La lezione dedicata da Antonio Gargano alla Fenomenologia dello spirito.
[…] l’imperatore – quest’anima del mondo – l’ho visto uscire a cavallo dalla città, in ricognizione; è davvero una sensazione singolare vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, spazia sul mondo e lo domina […].
Hegel, Lettera a Friedrich Niethammer
La Fenomenologia dello spirito era stata concepita da Hegel come un’introduzione al suo sistema filosofico, poi essa crebbe nel corso della stesura e assunse una dimensione del tutto autonoma.
Prima di parlarne è necessario riprendere brevemente le tappe del discorso che portano a quel culmine dell’idealismo che è il pensiero di Hegel. Proprio nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, Hegel afferma in maniera lapidaria, categorica: «Il vero è l’intero». Se applichiamo questa affermazione alla verità filosofica, Hegel vuol dire anche che il suo sistema filosofico costituisce un passo successivo, un completamento rispetto ai precedenti: la verità della filosofia non emerge semplicemente dal sistema hegeliano, ma da tutto l’insieme della storia della filosofia; secondo Hegel, il suo stesso pensiero è vero soltanto nell’interezza, nella completezza dello sviluppo del pensiero occidentale e in particolare dell’idealismo.
Per seguire il suggerimento implicito di Hegel dobbiamo riprendere il discorso sull’interezza dell’idealismo tedesco. L’idealismo aveva superato il criticismo kantiano, che era debole dal punto di vista teoretico per il fatto di essere un sistema dualista, in quanto scindeva il fenomeno dal noumeno, e soprattutto, per la mentalità idealistico-romantica, Kant aveva il difetto di aspirare semplicemente alla conoscenza del finito, del fenomeno, senza lo slancio, tipico della cultura romantica, a cogliere l’infinito, l’assoluto.
Fichte, Schelling e Hegel, hanno invece la pretesa prometeica di cogliere la struttura dell’infinito, e di non limitarsi kantianamente al finito. Il primo tentativo è stato quello di Fichte. Questi ha compiuto un passo in avanti enorme rispetto a Kant in quanto ha abolito la cosa in sé, e, rompendo le barriere tra fenomeno e cosa in sé, ha avviato l’unificazione della realtà intorno al concetto di Io puro, ovvero di assoluto.
Hegel lo accusa però di “cattiva infinità”: l’infinito di Fichte continua a rimanere staccato dal finito. La storia umana avanza continuamente verso l’assoluto, verso l’Io puro, verso la libertà, ma non li raggiunge mai, c’è sempre qualche ostacolo del non-io che si frappone ancora. Di conseguenza l’infinito, l’assoluto, stanno sempre a una certa distanza dal finito, dall’uomo, dall’umanità e dalla storia: fra la storia e l’assoluto, fra l’uomo e l’assoluto, fra il finito e l’infinito, c’è sempre per Fichte ancora una certa distanza. Per questo Hegel lo rimprovera di restare nonostante tutto ancora all’interno di una mentalità illuministica. L’Illuminismo aveva condannato la storia dal punto di vista della ragione. Hegel dice in sostanza: Fichte ha compiuto un grande passo in avanti rispetto a Kant, ma in effetti ha posto la ragione, l’infinito, l’assoluto, da una parte e il finito, la storia, l’uomo, dall’altra parte.
Un altro passo in avanti l’aveva compiuto Schelling, che sosteneva la compresenza di io e non-io all’interno dell’assoluto, quindi aboliva la distanza che permaneva in Fichte. L’assoluto di Schelling è un assoluto che vede tutti e due gli elementi, il finito e l’infinito, lo spirito e la materia, l’io e il non-io, sempre compresenti. Per questo motivo il giovane Hegel appoggia Schelling contro Fichte. Uno dei primi scritti di stretto carattere filosofico di Hegel, del 1801, è il saggio sulla Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling: in questa presa di posizione egli propende per Schelling in quanto ha unificato i due elementi ancora in parte scissi in Fichte. Ma proprio la Fenomenologia dello spirito segna il momento in cui Hegel prende le distanze anche da Schelling, rimproverandolo di aver avuto una visione dell’assoluto quale «una notte in cui tutte le vacche sono nere», come dice con ironia.
Che cosa gli vuol rimproverare? Se l’assoluto è unità indifferenziata di io e non-io, di finito e infinito, ne consegue che non c’è nessun principio che permetta di capire come dall’assoluto si passi alla dinamica del molteplice, del plurale, dei regni della natura: la concezione dell’assoluto di Schelling è una concezione statica, in cui c’è una mescolanza che, proprio per essere una mescolanza perfetta, non lascia poi capire per quale motivo da essa si debba passare a tutto il travaglio della natura in cui si differenziano tanti enti, tanti individui l’uno diverso dall’altro. Nella natura prevale dapprima il non-io sull’io e poi, progressivamente, nelle forme più mature, si capovolge il rapporto, ma questo dinamismo non è spiegato da un assoluto statico come quello che Schelling pone all’inizio del suo sistema.
A questa visione schellinghiana Hegel muove un’obiezione fondamentale: essa è una visione puntuale dell’assoluto, l’assoluto è una sorta di punto di indistinzione in cui si intrecciano strettamente io e non-io; l’errore di Schelling è stato proprio quello di aver visto l’assoluto come puntuale e come statico, come sostanza alla maniera di Spinoza. Hegel afferma invece nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, che l’assoluto non è sostanza, bensí è soggetto. Quest’affermazione ha un significato fondamentale: l’assoluto è dinamico, è in movimento come un soggetto, non è fermo come una sostanza inerte. Schelling invece lo ha concepito come sostanza, quindi come statico, inerte e puntuale. Qual è stata la conseguenza di questo errore di Schelling? Egli ha dovuto sostenere che la conoscenza dell’assoluto è possibile in base a un’intuizione molto simile all’intuizione estetica. Abbiamo detto che per Schelling l’arte è l’organo della filosofia: c’è qualche cosa di superiore al pensiero, c’è qualche cosa che sta più in alto della filosofia, ed è la sfera estetica. Per quale motivo? Perché la realtà suprema è l’assoluto, e l’assoluto si può cogliere con un atto in fin dei conti irrazionale, di intuizione, molto simile a quello con cui si intuisce la bellezza in un’opera d’arte. Con questa caratterizzazione dell’assoluto, Schelling è caduto nell’irrazionalismo. Da qui bisogna partire per capire la visione molto diversa di Hegel.
Hegel dice: l’assoluto non è statico, non è sostanza, bensí è in fieri, è in divenire, è soggetto. Che cosa vuol dire il fatto che sia in divenire? Che non potrà essere colto nella sua essenza mediante un’intuizione puntuale, bensí mediante un discorso, cioè mediante la ragione. A questo punto bisogna rifarsi alla distinzione tra intuizione e discorso. L’intuizione, che per lo più la filosofia limita al sensibile, è un atto di conoscenza, è un atto di apprensione unico, fermo nel tempo: afferrando questo bicchiere in mano o vedendolo con un unico sguardo ho un’intuizione di quest’oggetto. L’intuizione per lo più si limita al sensibile, è un atto puntuale, non ha uno sviluppo nel tempo. Schelling estende il concetto di intuizione alla conoscenza suprema dell’assoluto: l’assoluto è un punto di indistinzione di io e non-io e viene colto con una intuizione intellettuale, simile all’intuizione estetica. Hegel invece sostiene che l’assoluto, essendo divenire, non può essere colto da un singolo atto di intellezione, ma deve essere compreso da tutta una serie di atti, cioè mediante un ragionamento, un discorso. L’assoluto non può essere afferrato immediatamente, ma soltanto attraverso la sequenza di mediazioni in cui esso si sviluppa.
“Mediazione” sembra un temine astratto, strano, ma invece è presente in ogni ragionamento. Ogni ragionamento implica il partire da una premessa e lo sviluppare appunto le fila del discorso attraverso termini intermedi – di qui la parola “mediazione” – per giungere a sostenere la propria tesi, per arrivare a dimostrare un teorema, per pervenire a una conclusione. Il ragionamento si sviluppa nel tempo e passa da un termine all’altro, è una forma di conoscenza mediata. Pertanto Hegel sostiene: non dobbiamo accettare la conoscenza intuitiva, immediata di Schelling, ma, essendo l’assoluto in divenire, essendo l’assoluto uno sviluppo, un processo, esso può essere colto soltanto mediante la discorsività, ovvero mediante il ragionamento, mediante il passaggio da un termine all’altro. A questo punto Hegel fa l’affermazione forse ancora più decisiva, che l’assoluto è un risultato: mentre per Fichte, per Schelling, l’assoluto è l’inizio, per Hegel l’assoluto è il risultato di tutto un percorso di mediazioni, è il risultato di quella sorta di enorme ragionamento di cui consiste la realtà.
È come se la realtà fosse un insieme di termini ben connessi fra loro logicamente. Per cogliere l’assoluto si tratta di comprendere l’interezza della realtà in tutte le sue mediazioni, quindi non è possibile una conoscenza immediata, di tipo sentimentale, ma è necessaria una conoscenza, come dice Hegel, scientifica, che abbia la pazienza di passare da un termine all’altro, fino a giungere alla conclusione. L’assoluto è divenire, l’assoluto è soggetto, l’assoluto è risultato. Ora, il fatto che l’assoluto sia il risultato del passaggio per termini intermedi significa che bisognerà tenere presente la totalità del processo e che, se ci si fermerà semplicemente a uno dei termini intermedi, si avrà una visione falsata della realtà. Possiamo quindi aggiungere un nuovo carattere all’assoluto: l’assoluto è soggetto, è divenire, è risultato, ma è soprattutto totalità. Bisogna tenere presente l’intero sviluppo del ragionamento, l’intero sviluppo del processo, il che è non è semplice, perché il processo è il processo della realtà, cioè è l’insieme di tutto il divenire della storia umana, e, oltre la storia umana, dello sviluppo della natura.
È stato detto che Hegel è una sorta di Eraclito moderno, e in effetti questo è vero: Hegel riprende per primo con forza la centralità del divenire che era stata propria di Eraclito, ma in una maniera molto più complessa. La verità della realtà è l’insieme dei suoi momenti, dal primo fino all’ultimo; l’assoluto è la verità di tutto questo sviluppo. Che cosa ne consegue? Che se ci si ferma semplicemente a un singolo elemento, a un “momento”, si ha una visione falsata della realtà, e questo è stato l’errore della filosofia precedente, e in particolare di quello che Hegel chiama “intelletto riflettente”. L’intelletto riflettente è il pensiero degli illuministi e di Kant. L’intelletto presenta secondo Hegel il difetto di cogliere i momenti del divenire come isolati, come scissi, come staccati gli uni dagli altri, pretende di cogliere il finito come separato da un altro finito, e procedendo in questo modo cade in un errore decisivo, in quanto non riesce ad afferrare la totalità e snatura i singoli elementi perché li svelle dal tutto di cui fanno parte. Per questo Hegel applica spesso l’aggettivo “astratto” al sostantivo “intelletto”: sono stati astratti gli illuministi, è stato astratto Kant, perché la pretesa di cogliere il singolo termine, di fermarsi a un termine intermedio senza andare oltre, implica una visione distorta in quanto si astrae (trae fuori) un termine dal tutto cui è connesso. Ogni termine è invece teso al superamento di se stesso, e qui arriviamo, appunto, alla logica di tipo nuovo, alla logica dialettica che Hegel introduce nella considerazione della realtà.
Prima di Hegel la filosofia, tranne qualche accenno soprattutto in Fichte, aveva adoperato la logica dell’identità, la logica astratta dell’intelletto: ogni cosa è uguale a se stessa, ogni termine, isolatamente preso, è uguale a se stesso, A è uguale ad A. Il principio di identità implica che ogni cosa è uguale a se stessa (A) ed è diversa da quello che non è A, è diversa dall’altro da sé (B). Il principio di identità e il principio di non contraddizione sono alla base del ragionamento logico e alla base anche della filosofia dello stesso Kant.
Quando Kant ha abbozzato una dialettica, nella Critica della ragion pura, ha contrapposto tesi e antitesi, cioè un’affermazione è uguale a se stessa e il suo contrario è uguale a se stesso: A = A, B = B. La dialettica kantiana è dicotomica, cioè consta di due termini. Con Fichte si è cominciato a introdurre un pensiero nuovo; per Fichte i termini della dialettica sono diventati tre: l’Io pone se stesso, ma l’Io nel porre se stesso pone anche il contrario di sé, il non-io; e dalla genesi del non-io scaturisce l’io empirico. Con Fichte si delinea una dialettica a tre termini, che è quella che Hegel accoglie e che estende a tutto il divenire.
Per Hegel ogni cosa è identica a se stessa, ma, essendo immessa nell’ordine temporale, tende ad andare oltre se stessa, quindi è uguale a se stessa solo se viene vista come avulsa, astratta, dal processo temporale, ma siccome invece è immessa in un processo temporale, tende a negare se stessa e a diventare diversa da quello che è, diversa da A, cioè tende a diventare B. In termini schematici questo significa che ogni elemento della realtà, che si può chiamare tesi, cioè ogni posizione, ogni cosa “A” che ci troviamo davanti, (“tesi” nel senso etimologico da títemi, il verbo greco che significa porre) tende a trasformarsi in qualche cosa di diverso da sé, diverso da A, e quindi in non-A, cioè in B. Ogni realtà è autocontraddittoria, è identica a se stessa e tende a diventare qualche cos’altro, di diverso da sé, quindi a ogni tesi corrisponde un’antitesi.
L’antitesi è la negazione della tesi, ma non è una negazione assoluta, che distrugge la tesi: come dice Hegel, è una negazione determinata, cioè una negazione circoscritta; l’antitesi è l’annientamento di una parte della tesi per portarne in luce altri aspetti, quindi non è un processo di distruzione della tesi, ma un processo di superamento (Aufhebung) della tesi stessa. Attraverso il contrasto tra quello che la cosa è e quello che la cosa tende a essere nasce un nuovo equilibrio, una nuova entità, che è la sintesi di questo processo di contrapposizione.
Riepiloghiamo: ogni cosa è autocontraddittoria, tende a superare l’equilibrio attualmente raggiunto e a conseguire un nuovo equilibrio; quel nuovo equilibrio è la sintesi. Nasce la triade di tesi, antitesi e sintesi.
Naturalmente la sintesi a sua volta costituirà un equilibrio, un assetto del fenomeno che stiamo considerando che potrà essere più o meno stabile, ma è destinato prima o poi a entrare in squilibrio per autocontraddittorietà. Notate che in Hegel non c’è mai un riferimento all’esteriore, tutto ciò che avviene, avviene in sostanza sempre per un dinamismo interno, per l’autocontraddittorietà delle cose. Anche la sintesi, a sua volta diventata un nuovo equilibrio, può essere considerata una nuova tesi, che darà luogo per autocontraddizione a una nuova antitesi, e così via, all’infinito. Il divenire per autocontraddizione, la negazione determinata di ogni tesi, significano un fatto ben preciso: presa un’entità qualsiasi, che può essere un essere vivente, una figura logica, oppure un sistema sociale, essa tende a trasformarsi in qualche cosa di altro, ma non in qualsiasi altra cosa, perché, appunto, il meccanismo che la anima è di una negazione determinata; essa porta in sé qualche cosa di diverso, ma di preciso: quello che è vecchio, quello che è superato nella cosa, verrà cancellato, ma quello che c’è di fecondo, di nuovo, verrà inverato e portato a un nuovo livello. In altri termini, che cosa vuol segnalare Hegel con questo tipo di dinamica? Che il divenire è un divenire ordinato, si sviluppa secondo una logica ben precisa, che nei manuali viene spesso schematizzata con la triade di tesi, antitesi e sintesi, ma che in effetti Hegel ha messa alla prova mostrando che tutta la storia e tutto il divenire si sviluppano in questo modo. Hegel non ha esposto la dialettica come sto cercando di sintetizzarla: ha dimostrato che la filosofia si sviluppa dialetticamente, che la religione ha una storia spiegabile con ritmi dialettici, che la storia dell’arte si può spiegare in questo modo, etc. Dal 1818 al 1831, l’anno della morte, Hegel ha tenuto corsi di lezioni a Berlino (di cui ancora non sono stati pubblicati tutti i manoscritti), illustrando l’andamento dialettico della realtà, mostrando cioè che il diritto, la società, le forme artistiche, le religioni, le filosofie, seguono un divenire dialettico, un divenire ordinato.
Riepiloghiamo: il vero è l’intero, il vero è la totalità, il vero è il divenire, ma il divenire si sviluppa in maniera ordinata, attraverso un meccanismo logico dialettico che la mente umana è perfettamente in grado di cogliere e di riprodurre. Per questo Hegel è stato definito, oltre che l’Eraclito moderno, “l’ultimo dei Greci”: infatti a questo punto possiamo ben comprendere l’affermazione famosa:
«Tutto ciò che è razionale è reale; tutto ciò che è reale è razionale».
C’è un logos, c’è una profonda razionalità in tutta la realtà; questa razionalità è fedelmente rispecchiata dalla razionalità della mente umana. La natura e la storia sono perfettamente comprensibili, sono animate da una logica, hanno al loro interno un logos, divengono in un ordine preciso, seguendo una successione ordinata di momenti, e la ragione umana è pienamente in grado di ripercorrere le tappe di questo divenire e di cogliere il logos presente nella natura e nella storia. C’è una perfetta razionalità della realtà e, proprio perché l’uomo è un essere razionale, ha la capacità di cogliere tutto il divenire, di capire la natura, di capire la storia. Ci troviamo qui di fronte alla visione più alta che la filosofia abbia prodotto dell’uomo: la ragione umana non ha nessun limite. Mentre per Kant la ragione umana era limitata dalla cosa in sé, continente sconosciuto, impenetrabile, oscuro, in cui non ci si poteva avventurare, per Hegel niente può fermare la ragione umana, che è in grado di comprendere tutto, anzi, orgogliosamente, dice Hegel, capisce anche Dio, perché sarebbe ben strano se Dio, che è l’entità suprema, invece di avere il carattere della suprema razionalità, fosse qualche cosa di sfuggente rispetto alla razionalità. Attaccando Schleiermacher e i romantici del sentimento, Hegel sostiene:
«Dio non si coglie col sentimento o con la fede: Dio, essendo suprema manifestazione della realtà, è perfettamente razionale, quindi si può cogliere con la ragione».
Siamo oramai lontanissimi da Kant. Kant aveva detto che la metafisica non è possibile come scienza. Nel bilancio della Critica della ragion pura la metafisica è espunta perché non è una scienza. Per Hegel, invece, è possibile conoscere tutto, è possibile conoscere l’infinito, l’assoluto, è possibile conoscere Dio stesso, in quanto esso è l’assoluto.
A questo punto si potrebbe iniziare a parlare del sistema di Hegel, ma invece vi ho voluto porre all’attenzione la Fenomenologia dello spirito. Che cos’è la Fenomenologia dello spirito? Il problema è questo: abbiamo detto che non si può per Hegel iniziare immediatamente un discorso, in quanto viviamo sempre all’interno della mediazione, non si può iniziare a parlare direttamente dell’assoluto. Hegel non espone direttamente il sistema, ma scrive la Fenomenologia dello spirito, che è la descrizione di tutto il percorso, pieno di errori, che l’umanità compie fino ad arrivare al sapere assoluto. L’aveva concepita come una introduzione al sistema, perché il sistema anch’esso non può essere qualche cosa che si dischiude all’improvviso, bensí è il frutto di tutto il travaglio del pensiero, di tutto l’atteggiamento dell’uomo verso la realtà, anche nei suoi momenti negativi. Ma, come abbiamo detto, il negativo per Hegel non è negativo in assoluto, perché esso è qualche cosa di necessario per preparare uno stadio più avanzato; per Hegel tutta la storia umana e, in particolare, tutta la storia della filosofia, hanno qualche cosa da insegnare, perché attraverso le negazioni determinate hanno permesso di far salire nuovi gradini alla consapevolezza dell’uomo.
Nella Fenomenologia dello spirito Hegel cerca di ripercorrere tutti questi gradini, a partire dal livello più elementare di conoscenza, cioè dalla certezza sensibile, fino a giungere al livello supremo del sapere assoluto. Quando saremo arrivati al sapere assoluto si aprirà la prima parte del sistema, cioè la logica, che considera la prima manifestazione della realtà, l’idea: l’idea è l’insieme delle strutture logiche della realtà. Ma, prima di giungere alla logica, cioè prima di descrivere la struttura del mondo ideale, che è la “tesi” della realtà, Hegel ricostruisce nella Fenomenologia dello spirito tutto il cammino che precede.
Che cosa vuol dire questo titolo? Da fáinomai, apparire – sono i modi di apparire, i modi di manifestarsi dello spirito nel percorso travagliato che lo porterà dai livelli infimi di conoscenza fino al sapere assoluto. Quando Hegel parla di “spirito”, bisogna tenere presente che intende, sostanzialmente, la consapevolezza, la coscienza, quindi la Fenomenologia dello spirito è l’insieme delle manifestazioni, dei modi di apparire della coscienza nel lungo cammino fino al sapere assoluto. C’è anche un altro motivo di questo titolo: il sapere che viene descritto in tutto questo percorso è un sapere apparente (un sapere fenomenologico), apparente perché non si è ancora arrivati alla pienezza della comprensione logica, non si è ancora arrivati al sapere assoluto. “Modi di apparire”, “manifestazioni”, “fenomenologia”: è una fenomenologia anche nel senso che tutti questi modi di apparire non colgono ancora la verità della realtà, ma scorgono un’apparenza di realtà, perché sono stadi soltanto preparatori. La fenomenologia è la conoscenza apparente nel suo svolgimento fino ad arrivare alla conoscenza matura, che Hegel poi esprime nel suo sistema. La Fenomenologia dello spirito ha come sottotitolo: Scienza dell’esperienza della coscienza. Per “esperienza” però Hegel non intende solo l’esperienza teoretica: “esperienza” per lui è tutto; l’arte, la religione, la filosofia, il diritto, la società, lo Stato sono tutti momenti in cui si manifesta l’esperienza umana. Per questo nella Fenomenologia dello spirito egli non prende in considerazione soltanto le forme di conoscenza, la sensibilità, la percezione, l’intelletto, ma tutta l’esperienza umana: l’esperienza giuridica, l’esperienza politica, l’esperienza religiosa. L’opera è molto densa, e soprattutto presenta questa difficoltà, che Hegel cerca di illustrare il cammino logico per cui da ogni forma inadeguata si passa a una forma più adeguata, ma egli cerca di far coincidere il più possibile questo percorso logico con il divenire storico e in questo ci sono forzature, unite a sforzi geniali, per far rientrare il contenuto storico nello svi- luppo logico. Nella Fenomenologia si intrecciano insomma una traccia logica e una traccia storica. È come se ci fossero due piani di discorso che si intersecano di continuo e creano qualche difficoltà di interpretazione.
Hegel prima scrisse, tra l’altro di getto, quest’opera (la finì – secondo quanto riferisce il suo discepolo Gans – a Jena la sera prima della battaglia napoleonica: gli ultimi capitoli sono stati scritti molto in fretta), successivamente ha scritto la Prefazione. La Prefazione è molto importante: viene considerata la presa di distanza da Schelling e il principio della filosofia originale di Hegel. Hegel afferma all’inizio:
«La vera figura in cui la verità esiste non può essere che il sistema scientifico di essa».
Vuol dire: non ci si può illudere di attimi di apprensione immediata perché la realtà è strutturata, è complessa, è articolata; la verità esiste non come un punto indistinto, ma come un organismo, come un’architettura, come una struttura, quindi per conoscere la verità bisogna avere la pazienza di mettersi a seguire scientificamente (ribadisce questo termine) lo strutturarsi di questa architettura, in tutta la sua articolazione. Come c’è un sistema architettonico della realtà, ci dovrà essere un sistema architettonico del sapere, di conseguenza sarà necessario un sistema filosofico. Hegel è un filosofo fortemente sistematico:
«La vera figura in cui la verità esiste non può essere che il sistema scientifico di essa. Collaborare a ciò, che la filosofia si avvicini alla forma della scienza, – affinché essa possa deporre il suo nome di amore del sapere ed essere sapere effettivo – è quanto io mi sono proposto».
Afferma con un certo orgoglio:
«Mi propongo di superare la fase della filosofia, perché la filosofia è “amore del sapere”, mentre io voglio arrivare al sapere stesso».
Hegel in questo presenta una forte carica di autoconsapevolezza; è stato definito il filosofo della morte dell’arte, si potrebbe anche dire che è il filosofo della morte della filosofia, perché pretende di arrivare a un sapere effettivo, che non è più amore del sapere, come viene segnalato dall’etimologia della parola “filosofia”, ma è il sapere stesso. Hegel non pretende di chiudere la storia e di chiudere la filosofia col suo sistema, però ha l’orgogliosa consapevolezza di costituire un punto sicuramente terminale, di arrivo, almeno di una fase storica. Riprendiamo la lettura:
«Ponendo la vera figura della verità in questa scientificità – o, ciò che è lo stesso, affermando che la verità ha l’elemento della sua esistenza unicamente nel concetto – io so bene che questo sembra contraddire una rappresentazione (insieme con le sue conseguenze) tanto pretenziosa quanto diffusa nella convinzione della nostra epoca».
Hegel dice: vivo in un’epoca che è quella del Romanticismo, il Romanticismo si fonda su in-tuizione, bellezza, fede, sentimento, io invece, pur aderendo allo spirito di quest’epoca, sostengo che il nocciolo della comprensione è sempre un fatto concettuale e quindi scientifico.
«Un chiarimento intorno a questa contraddizione non sembra quindi superfluo, anche se esso qui non può essere che una pura asserzione, come lo è la convinzione contro cui si rivolge. Se dunque il vero esiste solo in ciò o piuttosto solo come ciò che viene chiamato ora Intuizione, ora Sapere immediato dell’Assoluto, Religione, l’Essere – non l’essere nel centro dell’amore divino, ma l’essere stesso di questo centro», [non pretendere di essere come fedeli al centro dell’amore di Dio, ma pretendere proprio di cogliere l’essere di Dio; quindi se l’assoluto si concepisce come colto da un’intuizione, dalla religione, eccetera, «allora da questo punto di vista ciò che si richiede per la presentazione della filosofia è piuttosto il contrario del concetto. L’Assoluto non deve venire concepito», [secondo i suoi antagonisti, quindi secondo Schelling, non deve venire concepito col pensiero] «ma sentito e intuito; non è il suo concetto, ma sono il suo sentimento e la sua intuizione che debbono avere la parola e venire espressi». Respinge l’idea che con il sentimento si possano avere forme di conoscenza dell’assoluto. Hegel riconosce che la sua epoca è caratterizzata da una novità, dal fatto che l’uomo vuole di nuovo affrontare l’assoluto, ma questa giusta esigenza è soddisfatta male da Schelling e dagli altri.
«A questa esigenza corrisponde lo sforzo affannoso, quasi eccitato ed esasperato, volto a strappare gli uomini dal loro essere sprofondati nel sensibile, nel volgare e nel singolo, e ad indirizzare il loro sguardo verso le stelle: come se essi, del tutto dimentichi del divino, fossero sul punto di accontentarsi, come il verme, di polvere e d’acqua». L’umanità è sprofondata nel materialismo; questa è l’analisi che Hegel dà dell’epoca, ed è molto importante perché l’epoca di Hegel è la nostra, dopo l’epoca della Rivoluzione francese non è nata nessuna nuova epoca storica: ci troviamo ancora nell’età contemporanea aperta dalla Rivolu- zione francese. Questa diagnosi hegeliana si può pertanto applicare all’oggi: l’uomo è sprofondato nel sensibile, ma ha un’esigenza di soprasensibile, è sprofondato nel finito, nel materiale, ma ha esigenze spirituali. Queste esigenze spirituali non vengono più soddisfatte in maniera piena dalle religioni. Allora si tratterà di trovare forme nuove per venire incontro all’esigenza di assoluto; questa esigenza è affrontata in maniera inadeguata dai romantici, da Schelling, da Schleiermacher, che si affidano alla fede, al sentimento, cioè a mezzi inadatti a raggiungere l’assoluto.
«Un tempo essi avevano un cielo ricco di vasti tesori di pensiero e di immagini. Il significato di tutto ciò che è stava nel filo di luce che lo legava al cielo» [tutto veniva inteso in funzione del soprasensibile, della religione, della trascendenza]; «lungo questo filo, invece di trattenersi nella presenzialità di questo mondo, lo sguardo scivolava al di là di esso, verso l’essenza divina, verso – se così si può dire – una presenza al di là di questo mondo.
L’occhio dello spirito doveva a forza essere indirizzato verso ciò che è terreno, e trattenuto presso di esso». Nell’epoca precedente l’uomo tendeva troppo a volgersi alla trascendenza, a leggere tutto nel segno del sovrasensibile, dello spirituale. Quindi l’epoca precedente alla nostra ha fatto bene, con l’Illuminismo, con lo sviluppo della scienza, ad attirare l’attenzione dell’uomo verso la terra, verso il sensibile, verso il materiale, perché l’uomo era distratto dai sogni della metafisica: «L’occhio dello spirito doveva a forza essere indirizzato verso ciò che è terreno, e trattenuto presso di esso; e c’è voluto un lungo tempo per introdurre laboriosamente quella chiarezza, che solo il sovraterreno possedeva, nell’opacità e nella confusione in cui giaceva il senso dell’al di qua, e per suscitare e rendere viva l’attenzione a ciò che è presente in quanto tale, attenzione che venne chiamata esperienza». C’è voluto un grande lavoro per fare in modo che l’uomo dalla trascendenza dantesca, per così dire, per cui ogni evento è iscritto nel soprannaturale, nel sovrasensibile, passasse all’attenzione per l’esperienza sensibile. Ci vorrà un lavoro altrettanto lungo per compiere il necessario cammino inverso. «Ora sembra che ci sia bisogno del contrario, e che il senso sia talmente radicato in ciò che è terreno, che occorra altrettanta forza per sollevarlo al di sopra di esso. Lo spirito si mostra così povero che, come il viandante nel deserto desidera un semplice sorso d’acqua, così anch’esso sembra anelare, per il suo ristoro, al mero sentimento del divino in generale: da ciò di cui lo spirito si accontenta, si può misurare la grandezza della sua perdita». Lo spirito anela al sovrasensibile e si deve accontentare di un piccolo sorso d’acqua, cioè delle posizioni di carattere estetico di Schelling, delle posizioni di carattere fideistico di Schleiermacher, invece ci vuole ben altro per raggiungere l’assoluto al livello nuovo a cui la storia umana è pervenuta. Hegel cioè dice: «L’uomo prima è vissuto nella metafisica, nel mondo del sovrasensibile, ed è stato giusto, con un lungo lavoro secolare, attirarlo alla terra e sviluppare le scienze; adesso l’epoca storica ci pone il problema inverso, l’uomo avverte un disagio, anela al sovrasensibile, allo spirituale, all’ideale, al divino, però non gli si può presentare l’ideale e il divino nella vecchia forma, non si può tornare indietro nella storia, quindi bisognerà trovare il modo di raggiungere l’assoluto nella forma della scienza, non nella forma dell’intuizione o della fede religiosa, perché altrimenti non ci si porrà al livello a cui la storia è arrivata. Lo sforzo suo è di raggiungere l’assoluto in maniera logica, cioè scientifica.
«Del resto non è difficile a vedersi, che la nostra è un’età di gestazione e di passaggio ad una nuova era». Hegel ha piena consapevolezza che noi viviamo in un’età di trapasso in cui vecchie certezze si sono sgretolate e nuove certezze non sono nate. «Lo spirito ha rotto con quello che è stato fino ad ora il mondo del suo esserci e del suo rappresentare; esso è in procinto di calare tutto ciò nel passato, ed è impegnato nel travaglio della sua trasformazione». Viviamo troppo al di dentro di una trasformazione per rendercene conto: c’è un travaglio doloroso, che sembra implicare solo disgregazione, ma che è la preparazione di una nuova era: «In verità esso non è mai in quiete, ma è preso da un movimento sempre progressivo. Ma allo stesso modo che nel bambino [vuol dire nel nascituro, nel feto] dopo un lungo e silenzioso periodo di nutrizione, il primo respiro interrompe – con un salto qualitativo – il processo graduale di quello sviluppo soltanto quantitativo, ed allora il bambino è nato, così lo spirito in via di formazione matura lentamente e silenziosamente verso la sua nuova figura». Anche se non ce ne accorgiamo, l’epoca storica sta, faticosamente, per partorire qualche cosa di nuovo, però, appunto, secondo una delle leggi della dialettica, la quantità all’improvviso si trasforma in qualità, cioè si accumulano prima gradualmente le condizioni di un cambiamento e poi il cambiamento sboccia all’improvviso. Non ci rendiamo conto che viviamo in un’epoca di trasformazione, in cui si stanno accumulando le condizioni di una nuova nascita; sentiamo ogni tanto i gemiti di un parto che sta per venire, non lo abbiamo ancora visto, «ma io sono certo, dice Hegel, che lo spirito, cioè il divenire dell’uomo, sta per generare una nuova era, che poi sboccerà all’improvviso». Hegel è un filosofo rivoluzionario, per lui la storia presenta discontinuità: procede silenziosamente per anni, anche per secoli, poi, all’improvviso, emerge un’epoca nuova. È chiaro che ha presente l’esempio della Rivoluzione francese, per la quale si era entusiasmato con Schelling e Hölderlin di cui era compagno di studi. Ha in mente l’immagine dello spirito dell’uomo che ha cercato di prendere la direzione della storia con la Rivoluzione francese, e si aspetta lo sboccio di un’età nuova. Dunque: «Esso disgrega frammento dopo frammento l’edificio del suo mondo precedente, e il vacillare di quest’ultimo si lascia presagire soltanto attraverso dei sintomi sporadici; la leggerezza e la noia, che invadono ciò che ancora sussiste» [vien fatto di pensare alla leggerezza e alla noia di tanti intellettuali italiani ed europei i quali scoraggiano dall’uso dell’intelletto e dallo studio della filosofia perché sono oramai scettici e annoiati di tutto, e li vedo rappresentati già in questo passo di Hegel], «il vago presentimen- to di un ignoto, sono i segni che annunciano che qualcosa di diverso si va preparando. Questo graduale processo di sbriciolamento, che non alterava la fisionomia dell’intero, viene interrotto dall’aurora che, come un lampo, d’un tratto presenta alla vista la struttura del nuovo mondo». Avviene allora lo spuntare dell’alba di una nuova epoca.
«Considerare un qualunque esserci, com’esso è nell’Assoluto, qui non significa altro, che dire che se ne è bensí parlato come di un qualcosa; ma che nell’Assoluto, nello A = A, non vi è nulla del genere, perché lì tutto è uno». È una frase un po’ contorta, che cerca di riprodurre un ragionamento di Schelling. «Contrapporre alla conoscenza differenziata e compiuta, o che ricerca ed esige il proprio compimento, quest’unico sapere, che nell’Assoluto tutto è uguale, oppure far passare il proprio Assoluto per la notte in cui, come si suol dire, tutte le vacche sono nere, questa è l’ingenuità della mancanza e vuotezza di conoscenza». C’è bisogno di una conoscenza differenziata, ma Schelling di questo non tiene conto, e pretende una unità indifferenziata. Hegel vuol dire: «Vi presenterò un sistema filosofico all’altezza della esigenza analitica dell’Illuminismo e di Kant, che hanno colto l’opportunità del discernimento, del separare, del vedere le cose ognuna nella sua individualità, e congiungerò questo con l’aspirazione all’assoluto e all’unità di Schelling. Il mio sistema filosofico sarà un sistema fortemente sintetico, perché raccoglierò tutte le istanze dell’intelletto astratto, che pure sono in parte giuste, dell’Illuminismo, e tutte le esigenze di sintesi e di assolutezza di Schelling. Sarò un filosofo che darà conto sia del finito, sia dell’infinito, mentre invece Schelling parla in fondo solo di un infinito che rimane sterile e astratto. «Secondo il mio modo di vedere, che dovrà giustificarsi soltanto mediante l’esposizione del sistema stesso, tutto dipende da questo: che si colga e si esprima il vero non come sostanza ma, altrettanto decisamente, come soggetto, […] il vero è il divenire di se stesso».
Il vero coincide con la propria autotrasformazione e autodeterminazione. È l’“immane potenza del negativo”: il processo della realtà, il divenire, passano per momenti di parziale distruzione, di cui bisogna tenere conto; se non si passa per questi momenti negativi si cade in un atteggiamento astratto. Il negativo fa paura, il negativo è la morte, ma, Hegel dice, la vera filosofia deve avere la forza di sostenere lo sguardo della morte, cioè deve assorbire anche il negativo, altrimenti rimane sempre esterna alle cose. «Il circolo che riposa chiuso in sé [la perfezione astratta] e che, come sostanza, trattiene i suoi momenti, è la relazione immediata, che non ha quindi nulla di meraviglioso. Ma che l’accidentale come tale, separato dal proprio ambito, che ciò che è legato ed è effettivamente reale solo nella sua connessione con altro, ottenga una propria esistenza determinata e una libertà separata, questa è l’immane potenza del negativo:…». L’intelletto vede le cose staccate. Le cose sono tutte legate tra loro ed una cosa è effettivamente reale soltanto nella sua connessione con tutte le altre. È vero quello che è legato in connessione con altro; le cose nel loro isolamento sono false; è un po’ la ripresa di quanto Eraclito aveva espresso in maniera molto semplice: il bianco non può essere concepito senza il nero, la morte non può essere concepita senza la vita, A non può essere concepito senza il suo opposto B. Le cose si possono comprendere veramente solo nel loro legame con l’altro, ma c’è anche il momento in cui l’intelletto vede le cose come separate: questa è «l’immane potenza del negativo». «…è l’energia del pensiero, del puro Io». [L’Io, l’intelletto si pone di fronte alle cose e le scinde, le vede nel loro aspetto astratto, nel loro negativo]. «La morte, se vogliamo chiamare così quella irrealtà, è la cosa più terribile, e tener fermo ciò che è morto è ciò che richiede la massima forza. La bellezza senza forza odia l’intelletto, poiché questo pretende da lei ciò che essa non può fare.
Ma non quella vita che si spaventa dinnanzi alla morte e si conserva intatta dalla distruzione, bensí quella che sopporta la morte e si mantiene in essa, è la vita dello spirito» [la vita (lo spirito è vita), ha bisogno della morte; il positivo ha bisogno del negativo]. «Lo spirito conquista la sua verità solo in quanto esso ritrova se stesso nell’assoluta lacerazione. Esso è bensí questa potenza, ma non allo stesso modo del positivo, che si distoglie dal negativo, come quando di qualcosa noi diciamo che non è nulla o che è falso e, dopo essercene così sbarazzati, ce ne allontaniamo tosto per passare a qualche cosa d’altro: al contrario esso è questa potenza solo in quanto guarda in faccia il negativo e si sofferma presso di esso». Riprende la grande concezione platonica: il vero si può capire soltanto in contrap- posizione al falso, nasce sullo sfondo dell’errore, nasce dall’errore. In che senso riprende Platone? Perché Platone ha concepito la filosofia come dialogo e il dialogo implica posizioni che vengono superate perché sono parziali, sono erronee, sono false. Hegel stesso dialoga con l’Illuminismo, con Kant, con Fichte e con Schelling; anzi direi con tutti i filosofi precedenti, quindi la sua posizione vera non può essere scissa dalle posizioni parzialmente erronee di Kant, di Fichte, di Schelling, e così via. Pertanto Hegel ripercorre il divenire della conoscenza umana da questo punto di vista, considerando tutto come importante perché quello che è negativo non va gettato via, ma è la premessa del positivo.
Abbiamo visto l’essenziale della Prefazione, ora veniamo al contenuto dell’opera. I gradini per arrivare dalla conoscenza più banale al sapere assoluto sono quattro: la coscienza, l’autocoscienza, la ragione e lo spirito. Il primo stadio è quello della coscienza. “Coscienza” significa consapevolezza, prima di tutto essa è data dalla sensibilità, la certezza sensibile è la prima forma elementare di conoscenza. La certezza sensibile, rileva Hegel, è caratterizzata dal fatto che coglie il qui e l’ora, cioè riceve un impulso, un’impressione che sono puntuali, che sono ben delimitati. Il senso ci mette in contatto con quanto ci sta vicino, qui e ora. Hegel fa emergere dalla sensazione un meccanismo dialettico: la sensibilità non è adeguata, perché si ferma al qui e all’ora, vuole essere concreta, vuole afferrare quello che sta a portata di mano, però il qui e l’ora, che sono le caratteristiche di ogni sensazione, sono predicabili all’infinito, ci sono tanti qui e tanti ora, tutte le sensazioni hanno sempre un qui e un ora. Tra l’altro, se parlo di un qui e di un ora, ovviamente, nel cogliere l’attimo, mi sto rifacendo a un divenire temporale, mi sto riferendo implicitamente al tempo; nel dire che sto afferrando il bicchiere qui sul tavolo, implicitamente mi sto riferendo a uno spazio di cui questo è un punto limitato: un qui. Che cosa vuol dire? Che anche la sensazione, che è la conoscenza più immediata, essendo una conoscenza del qui e dell’ora, rinvia a qualche cosa di ulteriore. La conoscenza sensibile vuole essere qualche cosa di particolare, di individuale, che non ha niente a che fare con l’universale, e invece non è vero, perché ogni conoscenza sensibile è conoscenza di un qui e di un ora, ma questo qui e questo ora rinviano al tempo, rinviano allo spazio, e ogni sensazione potrò collocarla qui e ora. Quindi “qui” e “ora” sono predicati che posso usare indefinitamente: mentre con la sensazione pensavo di avere a che fare con qualche cosa di puntuale, di limitato, di immediato, di concreto, di particolare, essa si rivela contraddittoria: mi rinvia a qualcosa di più grande di lei, mi rinvia dal particolare all’universale, perché il qui e l’ora sono deter- minazioni di spazio e di tempo indefinitamente riutilizzabili. Ho sottolineato questo passaggio perché testimonia del tipico modo di ragionare di Hegel: anche quello che sembra più delimitato non può essere circoscritto, tende ad andare oltre se stesso.
Il secondo stadio è quello della percezione. La percezione implica che si unifichino le sensazioni come riferite a uno stesso oggetto, per esempio il bianco, la forma conoide, la sensibilità liscia riferite al bicchiere: si unificano varie sensazioni intorno a un oggetto. Anche riguardo alla percezione, cioè al cogliere gli oggetti, Hegel si sofferma a sottolineare che si tratta di una conoscenza contraddittoria, che deve essere superata. Per quale motivo? Perché il bicchiere che ho preso ad esempio è uno, e infatti lo chiamo con un solo nome. Però è bianco, è liscio, ha una forma simile a un tronco di cono, può essere pieno, vuoto, ecc., cioè presenta tutta una serie di qualità, quindi è contraddittorio, perché è uno e insieme molteplice. Lo chiamo con un nome, ma in effetti è fatto di tante parti e di tante caratteristiche sensibili: è bianco, liscio, freddo. Hegel sviluppa più o meno questo ragionamento: se il bicchiere è uno e molteplice evidentemente o l’uno o il molteplice saranno nel bicchiere, mentre l’altro termine, che non è proprio del bicchiere, sarà nella mia mente. Se il bicchiere è molteplice vuol dire che l’unità gliela sto dando io, cioè sto unificando con un’operazione dell’intelletto varie caratteristiche e le sto mettendo assieme nel concetto di bicchiere; allora qualunque oggetto, essendo contemporaneamente, quando viene percepito, uno e molteplice, dà luogo a una contraddizione tra uno e molteplice. Se ci sono tutte queste qualità nel bicchiere l’unità non l’avrò dal bicchiere, ma da me stesso, oppure potrei dire il contrario, cioè che il bicchiere è uno e io lo elaboro in varie sensazioni.
Comunque sia, a questo punto diventa chiaro che quando percepisco qualche cosa la rielaboro: entriamo in una terza fase, quella dell’intelletto. Quando percepisco un oggetto lo rielaboro, e Kant su questo punto ha perfettamente ragione, e viene pienamente assorbito da Hegel: l’intelletto è uno strumento che dà forma, che unifica, che smembra, che, insomma, applica proprie forme trascendentali agli oggetti. Dalla sensazione siamo passati all’intelletto, recuperando il discorso di Kant. Ora, quando la coscienza si è pienamente sviluppata, ha raggiunto lo stadio di intelletto, che cosa avviene? L’intelletto si accorge di essere capace di manipolare gli oggetti, di dare forma agli oggetti, quindi si rende conto di se stesso. Kant ha parlato di Io penso come l’insieme di tutte le categorie, l’appercezione trascendentale: nel momento in cui l’intelletto si rende conto di unificare gli oggetti, di dare forma agli oggetti, si rende conto anche di se stesso. Si passa così dalla coscienza all’autocoscienza. Lasciamo la prima sezione della Fenomenologia e passiamo alla seconda.
Il soggetto, dopo essersi riversato sul mondo, arrivato all’intelletto, vede balenare un livello nuovo, cioè la conoscenza di se stesso, la consapevolezza di se stesso. L’autocoscienza è inizialmente caratterizzata da questo: sono consapevole di me, tutto il resto lo vedo come oggetto; fino a quando si tratta del bicchiere la cosa è abbastanza tranquilla, ma quando si tratta del prossimo, quando si tratta di un altro, scatta un meccanismo conflittuale. In quanto autocosciente tendo a vedere l’altro essere umano come un oggetto fra gli oggetti; naturalmente l’altro farà lo stesso nei miei confronti.
Tenderò a vedere l’altro come un oggetto, o, meglio, come qualche cosa da ridurre a strumento, come il bicchiere è mio strumento. L’altro mi si presenta come un oggetto al pari degli altri oggetti, ma dall’altra parte mi si vede nello stesso modo. Si entra in una situazione di conflittualità. Le varie autocoscienze, i vari individui, si danno a una lotta reciproca. È stato notato, giustamente, che nel passaggio dalla coscienza all’autocoscienza si passa dalla teoria alla prassi. Sensazione, percezione e intelletto sono tre forme di conoscenza degli oggetti, quando siamo arrivati all’autocoscienza, cioè alla seconda parte della Fenomenologia, entriamo nella sfera della pratica. Le autocoscienze entrano in conflitto tra loro, si fanno la guerra tra loro. Hegel riprende la teoria di Hobbes: homo homini lupus, l’uomo è lupo per l’altro uomo; l’uomo fa guerra a tutti gli altri: c’è il bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti. La situazione iniziale dell’autocoscienza equivale allo stato di natura di Hobbes: le autocoscienze sono in conflitto fra di loro. Che cosa succede? Che una vince e l’altra perde. Quella che perde non viene annientata, perché serve come strumento, diventa schiavo. A questo punto Hegel cerca di far coincidere il suo ragionamento con la storia: la prima fase della storia è l’età schiavistica, l’età greco-romana sostanzialmente. Il vincitore, l’autocoscienza che nella guerra contro l’altra autocoscienza ha prevalso, riduce l’altra autocoscienza a suo strumento, a suo oggetto, come la macina, come la vanga, come l’asino, la fa diventare suo schiavo. Inizia la famosa dialettica tra il signore e il servo, signoria e servitù, che è la prima figura dell’autocoscienza (“figura” è un termine che Hegel adopera nella Fenomenologia per indicare uno stato della coscienza).
Abbiamo detto che secondo Hegel le cose non sono mai statiche, ma tendono sempre a trasformarsi. Il signore ha avuto la meglio sul servo, ma il servo deve soddisfare i bisogni del padrone, deve lavorare la terra, deve accudire gli animali, ha un contatto con la natura; il padrone perde il contatto con la natura, si limita a consumare quello che il servo ha prodotto. Allora gradualmente si viene a verificare questa situazione: il servo finisce con l’acquisire una coscienza di sé sempre maggiore, perché produce, sta a contatto con la natura, ha un sapere, un’abilità, una capacità tecnica; il signore si infiacchisce, non si confronta con le cose, si confronta con la natura solo attraverso la mediazione del servo. A un certo punto il servo si rende conto di essere egli il vero signore, perché senza di lui il padrone muore di fame, senza di lui il padrone non può soddisfare i propri bisogni. C’è un capovolgimento dialettico. Il servo diventa padrone del proprio padrone; il padrone si trova a dipendere dal servo per il suo sostentamento, il padrone si trova ad avere un contatto con la natura soltanto indirettamente attraverso il servo, quindi paradossalmente il padrone dipende dal servo. All’inizio di questa fase dialettica il servo dipendeva dal padrone, la sua vita e la sua morte erano nelle mani del signore, ma alla fine è tutto al contrario: il servo è diventato il padrone del padrone.
Questo stadio corrisponde alla schiavitù antica e alla emancipazione dalla schiavitù; ora, il momento di emancipazione dalla schiavitù è il momento più importante della storia e anche il più delicato. Il servo alla fine del mondo antico, quando ha acquisito coscienza della propria superiorità, non si interessa più del mondo, nasce la filosofia stoica, che, come sapete, precorre elementi del cristianesimo: il mondo non conta, sono schiavo da un punto di vista materiale, ma quello che è veramente importante è la libertà interiore, non dipendo dal mio signore, sono un uomo libero. Questo atteggiamento si intreccia con quello dello scetticismo perché per lo scettico, appunto, l’oggettività, l’esterno non conta, conta soltanto la propria consapevolezza, il proprio punto di vista sulle cose. Alla fine del mondo antico nascono le filosofie stoiche e scettiche, filosofie in cui il mondo viene negato: il mondo non è importante: non ci interessa di essere sudditi dell’imperatore di Roma perché abbiamo la libertà dello spirito, secondo gli stoici e secondo gli scettici; ma soprattutto irrompe il cristianesimo che abolisce i rapporti di schiavitù e che predica che tutti gli uomini sono fratelli in Cristo. La fase iniziale del cristianesimo, che dura fino al Rinascimento, è quella della coscienza infelice. Mentre nel mondo antico, nel rapporto tra signoria e servitù, c’era uno scontro tra due autocoscienze, la personalità del signore e quella del servo, con il cristianesimo, che ha livellato gli uomini, tutti uguali perché fratelli in Cristo, la contraddizione entra nella singola coscienza, diventa un altro tipo di contraddizione.
L’uomo si sente finito, si sente lontano dalla propria essenza spirituale e dall’infinito, da Dio; con un’immagine molto suggestiva Hegel dice: tutto il cristianesimo medievale converge verso le crociate, i crociati vogliono andare a vedere che c’è nel Santo Sepolcro e lo trovano vuoto. Vuole dire con questo: Dio è tornato in cielo, l’uomo è solo, con la sua finitudine, ma oramai aspira all’infinito, quindi tutta l’età cristiana medievale è l’età della coscienza infelice, vale a dire dell’uomo che si sente spossessato della sua vera natura, vive nel limitato, vive nel finito, ma ha avuto la venuta del Cristo, che gli ha lasciato intravedere il regno dei cieli, l’infinito, il sovrannaturale. L’uomo vive nel mondo naturale, ma aspira al sovrannaturale; la sua coscienza è intimamente lacerata e spezzata.
Il passaggio successivo è un passaggio a un’altra fase, completamente diversa, che è quella della ragione: è vero che la coscienza cristiana, cioè la coscienza infelice, è lacerata, ma oramai il cristiano sa che tutto quello che conta è interiore, non c’è più un elemento di antagonismo esterno come nella dialettica servo-padrone, quindi si arriva alla fase superiore, che è quella della ragione, in cui l’uomo sa che oramai quello che conta sta al suo interno. La fase della ragione inizia storicamente con il Rinascimento. Con il Rinascimento si avvia il superamento della coscienza infelice, cioè del distacco tra finito e infinito. Il Rinascimento (basti pensare a Giordano Bruno) è immanentistico: Dio vive dappertutto, Dio è presente nella natura, la ragione tende a essere omogenea alla natura, a capire la natura: nasce la scienza. La ragione umana non ha più limiti, l’infinito è riconciliato col finito, l’uomo può conoscere la natura perché oramai egli ha capito che la sua ragione, che è tutto, non ha niente di esterno a sé. Inizia l’impetuoso sviluppo della scienza, con Galilei, Newton, ecc. La ragione osservativa si impadronisce sempre di più delle conoscenze del mondo. La ragione ha anche però un risvolto pratico, si manifesta anche come ragione attiva.
Nella ragione attiva Hegel identifica tre figure fondamentali. Da una parte c’è il personaggio goethiano del Faust: raggiunta la propria autonomia, la forza della ra-gione, l’uomo tende nella sua pratica a godersi il mondo e ad affermare se stesso nel mondo. Questo atteggiamento risulta parziale: non basta volersi affermare, l’uomo ha anche in se stesso, nei suoi rapporti pratici, una voce interiore che gli dice di amare il prossimo, partecipa anche al mondo dei sentimenti. Al momento brutale di volontà di affermazione del faustismo, succede il momento del sentimentalismo. Sia l’edonismo, cioè l’atteg- giamento faustiano di volersi imporre, sia il voler essere amico di tutti, il voler avere rapporti di affettività con tutti, si rivelano però inadeguati, perché il mondo è organizzato male. Il mondo non recepisce la mia volontà di affermazione, di piacere, il faustismo, cioè la tendenza edonistica, ma non recepisce neppure la mia volontà di buoni rapporti, di rapporti fraterni, di rapporti cordiali, affettuosi, di amicizia con gli altri. Allora nasce il rigorismo della virtù, che coincide con il periodo della Rivoluzione francese: si vuole ristrutturare il mondo in modo che sia un mondo più umano. Agli atteggiamenti personali, volere il piacere, volere affermarsi, volere essere fratelli di tutti, volere buoni rapporti umani, che però sono atteggiamenti velleitari, che subiscono uno scacco, si sostituisce, alla fine dell’Età Moderna, il rigorismo della virtù. Evidentemente qui Hegel pensa a Robespierre, alla volontà di organizzare il mondo in modo che accetti la fratellanza, l’uguaglianza, la libertà; accetti i grandi valori che l’uomo ha elaborato nel corso dello sviluppo della ragione, nel corso dell’Illuminismo. A questo punto si passa all’ultima fase, che è quella dello spirito propriamente detto. Questo passaggio è complicato ed è la parte, tra l’altro, più convulsa della Fenomenologia dello spirito, quella che è stata scritta mentre sopraggiungevano le armate napoleoniche, con Hegel divenuto ansioso di chiudere quest’opera che lo aveva tanto impegnato. Possiamo limitarci a brevi cenni perché la dottrina più matura dei momenti dello spirito Hegel la ristruttura completamente, rispetto a questo abbozzo della Fenomenologia, nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche e negli anni successivi; mentre la Fenomenologia rimane la parola decisiva di Hegel fino a questo punto, quando si comincia a parlare di spirito le opere successive sono molto più chiare e molto più mature.
In che cosa lo spirito si differenzia dalla ragione? La ragione è soprattutto la ragione dell’individuo che ha avuto le velleità di afferrare il piacere, di costruire rapporti di amicizia, di imporre un ordine nel mondo, ma sostanzialmente è la ragione del singolo; con lo spirito, invece, si passa a qualche cosa di più profondo. Il singolo si è scontrato con la realtà, il Faust di Goethe è caduto, è caduto il sentimentalismo, che qualcuno vuole vedere ricondotto a Rousseau, è caduto Robespierre. Lo spirito invece è una fase diversa in cui non c’è più la velleità del singolo che vuole, come Don Chisciotte, combattere contro i mulini a vento, cambiare il mondo, introdurre le sue idee nel mondo. Lo spirito non è qualche cosa di passeggero, di destinato ad essere sconfitto, a essere sorpassato: lo spirito dà luogo a creazioni permanenti. Lo spirito è il momento più alto perché è il momento in cui la comprensione dell’uomo si attaglia pienamente alla realtà, quindi dà luogo a costruzioni che rimangono, a quelle che Hegel chiama “seconda natura”. Nello spirito l’uomo è creatore. L’uomo si trova di fronte la natura, ma crea un altro mondo, una seconda natura, che è il mondo del diritto, della famiglia, dello Stato, dell’arte, della religione, della filosofia. Lo spirito non è transeunte, non è destinato ad essere sconfitto; esso si radica nella realtà, perché corrisponde al momento più alto di comprensione dell’uomo, che veramente afferra la realtà con la sua ragione e si riesce a radicare nella realtà, riesce a impiantarvi qualche cosa di duraturo, che Hegel chiamerà nella Filosofia del diritto “seconda natura”, nel senso che è quasi una seconda creazione. Le creazioni mature dello spirito sono i grandi sistemi religiosi. I grandi sistemi religiosi cercano di cogliere l’assoluto e di organizzare popolazioni intere intorno a credenze che rimangono nei secoli, se non nei millenni, ma le religioni sono solo il penultimo stadio dello spirito, perché esse colgono l’assoluto, il divino, l’infinito, in una maniera inadeguata, ancora legata al mito, alla rappresentazione. Lo sviluppo supremo dello spirito, l’ultimo stadio della Fenomenologia, è il sapere assoluto, cioè il momento in cui l’uomo capisce, al di là della religione, che l’infinito, il divino, l’ideale, sono perfettamente razionali, hanno una forma razionale, e quindi devono essere capiti allo stesso livello, cioè nella forma della ragione. La religione rimane un gradino al di sotto, l’arte un gradino ancora più sotto; perché se tutta la real-tà è logica, tutta la realtà è ragione, l’assoluto è ragione, la forma adeguata per cogliere l’assoluto sarà la forma filosofica, la forma del ragionamento scientifico della filosofia. All’assoluto razionale corrisponderà un sapere assoluto altrettanto razionale, e questo è il culmine dello sviluppo dello spirito. A questo punto la Fenomenologia dello spirito si conclude e si apre la logica, cioè il tentativo di studiare la struttura ideale dell’assoluto.
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