Nel cinquantennale della Lettera ad una professoressa, la riflessione di un maestro sull’isteria valutativa e sulla fabbrica di impotenze apprese che, per l’effetto, la scuola, non soltanto Primaria, sta inevitabilmente diventando. Tratto da Internazionale 10 febbraio 2017.
Insegno nella scuola elementare da 38 anni e continuo a domandarmi come sia concepibile affibbiare a un bambino un voto in geografia, italiano o matematica nei primi anni di scuola. A chi stiamo dando quel voto? Al grado di istruzione della sua famiglia? Al grado di ascolto che hanno avuto le sue prime parole a casa? Alle esperienze che ha avuto la fortuna di fare? Al destino che ha fatto giungere proprio qui la sua famiglia da campagne analfabete o dalle periferie di qualche megalopoli africana o asiatica?
Sono convinto che quei voti non abbiano alcuna giustificazione e non contengano alcun valore pedagogico. Eppure un peso ce l’hanno, eccome! È a partire da quei primi voti, attesi da casa con sempre maggiore trepidazione, che la bambina o il bambino comincerà a scivolare e collocarsi, come la pallina di una roulette, dentro alla casella data da una classifica arbitraria di presunti meriti, che aumenteranno o avviliranno grandemente la sua fiducia in se stesso.
I dispettosi ai posti di comando
Ci apprestiamo quest’anno a celebrare i cinquant’anni dellaLettera a una professoressa, scritta nel corso di un lavoro durato mesi da un gruppo di ragazzi contadini delle montagne del Mugello, guidati da don Lorenzo Milani nel suo ultimo anno di vita.
“Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali fra disuguali”, è scritto in quelle pagine. E ancora: “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde. La vostra ‘scuola dell’obbligo’ ne perde per strada 462.000 l’anno. A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi (insegnanti) che li perdete e non tornate a cercarli”.
A cinquant’anni di distanza da quell’accorata denuncia la nostra scuola perde ancora il 15 per cento di ragazzi e, se si considerano separatamente i maschi, la cifra supera il 20 per cento, anche se è leggermente calata negli ultimi anni.
“Una scuola che seleziona distrugge la cultura”, prosegue la Lettera . “Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose. (…) Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi.”
Oltre il 50 per cento di adulti non è in grado di intendere un testo scritto minimamente complesso
Di dispettosi la scuola ne ha conosciuti e ne conosce purtroppo molti, a partire dai posti di comando. Basti ricordare che dieci anni fa, quando Giulio Tremonti faceva il ministro dell’istruzione con la faccia di Mariastella Gelmini, l’Italia fu l’unico paese in Europa a ridurre drasticamente la spesa in istruzione, sottraendo alla scuola di base più di otto miliardi: quasi una finanziaria sulle spalle dei più piccoli.
Lo stesso Tremonti, che aveva esaltato il ritorno all’antico con il fascistoide “Un maestro, un libro, un voto”, dovette ricredersi e affermare in una intervista che, effettivamente, la nostra scuola elementare era di qualità,
“ma non possiamo permettercela”.
A un paese che, al di là di tante promesse non mantenute del governo Renzi, continua a non riuscire a permettersi una scuola degna di questo nome – come spazi, come tempi, come qualità di formazione dei suoi docenti – dovremmo domandare tutti con forza quale futuro stia preparando per i suoi cittadini, dato che oltre il 50 per cento di adulti non è in grado di intendere un testo scritto minimamente complesso.
Epidemia valutativa
Siamo tornati al 2008 perché è allora che fu reintrodotto nella scuola elementare il voto decima
le, impunemente spacciato come presunto ritorno alla serietà. Va detto con onestà che allora quel ritorno fu accolto con grande indifferenza e diffusa soddisfazione dalla maggioranza degli insegnanti.
Se proviamo a entrare dentro al dettaglio del voto scopriamo che, intorno alla proposta cassata del superamento dei voti decimali e della bocciatura alla scuola media, si sono agitati in questi mesi aggressivi fantasmi, che bene esprimono una idea di scuola e di società che, in nome del merito, accoglie come inevitabile la selezione e l’espulsione dei più deprivati.
Socialmente la scuola primaria oggi è un luogo delicatissimo, una sorta di pronto soccorso culturale – e interculturale – tanto necessario quanto fragile. È qui che si prova a costruire a fatica, giorno dopo giorno, una prima risposta al dettato dell’articolo 3 della costituzione, che invita a rimuovere gli ostacoli che trasformano le differenze in discriminazioni.
È nelle sue aule che il 20 per cento di bambini stranieri accede, spesso a fatica, a un uso articolato della lingua italiana ed è qui che molte insegnanti, quasi tutte donne, si cimentano con dedizione e persuasione a realizzare ciò che nessuno sa ancora bene come fare: costruire una relazione viva con la cultura e articolare un uso di strumenti logici capaci di aiutare a intendere la storia e i fatti del mondo, attraverso un insieme di conoscenze elementari da costruire insieme, con gruppi di bambini assai disomogenei. Operare in questo modo è straordinariamente difficile perché comporta la creazione di una piccola comunità solidale, capace di ascolto reciproco. Esattamente il contrario di ciò che accade fuori dai muri della scuola, nelle strade di città in cui cresce sempre più la diffidenza, l’intolleranza, l’arrogante pretesa di difendere i propri piccoli o grandi privilegi particolari.
Diversità è bellezza può essere un bello slogan, ma rischia facilmente di scivolare nella retorica se non ci diciamo quanto la convivenza tra diversi comporti fatica, lavoro, impegno e una grandissima creatività nel sapere affrontare giorno per giorno difficoltà di ogni genere, che non provengono solo dalla presenza di tante e diverse lingue e culture, ma da molteplici difficoltà familiari che si riversano nella scuola. La quantità di sofferenze e insofferenze di ogni genere, portate nella scuola da bambine e bambini, sono infatti in continuo aumento.
Di fronte a questa sfida culturale, di cui troppo pochi si assumono la portata politica, la scuola appare fragile, talvolta si richiude in se stessa e sembra investita da una sorta di epidemia valutativa. Assistiamo al paradosso di ore e ore di corsi dedicati alla valutazione degli apprendimenti e all’attestazione delle competenze, senza un’equivalente impegno a dar vita e sperimentare contesti capaci di costruire le competenze, valorizzando conoscenze ed esperienze diverse che i bambini covano in se stessi.
Un mestiere artigiano
I bambini hanno un grande bisogno di essere ascoltati, ma spesso noi insegnanti sembriamo non avere tempo sufficiente per questo. Hanno bisogno di vivere esperienze concrete e significative che coinvolgano il corpo nella sua interezza, devono poter sperimentare momenti di libera espressione e incontrare i più diversi linguaggi, lontano da giudizi che spesso avviliscono la memoria e la percezione di sé. Hanno certamente anche bisogno di conoscere le difficoltà che incontrano ed essere sollecitati ad accorgersi e a ritornare su una frase che comunica a fatica un pensiero, un’operazione sbagliata, un ragionamento o collegamento privo di coerenza logica.
Ma queste necessarie sottolineature delle difficoltà che ciascuno incontra, si possono fare con un appunto a margine del foglio, una conversazione condivisa e anche con un punteggio specifico, nel caso di prove strutturate.
Il problema è che quando questi dati disomogenei si rapprendono in un voto sul registro elettronico ogni mese o a fine quadrimestre, è pressoché inevitabile che quel numero si incolli al bambino. Così la valutazione, invece di essere un elemento utile a capire qualcosa di più del proprio percorso di apprendimento, si trasforma in un giudizio sul bambino tutto intero, che rischia di restare imprigionato nelle sue incapacità, in una scuola che si trasforma in luogo di impotenze apprese, come le chiama Daniela Lucangeli, che da anni studia con rigore difficoltà e fallimenti nell’apprendimento della matematica.
Se la scuola porta i ragazzi a studiare solo per il voto, perdiamo il senso di capire qualcosa di più del mondo e di noi stessi
Per quattro anni ho avuto la fortuna di avere un dirigente scolastico sensibile e rigoroso che, negli scrutini e consigli di classe di elementari e medie, chiedeva di evidenziare nei ragazzi solo ciò che sapevano fare, pretendendo che tutti noi insegnanti facessimo lo sforzo di imparare a osservare le competenze che ciascun ragazzo aveva o stava sviluppando, arginando le pigre lamentele di chi si ferma a considerare le inevitabili mancanze e perpetua la vieta discussione se sia meglio punire per fargliela vedere o stimolare un cambiamento di atteggiamento con un voto di incoraggiamento.
È il voto stesso che va messo radicalmente in causa perché, se la scuola porta i ragazzi a studiare solo per il voto, perdiamo tutti il senso del ricercare insieme e cercare di capire qualcosa di più del mondo e di noi stessi. Non è possibile, infatti, che noi insegnanti non ci assumiamo la nostra parte di responsabilità di fronte agli oltre due milioni di giovani che nel nostro paese non lavorano e hanno smesso di studiare. Che non trovino lavoro è un problema immenso, ma che non ritengano lo studio un luogo dove potere crescere e abbiano perso ogni fiducia riguardo alla bellezza del conoscere e del costruire l’autonomia del proprio pensare, è un nodo culturale di cui non possiamo non farci carico.
Il nostro è un mestiere artigiano in cui dobbiamo avere la pazienza e il coraggio di mettere a punto gli strumenti del nostro operare ogni volta, perché ogni gruppo di bambini o ragazzi è un organismo complesso, composto da difficoltà e potenzialità sempre nuove, per affrontare le quali non ci sono ricette belle e pronte.
Ora la difficoltà maggiore che incontriamo sta nel sapere osservare con cognizione di causa il contesto in cui agiamo, accorgendoci quanto lo condizioniamo. Nella maggioranza dei casi, infatti, la relazione con il sapere e la motivazione al conoscere e al mettersi in gioco di bambini e ragazzi passa per il corpo di noi insegnanti, passa per i nostri atteggiamenti e comportamenti, spesso inconsapevoli.
Ecco perché la trasformazione della classe in una comunità capace di ascolto reciproco non è altra cosa dall’approfondimento personale delle conoscenze. Non ci sono quelli della scuola seria, che si preoccupano dei contenuti, e quelli della scuola buona che privilegiano le relazioni e lo star bene. Le due cose sono strettamente legate checché ne pensi Paola Mastrocola o il loquace Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità. La domanda intorno a cui lavorano le insegnanti più serie e persuase è questa: quali sono le condizioni perché un bambino arrivi a pensare che, se in classe un suo compagno ha qualche difficoltà e resta indietro, la cosa lo riguarda?
La risposta più affilata ai sostenitori del ritorno alla bocciatura l’ha data Cinzia Mion, una dirigente scolastica del Movimento di cooperazione educativa ormai in pensione.
Chissà perché leggendo il manifesto del Gruppo di Firenze contro l’abolizione dei voti e il divieto di bocciare mi è venuto subito in mente un gioco di Eric Berne dal titolo molto eloquente: Ti ho beccato, figlio di puttana. Chissà perché mi viene in mente che nella teoria dei giochi di Berne, consistenti in transazioni complementari per ottenere un risultato ben prevedibile, il tornaconto personale del gioco dalla denominazione un po’ faceta è la vendetta.
Chissà perché a proposito della ineludibile dose di sadismo, che trapela da tutto ciò, mi viene in mente l’analisi di Kaes quando afferma:
‘La passione che anima le attività di formazione al di là di ogni dottrina e ogni ideologia, è da attribuirsi al fatto che il desiderio di formare è un’emanazione della pulsione di vita: si tratta di creare la vita e di mantenerla. Ma insieme alla pulsione di vita e in lotta con essa sono costantemente all’opera le pulsioni distruttive. Il desiderio di dare la vita si intreccia con il desiderio di distruggere l’essere in formazione che sfugge al formatore, che ferisce il suo narcisismo resistendogli, non piegandosi a diventare l’oggetto ideale desiderato. Questa ambivalenza marca profondamente gli atteggiamenti degli insegnanti proprio in quanto formatori. (…) Chissà perché mi risuonano alle orecchie le lamentele di un’insegnante famosa per il suo rigore, paladina della bella lezione trasmissiva che delusa esclama ‘i ragazzi non ti seguono più’… e non le passa nemmeno per la testa di ‘autointerrogarsi’.
L’invettiva motivata di Cinzia Mion amplifica l’eco di un documento sottoscritto dall’Mce e da diverse associazioni professionali di insegnanti di diverso orientamento. È l’appello Voti a perdere, sottoscritto da oltre duemila insegnanti.
Certo, la trasformazione dei voti in lettere non avrebbe cambiato le cose di per sé, ma avrebbe forse favorito il tornare a ragionare a fondo, con radicalità e urgenza, sulle conseguenze discriminatorie della troppo diffusa valutazione punitiva. I dati ci dicono infatti che un ragazzo bocciato moltiplica di oltre dieci volte la probabilità di andare ad aumentare le percentuali della dispersione scolastica, altissime nelle periferie di molte nostre città.
I ragazzi che oggi smettono di studiare hanno caratteristiche quasi opposte rispetto ai figli dei contadini di montagna di cui si occupò con totale dedizione don Lorenzo Milani. Vivono infatti la loro forzata inattività circondati da gadget e cellulari. Figli di un consumismo forsennato e dissennato, sono aggrediti fin nell’intimo da altre forme di povertà culturali e relazionali, forse ancor più difficili da contrastare. Eppure, 50 anni dopo, anche per loro vale la denuncia dei ragazzi del Mugello:
“La scuola è un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.
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