanto privati di ogni orientamento ideale, ma tende anche a rafforzare un loro compattamento monadico, autistico, apatico, narcisisticamente ostile allo scambio simbolico.
L’Altro contemporaneo incentiva l’instabilità strutturale dei legami umani, favorisce la liquidità o la cristallizzazione monadica dei legami, accentua, per dirla con Lacan, l’esteriorità della parola rispetto al nucleo autistico del godimento pulsionale. Uno dei tratti più salienti della precarietà ipermoderna è, infatti, quello relativo alla svalutazione della dimensione simbolica ed erotica della parola. Al suo posto subentra il principio di prestazione elevato a imperativo iperedonistico, come abbiamo già visto. Lo abbiamo già visto: diversamente da quanto accadeva all’epoca freudiana il principio di prestazione non si limita più a potenziare repressivamente il principio di realtà (era l’ipotesi coniata a suo tempo da Marcuse), perché attualmente la prestazione in gioco è innanzitutto una prestazione di godimento. Il conflitto tra principio di piacere e principio di realtà, tra programma pulsionale e programma della Civiltà, si è stemperato e al suo posto è subentrata una domanda collettiva di omologazione agli stili di godimento prevalenti. In questa prospettiva la prestazione diventa un effetto dell’imperativo sociale del Super-io sadiano: Godi!
Questo principio tende però a non fare legame ma a isolare i soggetti nel loro statuto individuale, monadico, precario. Il legame sociale sembra perdere il suo fondamento che è invece scopo della funzione paterna preservare, poiché, come indica l’insegnamento fondamentale di Freud sulla necessità di una sublimazione paterna della pulsione, solo la rinuncia al godimento (incestuoso) immediato della Cosa è in grado di animare il desiderio. Per questa ragione il discorso del capitalista, nella sua illusoria democrazia, si sviluppa sulle ceneri dell’Edipo, cioè sulla perdita di centralità dell’Imago paterna nella strutturazione del soggetto. Diventerà allora essenziale interrogare questo declino del Padre per cogliere l’importanza della sua funzione simbolica e di come il discorso del capitalista sfrutti cinicamente la sua caduta.
2.2 L’insoddisfazione come prodotto del discorso del capitalista
Cosa produce il discorso del capitalista? Produce insoddisfazione. Produce l’insoddisfazione come una nuova forma clinica della precarietà. La nostra epoca non è più quella delle masse radunate dall’Ideale. Non è più l’epoca degli entusiasmi fanatici che potevano scaturire dall’idea di appartenere a un solo grande corpo sociale. La nostra epoca vive piuttosto il contrasto generato dal discorso del capitalista tra l’effetto maniacalizzante dovuto alla soppressione dei limiti del godimento e la tendenza a precipitare verso un sentimento depressivo di estraneità, di inesistenza, di superfluità, di indifferenza e di fatica di esistere. La caduta della funzione guida del Padre accentua in effetti il rischio di una parallela caduta del soggetto. In questo senso l’insoddisfazione prodotta dal discorso del capitalista perpetua una delle espressioni più scabrose della precarietà ipermoderna che non è più rappresentabile dall’insoddisfazione isterica del desiderio che non trova in nessun oggetto del mondo l’oggetto (fallico) che potrebbe colmare la propria mancanza, ma è un’insoddisfazione di genere diverso che tende a distruggere l’amore come possibilità di unire il desiderio al godimento.
Il discorso del capitalista alimenta l’illusione di riuscire a risolvere il problema della mancanza a essere scavalcando il riferimento simbolico all’Altro, facendo a meno dell’amore, svuotando radicalmente il discorso amoroso di ogni senso. Se il discorso del capitalista è un discorso al limite del discorso è anche perché è un discorso antagonista al discorso amoroso, è anche perché è il discorso dell’antiamore? Mentre la clinica della nevrosi resta una clinica profondamente connessa alle impasse del discorso amoroso – il nevrotico soffre principalmente a causa dell’amore, anche nella nevrosi ossessiva, seppure nella forma di non riuscire mai ad accedere all’amore – , la clinica delle nuove forme del sintomo appare come una clinica dove l’amore non occupa più una funzione centrale.
Le vicissitudini della vita amorosa restano al centro della clinica della mancanza perché l’amore si offre come la possibilità di supplire l’inesistenza del rapporto sessuale e come il modo più umano per trattare in modo fecondo la propria mancanza a essere. Al contrario la clinica del vuoto non tratta i sintomi della vita amorosa (inibizioni, scissione tra amore e desiderio, intralci al godimento sessuale, difficoltà ossessiva di accedere al desiderio, insoddisfazione isterica del desiderio) ma l’assenza della domanda d’amore, l’indifferenza nei confronti del discorso amoroso in quanto tale. Questa indifferenza è suscitata dal fatto che i nuovi sintomi tendono letteralmente a sostituire il partner umano e sessuato con dei partner inumani (droga, cibo, computer, psicofarmaco, immagine narcisistica di sé…), provando così a uscire da tutte quelle turbolenze che il discorso amoroso porta necessariamente con sé. In questo senso mentre l’insoddisfazione isterica resta in rapporto alla difficoltà di accedere a un legame d’amore capace di durare nel tempo, capace di sottrarsi alla delusione fallica dell’Ideale, l’insoddisfazione prodotta dal discorso del capitalista serve ad alimentare unicamente il soggetto come macchina del godimento.
L’isterica sceglie l’insoddisfazione per difendere il proprio desiderio laddove il discorso del capitalista la produce – l’insoddisfazione – solo per animare compulsivamente la domanda di godimento sulla quale si regge il potere del mercato. Se l’insoddisfazione isterica si nutre dell’ideale fallico, esigendo di raggiungere il fallo – l’uomo ideale impossibile da raggiungere – come significante puro del desiderio, quella ipermoderna è un insoddisfazione legata al nichilismo del consumo dell’oggetto. Mentre l’isterica attraverso l’insoddisfazione tende a salvaguardarle la propria mancanza a essere, il suo desiderio singolare, il discorso del capitalista produce solo pseudomancanze finalizzate a produrre sempre nuovi oggetti che si offrono illusoriamente come soluzioni, alternative all’amore, per il dolore di esistere. Per questo Lacan parla di una proletarizzazione generalizzata come effetto del discorso del capitalista. La mancanza non viene salvaguardata, ma deve essere prodotta di continuo come un artificio finalizzato alla ripetizione anonima del godimento dello Stesso. In questo senso, mentre la mancanza isterica resta pur sempre collegata al desiderio, quella artefatta del discorso del capitalista è vincolata solo alla coazione del godimento. E per questa ragione il discorso del capitalista è più una manifestazione della pulsione di morte che un’espressione dell’insoddisfazione isterica del desiderio.
2.3 Il narcinismo ipermoderno
Nell’epoca del discorso del capitalista il sintomo nella sua funzione sociale sembra surclassato dal sintomo nella sua funzione di puro apparato di godimento. Quando parliamo di una funzione sociale del sintomo possiamo pensare al sintomo che istituisce un legame familiare o al sintomo che cementa un legame di coppia. In questi casi si evidenzia una funzione sociale del sintomo, nel senso che il sintomo sostiene i legami, anziché interferire negativamente con essi.
Dobbiamo distinguere però questa funzione sociale del sintomo da quella del sintomo come puro apparato di godimento. Nel primo caso abbiamo il sintomo che sostiene il legame; nel secondo caso invece esso tende a impedirlo proponendosi come strumento di un godimento pulsionale in opposizione a ogni forma di scambio con l’Altro. Le nuove forme del sintomo accentuano proprio questo lato del sintomo, non il sintomo come fondamento del legame sociale, ma il sintomo come rottura del legame sociale. Sono quei sintomi dove in primo piano troviamo un godimento pulsionale chiuso su se stesso, appartato, senza rapporti con il desiderio e con la dimensione dell’incontro amoroso, disinserito dal campo dell’Altro. Anche in questo senso il discorso del capitalista come discorso che incentiva la diffusione epidemica di queste forme sintomatiche di godimento è un discorso al limite del discorso. Il soggetto diviso, sganciato dal significante, sconnesso dalla mancanza a essere e dal desiderio, diventa una pura volontà avida di godimento, essendo ridotto perversamente al solo suo corpo come puro strumento di godimento. E ciò che Lacan intende quando si riferisce a un effetto di proletarizzazione come proprio del discorso del capitalista.
Per Marx il capitalismo come sistema economico storicamente determinato disumanizzava gli uomini riducendoli alle sole funzioni animali del corpo. Attualmente questa riduzione alienante ha assunto le forme di una riduzione del soggetto alla spinta mortifera del godimento. Come abbiamo già visto, Colette Soler ha coniato, per definire questa riduzione, il termine narcinismo (narcisismo + cinismo). La vita è ridotta al campo del godimento, alla volontà di godimento (cinismo) e questo godimento è autistico, senza legami con l’Altro, chiuso su se stesso, autotrofico (narcisismo). Per questo l’angoscia è sempre più diffusa. È angoscia di essere ridotti alla volontà di godimento del proprio corpo. Dobbiamo considerare questa dimensione collettiva dell’angoscia un’altra manifestazione significativa della precarietà ipermoderna. L’esperienza della precarietà è, infatti, una esperienza di angoscia. Per questo dobbiamo, seguendo Lacan, mantenere distinti l’oggetto del desiderio e l’oggetto dell’angoscia.
Se l’angoscia è angoscia della presenza dell’oggetto, della sua eccedenza, del fatto che l’oggetto soffoca, invade, sovrasta il soggetto, se l’oggetto dell’angoscia è un troppo che scompagina e perturba l’immagine narcisistica dell’Io, l’oggetto del desiderio è invece un oggetto che implica la mancanza, l’assenza, la sua stessa perdita in quanto oggetto, la sua separtizione (sépartition) dal corpo del soggetto, come si esprime efficacemente Lacan. L’oggetto del desiderio è cioè sempre un oggetto che non possiamo dominare, un oggetto che non possiamo mai raggiungere, un’assenza d’oggetto di cui non possiamo mai disporre la proprietà.
Questa precisazione non è affatto sofistica ma comporta l’enfatizzazione del carattere causativo, determinante, dominante dell’oggetto del desiderio sull’intenzionalità desiderante del soggetto. Lacan insiste su questo punto per far valere la specificità del contributo della psicoanalisi alla nozione di desiderio: è l’oggetto causa del desiderio che orienta il cammino inconscio del desiderio del soggetto, non è il desiderio del soggetto che mira finalisticamente al suo oggetto. Per questa ragione di fondo l’assenza di oggetto, la sua funzione di causa, genera sempre una forza che anima il desiderio, che lo vitalizza, sospingendolo in avanti. Viceversa la presenza in eccesso dell’oggetto – come accade nel discorso del capitalista – tende ad annichilire il desiderio, intasando la mancanza necessaria a promuovere la spinta desiderante e impedendo, di conseguenza, la creazione di nuovi legami. Piuttosto il legame con l’oggetto tende ad assumere i tratti di una nuova forma di schiavitù. E ciò che la clinica contemporanea nomina solitamente come “dipendenze patologiche”.
2.4 Evaporazione del padre, universalismo e nuove segregazioni
In una breve nota scritta alla fine degli anni Sessanta, titolata Nota sul padre e sull’universalismo, Lacan ritorna in modo sintetico e ispirato sul tema del tramonto dell’Imago paterna di cui aveva già colto i primi sintomi in un saggio del 1938 dal titolo I complessi familiari nella formazione dell’individuo [tr. it. Einaudi, Torino 2004]. In questa breve nota egli mette in fila tre concetti destinati a essere centrali per la comprensione del disagio attuale della Civiltà.
Il primo tra questi è quello di “evaporazione del Padre”. Con questa immagine Lacan non intende riferirsi semplicemente alla crisi d’identità dei padri reali di cui si occupano, più o meno recentemente, la sociologia e la psicologia. Piuttosto egli fa riferimento alla perdita di centro, alla caduta dell’Uno, alla decapitazione del vertice Ideale – di matrice edipica – che aveva strutturato i legami sociali e dato un senso alla vita delle persone.
Quando Lacan scrive questa nota siamo alla fine del 1968. Le istituzioni disciplinari che fungevano da paradigmi della riflessione freudiana (la Chiesa e l’Esercito) sono state fortemente scosse dal movimento della contestazione. E lo stesso principio freudiano dell’Edipo è stato violentemente messo in discussione come matrice reazionaria di quelle istituzioni. Anche il concetto borghese di famiglia nucleare non si sottrasse a questo attacco critico. Ma fu soprattutto la figura normativa del Padre a essere messa in questione. Lacan, scrivendo di una sua “evaporazione”, fa allusione a questa demolizione come a una sorta di esito storico della critica del Sessantotto. Ma cosa significa, per la psicoanalisi, constatare l’evaporazione del Padre? E, più precisamente, quale Padre evapora? Di quale Padre Lacan parla proponendone l’evaporazione storica? Ebbene il Padre evaporato è il Padre che garantisce al soggetto e ai legami sociali un senso e un ordine stabilito trascendentalmente. E il Padre della rassicurazione, il Padre-fondamento, il Padre che sa rispondere sulla verità delle cose, il Padre della garanzia ultima. E il Padre come tutore dell’ordine simbolico che Lacan ha chiamato, ben consapevole dei suoi inevitabili echi biblico-teologici, Nome del Padre. E il Padre-sovrano nella versione che Agamben ha proposto del concetto di sovranità: è colui che, essendo in una posizione di eccezione rispetto al sistema della Legge che pure installa, ha il potere di sospendere il funzionamento stesso di questo sistema, ma questo potere anziché annichilire il sistema è ciò che gli dà consistenza. E, come lo definisce Lacan, l’Altro dell’Altro: l’eccezione, non sottoposta alla Legge, che istituisce logicamente il funzionamento della Legge uguale per tutti. Dunque esso rappresenta il significante del luogo dell’Altro in quanto tale; il significante-guida, il significante dal quale dipendono tutti gli altri significanti, il significante che, come scrive ancora Lacan, “nell’Altro, in quanto luogo del significante, è il significante dell’Altro, in quanto luogo della Legge”.
Nella società postsessantotto, questa funzione istituente del Padre si è vaporizzata. È la tesi di Lacan. L’evaporazione del Padre indica precisamente il venire meno di questo carattere fondativo, trascendentale, normativo in senso ideale, della funzione paterna. Ecco allora profilarsi il secondo termine presente nella Nota lacaniana: quello dell‘”universalismo“. Con questa espressione Lacan definisce l’affermazione dei mercati comuni, ovvero quello che oggi definiremmo come fenomeno della globalizzazione. In altri termini, l’universalismo di cui ci parla Lacan è quello prodotto dall’affermazione dell’oggetto di godimento che il discorso del capitalista rende illimitatamente disponibile sul mercato globalizzato.
La caratteristica principale di questo discorso sarebbe, infatti, come abbiamo visto in precedenza, quella di concretizzare un legame sociale che si istituisce sulla decapitazione della funzione verticale e orientativa giocata dall’Ideale edipico e che al posto della funzione normativa del Padre impone la potenza reale e immaginaria (non simbolica) dell’oggetto di godimento. Gli effetti di questa imposizione sono sotto gli occhi di tutti: parcellizzazione molecolare del legame sociale, narcisismo, indifferenza, ipnosi collettiva senza alcun vertice apertamente totalitario, diffusione capillare dell’imperativo del godimento, isolamento crescente dei soggetti ridotti a monadi individuali, esclusione dell’Altro a vantaggio della creazione di comunità di simili, prevalere della compunzione all’identità sullo scambio tra le differenze, svuotamento nichilistico del senso della vita, eclissi del desiderio sommerso dalla marea montante di un godimento compulsivo dello Stesso, sentimento diffuso di inesistenza, vuoto, apatia, indifferenza, fatica di esistere. Per tutti questi effetti – ed ecco apparire il terzo e ultimo termine della serie proposta da Lacan – l’universalismo globalizzante non genera affatto una pluralità democratica, ma nuove segregazioni, “segregazioni ramificate”, moltiplicazioni delle barriere, rafforzamento comunitario di etnie chiuse su loro stesse, frattura dei legami, isolamenti “straordinariamente sterili“, insomma fenomeni di ritorno dell’identico che appaiono come vere e proprie cicatrici sintomatiche della evaporazione del Padre.
2.5 Cosa resta del padre?
A Giulia Terzaghi,
il cui amore per le lettere mi salvò per primo.
Questa crisi della funzione orientativa dell’Ideale edipico di fronte alla spinta incalzante dell’oggetto di godimento genera due letture a mio giudizio ugualmente sintomatiche, che riflettono altresì posizioni ideologiche presenti all’interno dello stesso movimento psicoanalitico. Per un verso il fenomeno dell’evaporazione del Padre può essere considerato come un’apertura a possibilità inedite. L’al di là dell’Edipo diventerebbe il luogo di sperimentazione di legami non più dipendenti dal carattere normativo di quella figura.
L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari e una certa esaltazione macchinica del corpo pulsionale vanno indubbiamente in questa direzione. Senza considerare però la forte collusione con il discorso del capitalista, il quale, a sua volta, offre una rappresentazione macchinica del corpo pulsionale: il corpo che gode senza tener conto della castrazione è il corpo sadico, il corpo perverso, il corpo che non conosce l’esperienza del limite, il corpo che fa del corpo dell’Altro uno strumento del suo stesso godimento, il corpo dell’antiamore, del godimento acefalo, del godimento “uniano”, come lo definisce Lacan, dunque del godimento dell’Uno senza l’Altro. Dal punto di vista sociale questa lettura dell’al di là dell’Edipo come liberazione della pulsione collude paradossalmente con il centro stesso del discorso del capitalista che è un centro eminentemente cinico. Ciò che conta non è l’asservimento edipico all’Ideale ma il godimento che vuole se stesso, il godimento come volontà cinica di godere. E questa la faccia superegoica del discorso del capitalista che Lacan mette in luce: elevare il godimento alla dignità paradossale del dover essere.
Per un altro verso il fenomeno della evaporazione del Padre sembra invece suscitare la nostalgia per il tempo perduto, per la sicurezza garantita dal fondamento paterno, per lo statuto ontologico dell’eccezione, o, se si preferisce, in maniera più prosaica, per il Padre padrone. Come intendere, in effetti, il rigurgito fondamentalista se non come l’appello al Padre totemico, al Padre dell’orda, al Dio pazzo che può creare e distruggere il mondo quando e come vuole e che spinge i suoi fedeli a uccidere nel nome del Bene, a fare il Male nel nome del Bene? – e, sappiamo, che quando qualcuno pensa di agire per il Bene universale non c’è più limite al Male che può causare perché quel Male è, a quel punto, fanaticamente al servizio del Bene. Il fondamentalismo è infatti, nelle sue radici, necessariamente nostalgico; esso rievoca il potere terribile del Padre che garantisce al mondo un senso a priori e alla precarietà della vita un rifugio sicuro in cambio dell’asservimento totale dei suoi figli. In questo caso al Padre evaporato si contrappone l’immagine di un Padre incorrotto, solido, onnipotente che però, in realtà, è solo una compensazione – come già accadde in Occidente nella nefasta stagione dei totalitarismi – del suo declino irreversibile.
Nella psicoanalisi stessa il riferimento al quadro edipico come quadro normativo irrinunciabile può rischiare di scadere nella stessa illusione ottica di un fondamentalismo compensatorio dagli effetti francamente discutibili. Queste due letture del fenomeno dell’evaporazione del Padre sono in realtà due facce della stessa medaglia: il cinismo del discorso del capitalista che promette godimento democratico per tutti anima il fantasma fondamentalista del Padre totemico, del castigo superegoico e, a sua volta, secondo una circolarità che mostra la convergenza paradossale di queste antitesi, questo fondamentalismo ospita nel suo seno l’oscenità inconfessata di un godimento senza limite (basti pensare, tra gli innumerevoli esempi che potremmo fare, all'”aldilà” così come viene vagheggiato dai militanti più spietati del terrorismo islamico: luogo di un godimento pulsionale infinito, senza alcun freno inibitorio; luogo sadiano che rovescia specularmente il rigorismo kantiano al quale deve conformarsi la vita nell'”aldiqua”).
Credo che uno dei compiti etici fondamentali e attuali della psicoanalisi sia quello di offrire all’al di là dell’Edipo una declinazione differente da quella del cinismo ipermoderno e del fondamentalismo nostalgico. Innanzitutto Lacan ci ricorda che la funzione paterna è inseparabile dall’introduzione di un luogo Terzo rispetto alla specularità immaginaria e al monismo del godimento entro la cui oscillazione sembra invece restare preso il discorso della civiltà ipermoderna. Da questo punto di vista la funzione paterna viene assimilata da Lacan alla funzione logica dell’eccezione, dell’almeno-uno che, essendo fuori dalla serie di cui è il fondamento, agisca come la condizione di tenuta della serie stessa. E questo il paradosso dell’estimità logica della sovranità che evocavamo poc’anzi. La funzione logica del Padre è quella funzione che salvaguarda, rispetto all’omogeneità simmetrica dell’identificazione e del diritto al godimento uguale per tutti, un luogo asimmetrico, Terzo, eccentrico, capace di introdurre una Legge, un limite, una linea di confine necessaria a introdurre la dimensione della differenziazione simbolica. In questo senso Lacan insiste nell’affermare che la funzione logica del Padre è omologa a quella del linguaggio che impone all’essere parlante il vincolo della parola e, di conseguenza, una inevitabile sottrazione di godimento come condizione d’entrata nel suo campo. In questo modo Lacan intende liberare l’Edipo freudiano da tutti quegli elementi psicologico-immaginari che rischiano di ridurlo a un romanzo familiare e assegna non al Padre ma al linguaggio la funzione di Terzo rispetto alla coppia immaginaria e incestuosa madre-bambino. La funzione paterna è dunque omologa a quella del linguaggio perché introduce una mancanza nel soggetto limitando il godimento immediato della pulsione (decretando, secondo Lacan, la morte della Cosa) e generando come effetto di questa limitazione (castrazione simbolica) il movimento del desiderio.
Resta evidente che in tutto questo ragionamento sull’eccezione l’accento non cade tanto su chi occupa quel luogo – il luogo Terzo dell’eccezione presentificato dal sovrano – ma sulla funzione eminentemente logica di quel luogo la cui caratteristica è proprio quella di non lasciarsi mai occupare da Uno, ma di permettere differenti declinazioni discorsive. Tuttavia dobbiamo anche chiederci quale è la funzione del Padre rispetto a quella esercitata dal linguaggio, perché se il linguaggio è una struttura di separazione che sgancia l’essere umano – il parlessere, come direbbe Lacan – dall’immediatezza del godimento incestuoso della Cosa, dunque che introduce il soggetto al desiderio per la via della sua castrazione simbolica, che cosa resta della funzione paterna in quanto tale, che cosa resta del Padre?
Provo a rispondere a queste domande ricordando come la funzione simbolica del Padre abbia innanzitutto il compito di preservare il luogo dell’Altro come luogo vuoto per rendere possibile una trasmissione del desiderio capace di istituire una discendenza generazionale. Se invece il Padre occupa quel luogo ponendosi come un Ideale assoluto viene a meno la condizione basica di questa trasmissione. Un padre è colui che preservando vuoto il luogo dell’Altro sa offrire ai propri figli una soluzione incarnata di come si può vivere nel desiderio senza distruggersi, impazzire o suicidarsi. Perché questo vuoto animi il desiderio del soggetto è infatti necessario trovare una testimonianza di cosa significhi desiderare.
In questa incarnazione della testimonianza trovo che la funzione paterna in senso stretto trovi il suo significato più pieno. In generale la preservazione del luogo dell’Altro come luogo vuoto è ciò che agisce come condizione della tenuta stessa di ogni insieme, di ogni ordine possibile, di ogni serie significante, degli stessi legami che costituiscono il corpo sociale. Senza questo elemento Terzo nessun insieme – ma anche nessuna significazione – potrebbe strutturarsi efficacemente come mostra ampiamente la teoria lacaniana del Nome del Padre. Eppure questo elemento Terzo non può più – nell’epoca ipermoderna – essere pensato come base ontologica o teologica, ma solo come una pura funzione logica la cui incarnazione suppone una decisione senza fondamento, un atto non garantito, una presa di posizione che si può giustificare solo in se stessa, nella sua più pura contingenza [è l’esito prospettato da Nietzsche, NDR.]
La logica che anima il discorso del capitalista punta invece ad annullare il carattere Terzo di quel luogo mediante la falsa democrazia di una simmetrizzazione generalizzata del legame con l’oggetto di godimento (il soggetto viene ridotto a “turboconsumatore”), mentre quella fondamentalista vorrebbe occuparlo definitivamente con la potenza di un Dio padrone o con il dispiegamento di valori ideali assoluti. In entrambi i casi il carattere Terzo del Nome del Padre verrebbe meno. Per questa ragione uno dei temi più scottanti della nostra epoca è quello relativo a come salvaguardare questo vuoto, ovvero a come coniugare la funzione logica del Padre con la necessità etica di incarnare questo vuoto, di dargli una consistenza esistenziale, di renderlo operativo. Mi pongo, dunque, ancora la questione che giudico decisiva: cosa resta del Padre? Cosa può funzionare come Padre nell’epoca dell’inesistenza del grande Altro, della caduta irreversibile del Padre-norma, del Padre-fondamento, nell’epoca della sua evaporazione? Come si può fare valere la logica dell’eccezione che consente la tenuta dei legami tra le generazioni? Come si può coniugare questa versione del Padre come custode del vuoto con la necessità della sua incarnazione esistenziale? O ancora: cosa significa trasmettere l’esistenza di questo luogo Terzo in un’epoca che tende a escluderne cinicamente l’esistenza (discorso del capitalista) o a occuparlo abusivamente (fondamentalismo ideologico)?
Alcuni lacaniani individuano ciò che resta del Padre nel sintomo come espressione del carattere singolare e irriducibile a ogni universale del soggetto dell’inconscio. Questa idea suppone che se il Padre evapora la sola possibilità di regolare soggettivamente il godimento resta quella offerta dal sintomo, non come indice di una patologia o di una qualche disfunzione del corpo o del pensiero, ma, appunto, come una nuova organizzazione singolare (antiuniversale) di godimento. Io penso invece che non si possa liquidare troppo rapidamente la questione di come un padre sia in grado di incarnare o meno il suo desiderio, e, dunque, degli effetti formativi e di trasmissione del desiderio che questa incarnazione è in grado o meno di produrre per le nuove generazioni, anche se penso pure che la via di una sua restaurazione trascendentale è preclusa e darebbe luogo solo a fanatismi fondamentalisti. Ma di quale incarnazione paterna del desiderio vi sarebbe allora ancora bisogno? Daccapo: che cosa resta del Padre nell’epoca della sua evaporazione? In che modo possiamo salvaguardare quel luogo Terzo che il Padre rappresenta dalla tendenza ipermoderna alla sua cancellazione?
Ecco la mia tesi: ciò che salvaguarda la funzione terza del Padre, nell’epoca del suo declino come funzione simbolico-normativa, è la dimensione etica della testimonianza. Il Padre che resta o, se si preferisce, il resto del Padre, quel resto che mantiene il suo carattere terzo, irriducibile all’identificazione tra simili e al consumo omogeneo del godimento uguale per tutti imposto dal discorso del capitalista e irriducibile anche all’autorità folle e ipnotica del Dio di ogni fondamentalismo, risiede nella responsabilità etica di offrire una risposta possibile su come si possa mantenere unito il desiderio alla Legge, su come si possa sostenere alleanza tra il desiderio e la Legge. Questa risposta è la sua responsabilità radicale, e questa responsabilità è ciò che, in ultima istanza, resta del Padre. Questa risposta per essere tale, ovvero per esercitare la sua funzione etica, richiede una incarnazione singolare. La risposta del Padre – quella risposta che può valere non per la sua esemplarità universale (esemplarità che contraddistingue solo il padre educatore dello psicotico), ma per la sua capacità di trasmettere una testimonianza particolare dagli effetti non-prescrittivi, ma casomai retroattivi esige l’incarnazione, nel senso che si oppone a ogni retorica pedagogica, a ogni pensiero valoriale in senso morale, ma anche a ogni versione ideale-universale della testimonianza stessa. Questo significa che la dissoluzione dell’Edipo come orizzonte trascendentale, come orientamento morale-ideale del soggetto, deve lasciare il posto non a una uscita di scena del Padre, ma all’accentuazione etica, e non più trascendentale, della sua funzione.
La crisi dell’Altro simbolico (della politica, del religioso, dell’aura estetica, della morale ecc.) non deve esaltare la disgregazione dei legami familiari e sociali ma aprire a una loro diversa ricomposizione, a un modo nuovo di fare esistere una comunità che sappia implicare il carattere radicalmente asimmetrico del vuoto al quale la funzione simbolica e logica del Padre rinvia. Se il Padre non è più il fondamento sicuro della Legge, se non è più il rappresentante della norma che governa l’ordine simbolico, se il Padre rivela la sua inesistenza trascendentale, l’abisso che lo attraversa, se esso non può più fondare il suo potere sull’egemonia del patriarcato, sull’esistenza di un grande Terzo, come avveniva per esempio nelle società religiose, questa sua dissoluzione può lasciare il posto al potere anarchico dell’oggetto di godimento o alla riesumazione nostalgica del Padre-padrone, ma può anche generare lo spazio della testimonianza come incarnazione singolare di una soluzione possibile dell’enigma relativo a come annodare, a come tenere insieme, il desiderio alla Legge che, secondo Freud e Lacan, è l’enigma più proprio custodito nella questione paterna.
Un padre, quel che resta del padre, quel che del padre resta nella testimonianza incarnata di come unire desiderio e Legge, pone esattamente questa interrogazione di fondo: come si può dare corpo, consistenza, spessore esistenziale, come si può oggi, nell’epoca del trionfo dell’oggetto, nell’epoca dello sbriciolamento di ogni forma di comunità, nell’epoca del ritorno spettrale del Dio fondamentalista, testimoniare il legame particolare tra desiderio e Legge? Che cosa può essere una vita animata dal desiderio e in grado di non lasciarsi trascinare nelle spirali mortifere del godimento? Non è forse questo che un padre è tenuto a incarnare rispetto ai suoi discendenti? Non è forse questo ciò che si chiede a un padre? Non è questo il cuore di ogni trasmissione, di ogni autentica eredità? Mostrami con la tua vita, con la tua esistenza, con la carne della tua esistenza singolare, come hai potuto vivere seguendo il più coerentemente possibile il tuo desiderio? Come hai potuto e saputo rinunciare al godimento immediato, dissipativo, illimitato della pulsione di morte per scegliere la via più lunga del desiderio e in questa via godere delle tue realizzazioni? Dimmi: come hai saputo sostenere la potenza del desiderio come potenza vitale? Ma anche, dimmi come hai potuto e saputo cedere una libbra del tuo godimento, della tua carne, come hai saputo vivere nella castrazione del tuo godimento senza sacrificio, senza il godimento del sacrificio, come hai potuto essere nella castrazione e donare, trasmettere ai tuoi figli, alle generazioni che sono venute dopo di te, una significazione possibile e creativa del desiderio.
La trasmissione di un desiderio non anonimo – che resta l’effetto essenziale della funzione paterna – non può che avvenire attraverso questa testimonianza singolare. Non attraverso la retorica educativa, né tantomeno per la via obsoleta della voce autoritaria del padrone. Ripetiamolo: quello che resta del Padre è un ‘incarnazione possibile del nodo che tiene insieme la Legge al desiderio. Un’incarnazione che può non associarsi affatto al padre reale, al padre biologico, ma che può essere incontrata anche per altre vie: un libro, un discorso, un’amicizia, un amore, una politica, la disciplina paziente di una pratica, una comunità, un’opera… uno psicoanalista.
2.6 L’epoca della precarietà e le patologie del legame
L’epoca della evaporazione del Padre è l’epoca di una precarietà economica e materiale, ma anche di una precarietà simbolica. L’esperienza della precarietà è una esperienza di solitudine, di angoscia, di insicurezza, è una esperienza di perdita di padronanza. La nostra esistenza è, come tale, una espressione della precarietà. Lo ricorda anche Freud in apertura de II disagio della civiltà, l’uomo non è fatto per essere felice. La morte, la malattia, l’esistenza dell’altro uomo, rendono precaria la sua vita. Tuttavia, proprio perché la precarietà definisce l’esistenza come tale, il soggetto aspira sempre a un legame, aspira a trovare nell’Altro la consistenza di cui manca, la condizione per curare la sua precarietà. Per la psicoanalisi i legami umani in generale sono, almeno da questo punto di vista, delle supplenze all’inesistenza del rapporto sessuale, ovvero dell’assenza di legame tra il godimento dell’Uno e il godimento dell’Altro.
Gli esseri umani si difendono dalla precarietà che li intacca innanzitutto per la via del legame sociale. E una tesi classica anche della filosofia politica: il legame civile protegge gli uomini dalla precarietà che assedia minacciosamente le loro vite. Per la psicoanalisi, in generale, il legame sociale è dunque una cura della precarietà. O, se si preferisce: la precarietà genera la tendenza al legame come un suo trattamento possibile. La clinica della nevrosi è, per esempio, una clinica nella quale viene accentuata proprio la natura protettiva (anaelitica o narcisistica, secondo Freud) del legame: il legame come esorcismo nei confronti della precarietà. La dipendenza dal legame è infatti un sintomo costante nella clinica della nevrosi quanto l’angoscia nei confronti della precarietà. In questo senso, Freud affermava che ogni nevrotico conserva sempre dei tratti infantili.
Bion ha nominato questa esigenza protettiva del legame come tendenza socialistica, sociocentrica [W.R. Bion, Cogitations-Pensieri, tr. it. Armando, Roma 1996, p. 133]. Possiamo affermare che per questa funzione protettiva attribuita immaginariamente al legame, la clinica della nevrosi si configuri come una clinica della patologia del desiderio nella quale il soggetto tende a vivere il proprio desiderio come incapace di concludere, incapace di realizzazione, di soddisfazione, insomma, come un desiderio inconcludente. E qualcosa che l’esperienza clinica conferma: il desiderio nevrotico è un desiderio che soffre per il suo essere perennemente inconcludente. E tuttavia, ed è sempre l’esperienza clinica che ce lo dimostra, la sofferenza causata dalla propria inconcludenza diviene anche un luogo paradossale di godimento. Il nevrotico è colui – come ci insegna la clinica lacaniana della nevrosi – che gode dell’impossibilità (nevrosi ossessiva) o dell’insoddisfazione (isteria) del desiderio.
Nei Complessi familiari Lacan definisce con precisione nel culto dell‘impotenza e in quello dell’utopia i due versanti cruciali della patologia nevrotica del desiderio, i due modi attraverso i quali il soggetto nevrotico conduce il proprio desiderio al fallimento. In entrambi ritroviamo l’idea freudiana che nella nevrosi il desiderio del soggetto soccomba allo “strapotere della realtà”. L‘impotenza consiste in una sua non realizzazione che avviene per assenza di forza sufficiente, per inadeguatezza, per insufficienza fallica del soggetto di fronte, appunto, a quello strapotere. Il soggetto si sente sempre inadeguato, non all’altezza, rispetto al compito richiesto dal suo desiderio. Preferisce allora assecondare il comandamento sociale della cosiddetta realtà che avventurarsi lungo il difficile cammino dell’assunzione responsabile del proprio desiderio. In questo caso 0 fallimento assume la forma dell’impotenza. L’altro versante è invece quello dell‘utopia che è una non realizzazione del desiderio che si sostiene sull’ideale illusorio e sulla posizione dell’anima bella, dunque sull’evitamento del reale in gioco nel proprio desiderio. Anche in questo caso il soggetto sembra in difficoltà a contrastare efficacemente lo “strapotere della realtà”. Egli preferisce il vagheggiamento di un ideale impossibile da raggiungere che affrontare la partita effettiva del proprio desiderio. L’utopia è un’illusione che garantisce al soggetto di non decidersi mai nelle sue scelte ma di constatare che c’è sempre qualcos’altro che potrebbe essere meglio di ciò che esso è o ha. In questo modo l’utopia disimpegna il soggetto dall’assunzione etica del proprio desiderio in nome di un al di là evocato in realtà come un rifugio rispetto all’angoscia relativa all’assunzione del proprio desiderio.
In entrambe queste posizioni – impotenza o utopia – la nevrosi si manifesta come una necessità di difesa dal desiderio o, se si preferisce, come difficoltà del soggetto ad assumere eticamente il proprio desiderio. Il soggetto arretra di fronte alla possibilità di manifestare con decisione la forza del suo desiderio. Prevale l’esigenza socialistico-conformista del legame (nevrosi ossessiva) o il lamento dell’insoddisfazione per ogni legame (isteria). Il legame nevrotico è tendenzialmente un legame impotente o utopico.
E tuttavia il nevrotico esige il legame, è sempre alla ricerca di un legame; egli, come afferma Lacan, dipende dalla domanda dell’Altro. La clinica della nevrosi non è una clinica della dissoluzione cinica dei legami, dello scioglimento del legame, che invece, come vedremo meglio fra poco, costituisce il cuore osceno del discorso del capitalista e della nuova clinica, ma è una clinica animata della necessità del legame anche se questa necessità rischia di indebolire la forza singolare del desiderio. Più precisamente, per il nevrotico il legame tende a funzionare come una difesa dal reale. Impotenza e utopia sono effettivamente due difese nevrotiche dal reale. Nella clinica psicoanalitica la struttura nevrotica è la struttura che più massicciamente si difende dal reale, dunque che più massicciamente ricerca i legami come argini protettivi contro l’incandescenza angosciante del reale. Per questa ragione di fondo il legame può tendere a diventare a sua volta sintomatico. Il legame, cioè, può assumere la forma di un vero e proprio sintomo; può diventare per il soggetto il luogo di un trattamento privilegiato del reale. Nondimeno questa riduzione sintomatica del legame tende a produrre nel soggetto nevrotico insoddisfazione. E qualcosa che la clinica ci conferma regolarmente: il legame nevrotico è segnato dall’insoddisfazione, dall’insoddisfazione dell’impotenza e dall’insoddisfazione dell’utopia. Non riesco mai a stare come vorrei nel legame (impotenza); sogno sempre un legame diverso da quello in cui sono (utopia).
La clinica della psicosi invece è una clinica dell’attacco al legame, del rifiuto del legame, della rottura del legame, dello scatenamento (déclanchement), come direbbe Lacan. La parola dello psicotico rinuncia a farsi riconoscere, la sua libertà, precisa sempre Lacan, è solo negativa. È una libertà solo negativa perché punta a recidere ogni legame con l’Altro, a escludere l’Altro. La libertà del folle vuole rigettare ogni forma di debito e di alienazione. E una libertà che si vuole come assoluta. Dunque è un delirio della libertà. Eppure la clinica della psicosi non si caratterizza solo per questo strappo nei confronti del legame sociale – lo schizofrenico è colui che diserta il legame come limite alla precarietà, che sceglie la precarietà piuttosto del falso accomodamento nevrotico nei legami – ma è anche una clinica della cementificazione del legame.
Come abbiamo già indicato in apertura di questo libro, Jacques Lacan pone nella figura della “psicosi sociale”, in linea con le ricerche cliniche di Helene Deutsch sulle personalità “come se”, di Winnicott sul “falso Sé”, di Bollas sulle personalità normotiche, una corruzione del legame sociale che si sviluppa non tanto come una rottura traumatica con la realtà, ma per eccesso di identificazione alla realtà. In questo caso l’attacco al legame non si manifesta tanto come disgregazione, frattura, rottura del patto simbolico con l’Altro – come accade nelle psicosi deliranti – , ma come immedesimazione acritica al sistema dell’Altro, come adesione olofrastica alle sue insegne sociali, come indifferenza nei confronti del desiderio inconscio. Le patologie del legame possono dunque essere patologie del desiderio (sacrificato alla sopravvivenza sintomatica del legame), come accade nelle nevrosi, patologie del rifiuto o della rottura del legame (dove è il legame che viene distrutto dal godimento dissipativo, non normato dalla castrazione), come accade nelle psicosi deliranti, ma anche patologie dell’irrigidimento identificatorio del legame, come avviene nella clinica delle psicosi sociali o, se si preferisce, delle identificazioni solide.
Mentre la prima patologia preserva la precarietà del soggetto, la precarietà del soggetto diviso, del soggetto come mancanza a essere, del soggetto del desiderio, la seconda e la terza segnalano invece un collasso del soggetto diviso. La figura dello psicotico che rompe le catene del significante o quello che si assimila socialisticamente a un significante identificatorio, coincidono nel porre il legame – la sua distruzione come la sua iperdeterminazione – come alternativa secca al desiderio. In questo senso la clinica psicoanalitica mostra gli effetti distruttivi provocati dal legame che si frattura, ma anche gli effetti, altrettanto distruttivi, del legame che diventa laccio, lega, fascio, del legame che abolisce ogni spazio autenticamente comune. In questi casi il legame non frena il godimento ma diventa, secondo logiche diverse, luogo di un godimento mortifero. E il cuore psicotico della psicologia delle masse segnalato da Bion: il legame non sposta il godimento verso il desiderio, ma genera solamente il godimento infatuato dell’Uno e la sua difesa a oltranza, priva di mente.
2.7 Legami alla deriva
In quanto spinta alla deriva del soggetto la pulsione di morte è la manifestazione più violenta della precarietà. Il godimento si sgancia dall’amore, Thanatos si scioglie da Eros, la morte si afferma come aspirazione più profonda del soggetto, come avviene in modo esemplare nella melanconia che, ricordiamolo, per Freud è la patologia che illustra gli effetti più drammatici del disimpasto pulsionale tra Eros e Thanatos, del disannodamento tra la pulsione di vita e quella di morte, dunque dello scioglimento del legame tra l’Uno e l’Altro.
Ma il godimento di Thanatos non si esaurisce solo nella figura della melanconia, non implica sempre la recisione di ogni possibile legame con l’Altro. Questo godimento lo possiamo trovare all’opera anche nella realizzazione di legami sociali che cancellano l’alterità nella forma della fusione fanatica che anima l’identificazione a massa sulla quale si struttura ogni legame totalitario. In questo caso l’attacco al legame dà luogo a una forma ipertrofica di legame che esclude la differenza del soggetto dell’inconscio. Per questa ragione Bion lo definisce un legame ottuso e privo di mente. Si tratta, infatti, di una forma di legame che annulla il legame con l’alterità riducendolo a una adesione ipnotica alla volontà dell’Altro situato nella posizione di padrone.
A questo punto potremmo chiederci: ma non è forse il godimento, per principio, senza legame? Non è il circuito stesso del godimento fondamentalmente autistico? Non è forse questa la differenza che lo separa dal desiderio? Se il desiderio è desiderio dell’Altro, il godimento non sarebbe forse sempre godimento dello Stesso, godimento della Cosa senza l’Altro, godimento come rifiuto dell’Altro?
Da un punto di vista molto generale la pratica della psicoanalisi è una pratica che punta a riannodare eticamente Eros e Thanatos. In questo senso essa potenzia in un soggetto la capacità di costruire e di abitare legami. Nel Seminario X Lacan ha teorizzato la funzione dell’amore proprio in questi termini: fare convergere il desiderio col godimento L’amore come legame implica, infatti, la convergenza, l’intreccio, l’impasto del godimento pulsionale e del desiderio in quanto desiderio dell’Altro. E questo il modo più diretto con il quale Lacan prova a ripensare l’impasto pulsionale freudiano, dunque la funzione dell’amore, la funzione di Eros come annodamento di Thanatos. Per Freud Eros è un trattamento, il trattamento fondamentale, di Thanatos. Se Thanatos è la spinta a slegare – il disannodamento, la distruzione del legame, è una manifestazione della pulsione di morte – , se Thanatos è, come si esprimeva Edoardo Weiss, pura destrudo, una spinta, una forza, dunque non uno stato d’essere, ma una forza che rifiuta ogni forma, ogni connessione, ogni articolazione, ogni legame possibile con l’Altro, allora l’Eros freudiano è ciò che può dare forma alla forza, è ciò che può produrre una forma che è già una forza capace di produrre forme. In altre parole, Eros sarebbe la capacità di produrre un legame che non sia solo castrazione del godimento, ma anche realizzazione di un’altra soddisfazione. La funzione del legame non è, infatti, solo quella di regolare il narcisismo mortifero dell’Uno da solo, di regolare la potenza distruttiva del godimento, ma è anche la possibilità di permettere al godimento di convergere col desiderio, dunque di non escludere l’Altro ma di realizzarsi proprio attraverso lo scambio simbolico con l’Altro.
La definizione lacaniana dell’amore come ciò che fa convergere il desiderio col godimento non è solo una definizione dell’amore come legame tra due esseri umani, ma è anche una definizione di una possibile politica della psicoanalisi. Come permettere l’annodamento della forza della pulsione (della spinta a godere) con l’apertura del desiderio al campo dell’Altro? Come non richiudere su se stessa la forza pulsionale? Come imbrigliare in modo non semplicemente repressivo-disciplinare (cioè superegoico) la pulsione di morte, la spinta dissipativa al godimento?
Come, insomma, legare questa spinta alla potenza del desiderio? Nel far convergere il desiderio col godimento, l’amore realizza una forma di legame non totalitario perché include in questo legame l‘esperienza del desiderio che è esperienza del non-tutto, della differenza assoluta e della separazione. La grande scommessa per una politica della psicoanalisi sarebbe quella di realizzare un legame fondato non sull’utopia totalitaria dell’Uno, né sull’impotenza nichilistica che sperimenta ogni legame come impraticabile, ma sulla dimensione detotalizzata del non-tutto. In altre parole: sapere costruire legami sullo sfondo di una precarietà (l’inesistenza del rapporto sessuale) dalla quale non si può guarire.
Il legame erotico è dunque una forma che è già una forza, mentre nella clinica delle nevrosi – che è sempre una clinica delle difficoltà di manifestare la potenza di Eros – tende a prevalere l’una o l’altra, o una forma senza forza (nevrosi ossessiva) o una forza senza forma (isteria). Dove predomina l’esigenza meramente protettiva, il legame diventa uno scudo difensivo rispetto alla forza, diventa solo una forma che perde ogni legame con la forza appiattendosi su di un funzionamento burocratico, sganciato dal desiderio. E ciò che illustra, per certi versi, il funzionamento ossessivo del legame. L’esistenza del legame in quanto tale conta più della sua vitalità, anzi, è un modo per annullare il carattere necessariamente aleatorio di ogni legame vitale, di privarlo della sua forza erotica. D’altra parte se vi fosse solo forza non vi sarebbe legame possibile: la forza senza forma è distruzione, disordine, scatenamento, rottura senza rimedio del legame. E ciò che illustrano diversamente l’isteria e la follia: nel primo caso l’esistenza stessa del legame è vissuta come un ostacolo alla realizzazione del desiderio perché riduce la sua utopia a un oggetto qualunque del mondo, mentre nel secondo caso il soggetto si proclama libero da ogni legame, privo di radici, senza alcun debito nei confronti dell’Altro, rigettando ogni forma di alienazione sino alla distruzione di se stesso, perché non può beneficiare della funzione simbolica della castrazione.
2.8 Il rischio del legame
Il legame non è solo una protezione dalla precarietà ma può anche essere un luogo di manifestazione della precarietà. Ogni legame umano è, come tale, esposto alla precarietà; ogni legame umano sorge sempre da una contingenza, non è mai una necessità scritta nel destino. In questo senso ogni legame non è solo il luogo di una iscrizione simbolica o di un rifugio immaginario del soggetto, ma è anche quello di una esposizione alYinsecuritas della contingenza. Essere in un legame significa essere esposti all’incognita del desiderio dell’Altro.26 Il legame implica sempre l’erotizzazione e l’erotizzazione può provocare angoscia approssimando troppo il soggetto all’oggetto causa del suo desiderio. Per questa ragione, in generale, la vera posta in gioco del discorso del padrone – il quale sorveglia affinché la macchina disciplinata del soggetto funzioni a dovere, cioè senza desiderio – è sempre la sterilizzazione di Eros. Il discorso del padrone tende a imporre legami di potere che neutralizzino la forza del desiderio. Esso promette di difendere dalla precarietà solo perché istalla il soggetto in un ordine stabilito. Per questo nella posizione di agente esso colloca l’S dell’identificazione idealizzante alla quale il soggetto aderisce rinunciando al proprio desiderio in cambio di un guadagno di solidità identitaria e di appartenenza.
Se il legame stabilito dal discorso del padrone è un legame di potere – dunque un legame che impone l’identificazione contro la separazione e la differenziazione – , quello che esprime potenza è invece 26. La clinica del gruppo monosintomatico mostra, per esempio, come il divenire del gruppo un oggetto libidico per i membri che lo compongono possa coincidere con una separazione di certi soggetti dal gruppo, con una loro uscita angosciata o con una fobicizzazione dell’oggetto-gruppo visto come oggetto causa di angoscia proprio in quanto erotizzato. Su questi temi sono obbligato a rinviare a M. Recalcati, L’omogeneo e il suo rovescio. Per una clinica psicoanalitica del piccolo gruppo monosintomatico, Franco Angeli, Milano 2005. un legame capace di condurre il desiderio alla sua realizzazione, è un legame che sa intrattenere una relazione critica col discorso del padrone.
E una forza che non si accontenta di indossare la forma alienata della volontà dell’Altro. E piuttosto una forza che cerca la sua propria forma. Il legame che esprime potenza è quel legame che non intende imbrigliare il desiderio perché, come affermava Elvio Fachinelli a proposito della sua pratica coi gruppi, questo legame è solo uno stato del desiderio.
21 Mantenere un soggetto, una istituzione o un gruppo, o più in generale, una politica, nella condizione del desiderio produttivo è il modo per riannodare l’effetto Thanatos attraverso Eros, per opporre al discorso del padrone e al discorso del capitalista, come sua variante ipermoderna, la potenza dell’amore come ciò che fa convergere il desiderio col godimento.
D’altra parte non c’è soggetto, gruppo o istituzione immune da Thanatos, immune dal rischio della rottura del legame, dalla tendenza alla distruzione del legame. La presenza della pulsione di morte è una costante della vita soggettiva come di quella collettiva e istituzionale. Ci sono però un soggetto o una istituzione che vivono paranoicamente Eros come minaccia, come attacco al legame, come sconvolgimento dell’ordine stabilito e ci sono un soggetto o una istituzione che si sostengono sulla circolazione della forza del desiderio in cerca della sua forma più propria. Più precisamente: potremmo pensare che il legame sociale come tale tenda a oscillare tra queste due polarità. Tra la polarità della forma e quella della forza. Se però questa oscillazione dà luogo a una fissazione sul polo della difesa dell’ordine stabilito (della forma) che conduce a vivere il nuovo come minaccia, c’è malattia, c’è malattia del potere, c’è paranoia, c’è la malattia paranoica del potere che consiste, appunto, nel vivere Eros come un attacco al legame. Se, al contrario, prevalesse a senso unico una forza allergica a ogni forma, a ogni legame stabilito, non vi sarebbe istituzione possibile, freno al godimento, legame che possa durare nel tempo, ma solo caos, forza senza forma alcuna, dispersione di energia libidica, tendenza sterilmente antistituzionale.
Il discorso del padrone ritiene che per trattare Thanatos occorre disciplinare il godimento. La psicoanalisi, che non misconosce affatto questa esigenza, aggiunge una posta in gioco superiore: insegna che p ercontrastare Thanatos non è sufficiente il trattamento disciplinare del godimento, ma occorre innanzitutto operare per la riattivazione singo-27. Vedi E. Fachinelli, “Il desiderio dissidente”, in II bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974, p. 112. lare del desiderio. L’ombrello dell’Edipo nella nostra epoca, che è l’epoca della evaporazione del Padre, non è più sufficiente a garantire questa riattivazione. Il Padre edipico non detiene la risposta circa l’enigma singolare del desiderio. Quel che resta del Padre può solo offrire un’incarnazione del desiderio irriducibile alla volontà che anima il progetto di uniformazione del discorso del padrone. Quel che resta del Padre è una testimonianza ontologicamente indebolita, depotenziata, ma eticame nte resistente, di come si possa mantenere l’esistenza desiderante non nonostante ma grazie alla mancanza che l’attraversa. Perché per la psicoanalisi, diversamente dal discorso del padrone, solo Eros è l’unico trattamento, eticamente compatibile con la sua pratica, di Thanatos.
Esercitazione
1. Schematizza in una mappa l’introduzione e i paragrafi Il fondo psicotico della nuova psicopatologia e Le identificazioni solide e definisci i concetti chiave di “epoca ipermoderna”, “pulsione di morte” (Todestrieb), “nevrosi”, “psicosi”, “godimento liquido”, “identificazione solida”; “discorso del capitalista”.
2. Dopo aver presentato la tesi dell’autore sull’estinzione dell’inconscio, descrivi la fenomenologia della nuova clinica psicanalitica, spiegando:
a. In cosa consiste la clinica dell’Es senza inconscio;
b. Come si è modificato nell’ipermodernità il comandamento del SuperIo e cosa intende Recalcati per “strapotere dell’Es”.
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