Domenico Moro, Le ragioni del declino italiano. Andrea Baranes, Una breve storia della crisi che è quasi un educational, chiaro e completo

by gabriella

Tagliare le spese e aumentare le tasse può aumentare il deficit, se manca la crescita. Delocalizzazioni, acquisizioni, joint venture. Gli investimenti delle imprese all’estero sono alla base della riduzione dello sviluppo negli ultimi 10 anni. Con la complicità della politica.  Banche, speculazione finanziaria e sistema euro non sono le cause della crisi.

La questione del debito pubblico è presentata, in Italia e in Europa, essenzialmente come una questione di disciplina di bilancio, da risolvere tagliando le spese e aumentando le imposte. In realtà, la crescita del debito pubblico e la difficoltà a rifinanziarlo è connessa molto di più alla scarsa crescita economica. Debito e deficit pubblici vengono calcolati in percentuale sul Pil. Dunque, una stagnazione o un decremento di quest’ultimo possono peggiorare i due indicatori, indipendentemente dalle spese. Di più: la scarsa crescita è collegata alla riduzione della competitività e al peggioramento del debito commerciale e della bilancia dei conti con l’estero. La minore capacità di pagare le importazioni con le esportazioni è uno dei fattori che rende critica la capacità di finanziare il debito pubblico sui mercati dei capitali.

Se il Giappone – debito pubblico oltre il 200% e deficit/Pil all’8,3% – paga un interesse sui titoli a dieci anni di poco superiore all’1%, non è solo perché ha il pieno controllo della sua valuta, ma anche perché ha il terzo attivo dei conti correnti al mondo, 150 miliardi di dollari, e la migliore posizione patrimoniale con l’estero, tremila miliardi. Al contrario, l’Italia ha una bilancia dei conti correnti negativa per 79 miliardi (3,7% sul Pil), e una posizione debitoria con l’estero di 549 miliardi. Infine, la riduzione della crescita e delle esportazioni viene tipicamente compensata con l’aumento della spesa pubblica, come prova il suo rigonfiamento in Italia a partire dalla prima vera crisi post-bellica nel ’74-’75.Il punto, dunque, è capire perché l’economia italiana, nel decennio precedente alla crisi, è cresciuta meno e quindi l’ha subita maggiormente rispetto a quasi tutti gli altri Paesi avanzati. E capire perché l’attivo della bilancia commerciale è diventato negativo e la posizione netta dell’Italia verso l’estero peggiora sempre di più, sebbene il nostro Paese sia il secondo nella Ue per apparato manifatturiero ed export.

Sulle spiegazioni economiche e politiche sembrano prevalere quelle morali. Luigi Zingales, sul Sole24ore, ha persino inventato un neologismo: la ragione della mancata crescita sarebbe la “peggiocrazia”. Le ricette? Facilitare i licenziamenti, ovviamente per liberarsi dei peggiori, e privatizzare, per ridurre clientele e corruzione. Amenità che fanno purtroppo presa, più delle spiegazioni serie.

Se il sistema industriale italiano è in declino e rischia di perdere pezzi importanti è proprio perché i politici hanno messo in pratica, dagli anni ’90, quello che le grandi imprese chiedevano e chiedono: liberalizzazioni (dal mercato dei capitali fino al mercato del lavoro) e privatizzazioni. Se l’Italia non cresce, infatti, è per la riduzione della base produttiva manifatturiera e il minore incremento della produttività. Due fenomeni che derivano in buona parte dalla distrazione di capitali dalla produzione domestica, cioè dalla contrazione degli investimenti.

Dove sono andati questi capitali? In primo luogo all’estero, come delocalizzazioni, acquisizioni, joint-venture. Lo stock italiano degli Investimenti destinati all’estero (Ide) è aumentato dai 60,2 miliardi di dollari del 1990 ai 578,2 del 2009. Molto più delle esportazioni di merci, passate dal 19,1% al 29,1% del Pil. Gli Ide italiani in uscita tra 2000 e 2009 sono cresciuti più della media Ue (+221% contro +149%), rimanendo molto inferiori rispetto a quelli in entrata (nel 2009 appena 400 miliardi di dollari). Dunque, le uscite di risparmio italiano non sono compensate da entrate di capitali produttivi esteri. Ciò non solo peggiora la bilancia dei conti, ma obbliga a recuperare capitali mediante il debito pubblico, la cui quota detenuta all’estero è aumentata al 51% (contro il 15% del Giappone), esponendo il rifinanziamento alla variabilità dei mercati finanziari internazionali.
Il fenomeno della transnazionalità delle imprese è ben rappresentato dalla Fiat, che negli ultimi dieci anni ha diminuito del 28,2% la produzione in Italia, aumentandola del 16% in Sud America, del 10% in Europa orientale e del 2,8% in Asia. Tuttavia, il fenomeno è sottovalutato, perché le multinazionali giganti in Italia sono poche. Eppure, le multinazionali italiane sono 20.050, poco meno di quelle francesi, con circa 1,5 milioni di addetti e un fatturato di 389 miliardi di euro nel 2009.

Ma anche le privatizzazioni l’Italia è qui seconda in Europa per valore assoluto e quarta sul Pil – distraggono capitale dalla manifattura. Molti imprenditori hanno trovato comodo spostare capitali dalla manifattura ai monopoli pubblici privatizzati, le autostrade e la sanità; settori che non esportano e dove si possono raccogliere alti profitti grazie ai prezzi di monopolio, al riparo dalla concorrenza internazionale. Inoltre, le privatizzazioni sono riuscite ad eliminare o indebolire le poche aziende di dimensioni internazionali che operavano in settori tecnologici di punta, come le telecomunicazioni, penalizzando ulteriormente la base produttiva. Le privatizzazioni che Confindustria rivendica oggi sono quelle delle utility (acqua, elettricità, trasporto), che offrono nuove fonti di rendita monopolistica, piuttosto che quelle dei colossi industriali come Eni, per cui nessun privato vuole rischiare gli ingenti capitali richiesti.

Un terzo fattore di rallentamento della crescita e della competitività è il nanismo delle imprese, ricondotto al “ritardo” del sistema industriale italiano. In realtà, le ridotte dimensioni medie delle imprese italiane sono derivate dall’applicazione particolarmente intensa dell’organizzazione del lavoro toyotista, basato sulla esternalizzazione di pezzi dell’attività produttiva. Proprio l’esternalizzazione massiccia in piccole e piccolissime imprese rende più facile delocalizzare da parte delle grandi imprese che governano le filiere. Il punto è che le esportazioni di capitale all’estero non comportano un’estensione della base produttiva complessiva delle imprese, ma una redislocazione nello spazio, funzionale solo all’aumento dei profitti. Un aumento che non avviene mediante l’incremento dell’investimento di capitale per addetto (più produttività con l’innovazione di processo e di prodotto), ma tramite la diminuzione dei costi.

La ragione delle esportazioni di capitale risiedono dunque, più che nella conquista di nuovi mercati, nel divario salariale tra centro e periferie dell’economia mondiale. Gli Ide permettono sia di ridurre i salari domestici (aumentando la disoccupazione), sia di sfruttare lavoratori meno pagati all’estero. Il costo del lavoro in Brasile è il 42% di quello sostenuto in Italia, in Polonia il 32%, in Romania il 13%. Inoltre, le multinazionali italiane esportano ben il 40% del fatturato delle controllate estere, spesso verso Italia. Non è un caso che la principale voce nelle importazioni italiane non sia il petrolio o il gas, malgrado l’Italia ne sia priva, ma le automobili. Modelli di particolare successo in Italia, come la Panda e la Cinquecento, sono prodotti dalla Fiat all’estero e importati. L’esportazione di capitale e lo spostamento verso la rendita monopolistica non solo peggiora la bilancia commerciale, ma provoca la progressiva riduzione dell’accumulazione di capitale produttivo. Mentre le imprese si arricchiscono grazie agli alti profitti, i lavoratori e l’economia del Paese nel suo complesso regrediscono e si impoveriscono.

Banche, speculazione finanziaria e modalità di funzionamento del sistema euro hanno un ruolo importante nella crisi del debito. Ma non sono queste “le cause” della crisi. Il tentativo di superare la caduta generale del saggio di profitto, ripresentatasi alla metà degli anni ’70, ha impresso un impulso fortissimo alla transnazionalizzazione delle imprese, che ha però prodotto una contraddizione tra capitale e Stato-nazione. La crisi del debito pubblico, il conflitto tra la Ue e i singoli stati, nonché la nomina di governi “tecnici”, come quello di Monti, ne sono oggi la manifestazione matura.

Andrea Baranes, Breve storia della crisi

Questo testo è contenuto in appendice al saggio «Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi» (pubblicato da Sbilanciamoci! e da minimum fax, 2012), un libro importante perché smentisce alcune false certezze sulla crisi economica che stiamo attraversano e fornisce delle misure alternative per fronteggiarla. Questa breve storia della crisi curata da Andrea Baranes ne è un assaggio.


Troppo debito?

Nella prima metà degli anni Novanta il governo Berlusconi annunciava un nuovo miracolo italiano fondato sulla crescita e lo sviluppo, prometteva tagli delle tasse per cittadini e imprese, investimenti pubblici per trasformare il paese. A novembre 2011 il governo si dimette sotto il peso degli interessi da pagare, tra conti pubblici che non quadrano e nubi sempre più minacciose di possibili default. La pressione fiscale aumenta, a partire dall’Iva, assistiamo a tagli generalizzati di tutte le spese pubbliche mentre i soldi per gli investimenti e lo «sviluppo» sono un miraggio sempre più distante. Il nostro paese è uno dei principali problemi dell’Unione Europea.

Cos’è successo allora in questi diciotto anni? Perché nel 1994 l’Italia era sì un paese con un forte debito e diversi problemi, ma, così ci veniva raccontato, con ottime prospettive, mentre ci ritroviamo nel 2011 con l’acqua alla gola e in balia delle tempeste finanziarie? L’argomento che ci viene ripetuto è che l’Italia del 2011 è schiacciata da un rapporto tra debito e prodotto interno lordo che sfiora il 120% e sta strangolando la nostra economia. Bene. Qual era allora la situazione nella prima metà degli anni Novanta? Tra il 1993 e il 1995 il rapporto tra debito e Pil in Italia superava il 120%.

Occorre quindi analizzare meglio le cause politiche, sociali, industriali ed economiche che contribuiscono all’attuale rapido declino del nostro paese.

Le motivazioni reali

Ancora all’inizio del 2011 il nostro governo si vantava del fatto che la crisi del 2007-2008 avesse risparmiato l’Italia e della solidità dei conti pubblici, delle banche e del sistema produttivo.

La crisi al contrario c’era, ed era in primo luogo legata al dogma economico della continua crescita dei consumi e del Pil. Se diminuiscono produzioni e consumi, oltre alle ripercussioni sul mondo del lavoro e su quello imprenditoriale, diminuisce il Pil. Al diminuire del denominatore aumenta il rapporto debito/Pil, e quindi i conti pubblici peggiorano.

Non solo. Riprendiamo in esame questo rapporto che riveste oggi un ruolo così fondamentale. Al numeratore troviamo il debito pubblico, che, con qualche approssimazione, è costituito dalla massa di titoli di stato (Bot, Cct, Btp e altri) in circolazione in Italia, a cui si sommano i debiti delle amministrazioni locali e altre voci. Su questo debito l’Italia paga un interesse. Se il governo emette un Bot al 2%, su 100 euro di titolo ne dovrà pagare 2 di interessi. È allora chiaro che tanto più alti sono gli interessi da pagare tanto più le risorse del pubblico dovranno andare a rimborsare gli interessi sul debito, e non potranno essere utilizzate per altri scopi, dall’istruzione alla ricerca al welfare.

Semplificando il discorso, le risorse a disposizione dello stato sono principalmente le tasse pagate da cittadini e imprese. Se lo stato ogni anno ha delle entrate che crescono più rapidamente degli interessi sul debito, quest’ultimo è in qualche modo sostenibile. Una parte delle risorse aggiuntive saranno destinate a ripagare il debito e i suoi interessi, il resto potrà andare a politiche pubbliche. Al contrario, se il Pil non cresce e non vengono messe nuove tasse, non aumenta nemmeno il gettito fiscale. In queste condizioni gli interessi sul debito crescono e continua ad aumentare il debito, peggiorando ulteriormente il problema. Questo anche senza considerare che, essendo una parte rilevante del debito italiano in mani straniere (principalmente banche e fondi di investimento), la mole crescente di interessi comporta un progressivo impoverimento dell’Italia nel suo insieme.

All’inizio degli anni Novanta l’economia italiana, il Pil, cresceva, mentre gli interessi da pagare sul debito pubblico erano relativamente bassi. Nel 2011 ci troviamo nella situazione opposta.

Questa spiegazione contabile non è però che una delle motivazioni. A questo problema se ne lega un altro, ancora più pesante e che discende direttamente dalla crisi finanziaria: gli interessi aumentano a un ritmo incontrollabile. L’Italia deve oggi emettere titoli di stato con rendimenti sempre maggiori, il che peggiora ulteriormente i conti pubblici. Sono due le motivazioni che spiegano questo veloce aumento degli interessi sul debito: da una parte il costo dei piani di salvataggio della finanza messi in campo dai governi dopo la bolla dei mutui subprime esplosa nel 2007, dall’altra la dimensione di una finanza speculativa in grado di scommettere contro interi paesi.


La crisi del 2011

L’attuale crisi discende direttamente da quella che nel 2007-2008 ha travolto la finanza internazionale dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime negli Stati Uniti. Solo i giganteschi piani di salvataggio realizzati dai governi e dalle istituzioni pubbliche hanno permesso di salvare il sistema finanziario dalla crisi di cui esso stesso era in massima parte responsabile. Stime prudenziali parlano di almeno 14.000 miliardi di dollari versati dal pubblico al settore finanziario privato. Da una prospettiva speculare, negli ultimi anni un debito enorme è stato quindi trasferito dalla finanza privata al pubblico.


Il travaso di ricchezza dal lavoro alla finanza

Come è nato questo gigantesco debito? Per capirlo bisogna risalire alle radici dell’attuale crisi finanziaria. Da oltre un trentennio il sistema produttivo occidentale è entrato in una fase di sovrapproduzione. Questa, assieme alla possibilità delle imprese di delocalizzare la produzione verso i paesi dove sono minori i costi del lavoro, ha portato a una compressione dei salari.

Questo processo ha comportato un gigantesco spostamento della ricchezza dai salari e dal lavoro verso le rendite e i profitti finanziari. In Italia, nell’ultimo ventennio dello scorso secolo 120 miliardi di euro sono passati dai lavoratori ai profitti. In altre parole, i lavoratori e i cittadini si sono trovati progressivamente più poveri, mentre le imprese immettevano sul mercato sempre più prodotti.

Come risolvere questo paradosso? Come vendere sempre più automobili, più telefonini e più prodotti a persone sempre più povere? La soluzione è in apparenza molto semplice: favorendo l’indebitamento delle famiglie, delle imprese e degli stati per mantenere artificialmente alti i consumi, per drogare la crescita economica. È questa la spiegazione ultima della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti. Il settore immobiliare rappresenta una parte sostanziale della ricchezza e del Pil statunitense. Occorre allora costruire e vendere sempre più case per fare aumentare il Pil, che in accordo con il dogma economico fondato sulla crescita deve aumentare continuamente. Le leggi che hanno aperto la porta ai mutui subprime davano la possibilità alle banche di erogare dei mutui anche ai clienti senza reddito, senza lavoro e senza garanzie economiche. Strumenti finanziari sempre più rischiosi e incomprensibili permettevano alle stesse banche di scaricare questi debiti sui mercati finanziari, tramite un processo noto come cartolarizzazione dei mutui (e di qualunque altro prestito).

In pratica una montagna di debiti è servita a drogare i consumi per mostrare una ricchezza economica e una crescita inesistenti, perché nella realtà le persone erano sempre più impoverite dal progressivo trasferimento delle ricchezze verso il mondo finanziario.

Per riassumere, la finanza è stata il mezzo per mantenere alta la domanda di consumi, e nello stesso momento è stata un fine, garantendo tassi di profitti sempre più elevati ai grandi capitali. Le due cose sono strettamente legate: di fatto il 5% più ricco della popolazione diventa sempre più ricco e utilizza il surplus di reddito che non viene consumato per erogare prestiti al 95% della popolazione.

Detta in maniera ancora più semplice, la finanza prestava ai cittadini, con i dovuti interessi, i soldi che le aveva sottratto.

E quando i soldi sottratti sono diventati troppi, quando i redditi si sono polarizzati eccessivamente verso i più ricchi, il giocattolo si è rotto e la montagna di debiti è franata. Negli Stati Uniti, negli anni Settanta, l’1% più ricco della popolazione deteneva il 9% dei redditi, mentre nel 2007 la quota era salita al 23,5%, esattamente la stessa percentuale del 1928, alla vigilia della Grande Depressione. La ricchezza del 5% più ricco della popolazione è passata dal 22% del 1983 al 34% del 2007 così come è passata dal 24% del 1920 al 34% del 1928. Sembra proprio che oltre una certa soglia di disuguaglianza la società vada incontro a una crisi sistemica e a una vera e propria disgregazione per eccessiva concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi.


Cos’è la finanza oggi?

Questo trasferimento di risorse dall’economia reale alla finanza è necessario anche per garantire i profitti in doppia cifra inseguiti dagli speculatori. Se il Pil del mondo cresce del 2% l’anno e la finanza deve garantire profitti cinque o dieci volte superiori, abbiamo però un problema. Nel lungo periodo, o il sistema finanziario vampirizza l’economia reale, continuando a prosciugare risorse, o la finanza crea ricchezza fittizia, gonfiando bolle che prima o poi scoppiano provocando crisi e miseria.

In altre parole, un Moloch finanziario intrinsecamente instabile ha continuamente necessità di nuovi mercati e nuovi capitali per riuscire a sostenersi. Questa continua ricerca di nuovi mercati è un motore fondamentale nel continuo attacco ai beni comuni e ai diritti, nella privatizzazione e successiva finanziarizzazione dei servizi essenziali. Tutti devono bere e mangiare, tutti hanno diritto all’istruzione e tutti prima o poi devono curarsi. Trasformare l’acqua, il cibo, l’istruzione e la sanità in merci significa garantire profitti enormi e duraturi alle imprese e aprire nuovi spazi di conquista alla finanza, ovviamente al prezzo di escludere da questi «mercati» chi non può permettersi la scuola o la sanità private.

Un discorso analogo, oltre che per i nuovi mercati, si può fare per i continui apporti di capitali necessari alla finanza per mantenersi. E il serbatoio siamo noi e i nostri risparmi. Come in una gigantesca catena di Sant’Antonio i nostri conti correnti, fondi di investimento e fondi pensione alimentano il trasferimento di risorse dal lavoro alla finanza. La gran parte dei capitali che girano sui mercati finanziari proviene in ultima istanza da lavoratori e piccoli risparmiatori. Come dire che, oltre che vittime di questa crisi finanziaria, ne siamo anche complici.

In questo quadro si inserisce perfettamente la nascita dei fondi pensione privati. Da una parte si trasforma un diritto assicurato dallo stato, quello alla previdenza, in una merce, chiamando ogni lavoratore a provvedere da sé, se può, alla propria pensione. Dall’altra i risparmi dei lavoratori vengono stornati ai mercati finanziari, e sono i soldi che alimentano il processo di finanziarizzazione dell’economia.


Dopo la crisi del 2007-2008

Riassumendo. La finanza negli ultimi trent’anni ha sottratto risorse all’economia reale, al sistema produttivo, alle famiglie e ai lavoratori. Questi ultimi sono stati spinti a indebitarsi sempre di più, mentre le grandi imprese imboccavano la strada di una sempre più spinta finanziarizzazione per supplire alla diminuzione dei tassi di profitto delle loro attività economiche. Un processo che ha ulteriormente aggravato e accelerato il travaso di risorse e di potere dall’economia reale alla finanza.

Il risultato è stato un enorme aumento dei debiti, a tutto vantaggio del mondo finanziario che vedeva crescere volume d’affari e profitti. Quando questo debito è diventato eccessivo il giocattolo si è rotto.

A questo punto, siamo nel 2008, gli stati sono intervenuti con somme gigantesche per salvare il sistema finanziario che aveva prima sottratto risorse ai cittadini e poi provocato la crisi.

Considerando che i soldi pubblici provengono dalle tasse e dal lavoro dei cittadini, la situazione è perlomeno paradossale, e non unicamente dal punto di vista della giustizia sociale. Questo sistema finanziario si è sviluppato sulla spinta neoliberista, che postula un sempre minore intervento dello stato nell’economia e la capacità dei mercati di autoregolarsi. In altri termini, nessuna regola e nessun vincolo. Salvo poi ricorrere al paracadute pubblico quando le cose vanno male. Privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite. Una vera e propria truffa ideologica, perpetrata per decenni. Se socialmente appare inaccettabile, la ricetta poteva almeno avere una giustificazione, secondo la logica economica e finanziaria dominante, se fosse servita a fare ripartire l’economia.

Al contrario, le enormi risorse versate dal pubblico al sistema finanziario non sono nemmeno servite a rimettere in moto l’economia, perché sono andate in massima parte a tappare le falle del sistema bancario ombra, o shadow banking system, il gigantesco mondo parallelo fatto di società registrate nei paradisi fiscali, di cartolarizzazioni, di titoli tanto rischiosi quanto incomprensibili, che le banche hanno messo in piedi negli ultimi decenni per eludere le normative e i controlli.

Prima dello scoppio della crisi il sistema ombra aveva raggiunto i 20.000 miliardi di dollari di attività di intermediazione, quasi il doppio degli 11.000 miliardi del sistema ufficiale. A metà 2010 le cifre sono rispettivamente di 16.000 e 13.000 miliardi. Se c’è stato quindi un sensibile spostamento delle attività, ancora oggi il sistema bancario ombra è di fatto il cuore dell’intera circolazione dei capitali nella finanza mondiale.

Questo significa che gli stati hanno firmato un assegno in bianco alla finanza senza chiedere nulla in cambio e senza fare ripartire l’economia reale. Da tre anni si discute di proposte di regolamentazione della finanza, ma poco o nulla è stato fatto nel concreto. A fine 2011 il G20, che si è autonominato nuovo regolatore dell’economia globale, non è nemmeno riuscito a trovare un accordo per tassare le transazioni finanziarie. La finanza speculativa tira una boccata d’ossigeno e riparte come e peggio di prima. Oggi si specula sul cibo e sulle materie prime, giocando sulla fame dei più poveri come si gioca al casinò. Il mercato dei derivati non è mai stato così florido, i top manager della City e di Wall Street si gratificano con bonus miliardari, i grandi capitali rimangono al sicuro nei paradisi fiscali. Tutto questo ringraziando il Fondo monetario internazionale, il G20 e le altre istituzioni internazionali che hanno funzionato perfettamente nel 2008 per salvare le banche e non hanno fatto nulla da allora per fermare la finanza-casinò e salvare le persone.

Le conseguenze sui paesi

L’effetto più vistoso di questi piani di salvataggio è stato l’aumento del debito e quindi il peggioramento dei conti pubblici di molti paesi, che hanno dovuto allora ricorrere all’emissione di titoli di stato per finanziarsi. Un aumento di offerta di titoli di stato sul mercato, proprio in un momento di crisi, quindi con meno capitali disponibili da investire. Questo ci rimanda al primo dei motivi direttamente legati alla crisi che permettono di spiegare l’attuale situazione in Italia. In pratica oggi il governo, se vuole rifinanziare il debito emettendo Bot e Cct, deve fronteggiare la concorrenza della mole di titoli di stato di altre nazioni che si sono indebitate negli ultimissimi anni. A parità di interesse offerto, nessuno comprerebbe però dei titoli italiani quando sul mercato sono a disposizione quelli della Germania o di altri paesi considerati più sicuri. Per attirare i capitali e rifinanziare il proprio debito, l’Italia è allora costretta ad aumentare i tassi di interesse. È il famigerato spread con i bund tedeschi, ovvero la differenza di tasso di interesse tra i titoli di stato dei due paesi che negli ultimi mesi è diventato il nuovo parametro centrale per valutare lo stato di salute dell’Italia.

CDS e speculazione

E questo non è ancora nulla. Gli speculatori cavalcano le oscillazioni dei mercati. È difficile speculare sui titoli di stato tedeschi, perché il loro rendimento è pressoché invariabile. Molto più «divertente» scommettere su titoli molto volatili, quali quelli di nazioni in difficoltà come la Grecia, l’Irlanda o oggi l’Italia. Gigantesche scommesse che esasperano le oscillazioni dei prezzi e la stessa instabilità, attraendo nuovi squali del mondo finanziario.

Tutto questo può realizzarsi grazie a prodotti derivati chiamati credit default swaps, o CDS. Si tratta di contratti che permettono di assicurarsi contro il fallimento di un soggetto terzo. Se possiedo delle obbligazioni e temo che l’impresa emittente possa fallire, posso coprirmi contro tale rischio acquistando un CDS che mi assicura contro tale evento. In caso di default la controparte che me lo ha venduto è tenuta a rimborsarmi.

Rispetto a un’assicurazione esiste una differenza sostanziale. Nell’economia reale non posso acquistare una polizza che mi rimborsa nel caso che la casa del mio vicino vada a fuoco e più in generale assicurare beni che non sono nella mia disponibilità. Il motivo è evidente: se qualcuno appiccasse un incendio, io avrei solo da guadagnarci. Anche se non ci fosse la malafede, nel migliore dei casi questa sarebbe una scommessa da gioco d’azzardo, non una polizza assicurativa.

Nella finanza tale limite non esiste. I CDS permettono di trasferire a terzi il rischio di credito relativo a una transazione tra due parti e soprattutto di speculare su eventi futuri. Così, posso acquistare dei CDS che mi assicurano contro il fallimento della Grecia. Se la situazione del paese ellenico peggiora, aumenta il rischio di fallimento, e di conseguenza il prezzo per assicurarsi contro questo fallimento. I CDS che avevo comprato a un prezzo più basso valgono adesso di più, permettendomi di guadagnare dalle difficoltà altrui. Il gioco è ancora più interessante considerando che, tramite opportune manovre finanziarie sui titoli, consigli dati ai miei clienti e qualche articolo ben piazzato qui e là su autorevoli giornali finanziari, posso contribuire io stesso ad aumentare la percezione di rischio di un dato paese.

I CDS erano praticamente sconosciuti solo una quindicina di anni fa, e hanno raggiunto subito prima della crisi una dimensione pari al Pil dell’intero pianeta, misurabile in diverse decine di miliardi di euro. Fornire una cifra esatta è quasi impossibile, visto che oggi metà dei CDS vengono negoziati al telefono e che non esiste nessuna trasparenza in materia. Queste gigantesche masse di capitali speculativi stanno oggi contribuendo in maniera sostanziale alla grave situazione che affligge l’economia europea e quella italiana in particolare.

Quali soluzioni? Pareggio di bilancio e democrazia

In una nota favola risalente all’antica Grecia uno scorpione chiede di salire sulla schiena di una rana per attraversare un fiume. Di fronte ai timori della rana di essere punta e uccisa, lo scorpione spiega che in quel modo morirebbe annegato anche lui. La rana si fa convincere. A metà del fiume lo scorpione punge la rana. Entrambi stanno per morire, e la rana chiede allo scorpione il perché di questo folle gesto. È la mia natura, risponde lui.

Oggi la finanza-casinò approfitta del fatto che gli stati sono in difficoltà perché hanno salvato questo stesso sistema finanziario per guadagnare mediante attacchi speculativi, scommettendo sul fallimento di interi paesi, e rischiando di trascinare nel baratro i cittadini, gli stati, il sistema economico e quello finanziario.

È su queste basi che oggi ci vengono chiesti sacrifici e piani di austerità. È emblematica in tale senso la lettera riservata, poi divenuta di pubblico dominio, che lo scorso 5 agosto la Banca centrale europea ha inviato al governo italiano. La Bce chiede «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali […] attraverso privatizzazioni su larga scala». Chiede di «ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende». Negli ultimi paragrafi la Bce arriva a scrivere che «vista la gravità dell’attuale situazione sui mercati finanziari […] sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale».

Non è chiaro se questa lettera sia più spaventosa nel merito o nel metodo. Nel merito, meno di due mesi dopo lo storico referendum in cui ventisette milioni di italiani hanno preso posizione sul problema dei servizi pubblici la Bce chiede privatizzazioni su larga scala. Chiede ai lavoratori già colpiti da una crisi dovuta al comportamento irresponsabile della finanza nuovi sacrifici per ristabilire la fiducia dei mercati. Ristabilire la fiducia. Come se non fosse il gigantesco casinò che ha preso il posto della finanza a dovere radicalmente cambiare rotta per tentare di riconquistare la fiducia dei cittadini. Come se non fosse la finanza ad avere totalmente smarrito il proprio ruolo sociale di strumento al servizio dell’economia per trasformarsi in un fine in sé stesso per fare soldi dai soldi. Ancora peggio, come se queste richieste non andassero esattamente nella direzione di esasperare l’ingiustizia sociale e la vergognosa distribuzione del reddito che sono in ultima analisi le cause che ci hanno condotto all’eccesso di debito e alla crisi. Lanciati come treni verso il baratro, la Bce ci chiede di accelerare.

Per quanto gravi siano queste richieste, il metodo è probabilmente ancora più terrificante del merito della lettera. Un’istituzione che nessun cittadino europeo vota o elegge democraticamente, che non risponde a nessuna autorità, invia una lettera segreta al nostro governo per definire le politiche che questo dovrà approvare. La Bce arriva a chiedere di modificare la nostra Costituzione, il contratto sociale fondamentale degli italiani, per rassicurare i mercati finanziari.

Oggi sembra quindi che la strada per uscire da questa situazione sia obbligata: stringere la cinghia e accettare piani di austerità per rimettere in sesto i conti pubblici. Come dire che l’eccesso di debito passato dalla finanza agli stati deve ora passare dagli stati ai cittadini. Ci viene detto che le banche non possono fallire, gli stati non possono fallire, quindi piuttosto devono fallire i cittadini. È il senso dei tagli alle spese pubbliche, al welfare, ai servizi essenziali e ai diritti.

Tutto questo con un’altra conseguenza molto interessante per mantenere in piedi il sistema attuale: la mancanza di risorse pubbliche diventa un alibi per un’ulteriore svendita ai privati dei servizi essenziali. Non ci sono i soldi per l’istruzione, la sanità, la ricerca, le pensioni e via discorrendo, perché c’è la crisi. Lo stato si fa da parte per mancanza di soldi, entrano i privati e la finanza. Ancora una volta ci viene spacciata come unica soluzione possibile l’esasperazione di alcune delle principali cause della crisi.

Diverse scelte di politica economica

Non è vero che le alternative non ci sono. Ammesso e non concesso che il debito vada pagato, l’unica strada possibile è il taglio delle spese, in accordo con la dottrina neoliberista imposta dalla Bce e dalle altre istituzioni internazionali? E ammesso e non concesso che si debbano tagliare le spese, davvero bisogna tagliare welfare e spese sociali? La manovra finanziaria riguarda l’uso delle nostre tasse, dei nostri soldi, per decidere il nostro futuro. Non è pensabile, in un sistema che si vuole democratico, che alcuni burocrati di Francoforte ci impongano misure pensate unicamente per compiacere la speculazione internazionale. Rimanendo alle poche scelte del nostro governo, non è pensabile che i cittadini non possano dire la loro rispetto alla decisione di spendere quindici miliardi di euro per acquistare dei cacciabombardieri, una cifra forse superiore per bucare la Val Susa contro il volere di un’intera comunità, mentre assistiamo a tagli all’istruzione, alla sanità, alla ricerca, alla cultura.

Risalendo: e se per migliorare i conti pubblici invece di tagliare le spese aumentassimo le entrate? L’evasione fiscale in Italia supera i 150 miliardi di euro l’anno. È però difficile parlare di lotta all’evasione mentre il governo annuncia condoni fiscali. Al di là dell’evasione, perché l’Italia non segue i paesi e le istituzioni europee che chiedono l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie per contrastare la speculazione e generare un gettito? Perché ancora oggi è così difficile parlare dell’introduzione di una tassa patrimoniale, mentre si decide di aumentare l’Iva? Sommando all’evasione fiscale il lavoro nero, i soldi della corruzione, quelli delle mafie, si scopre che oltre 500 miliardi di euro ogni anno sfuggono al fisco. In linea teorica, se queste somme fossero tassate come si tassa il lavoro, nel giro di poco più di un decennio l’Italia non avrebbe più nessun debito pubblico.

Il debito va comunque pagato?

Andando ancora a monte di un discorso su entrate e uscite: il debito va pagato ad ogni costo? Prima di fare fallire gli esseri umani forse dovrebbero fallire le persone giuridiche e in particolare le banche il cui capitale è costituito di azioni, ovvero capitale di rischio. Se le banche non possono fallire questo rischio viene meno, falsando i meccanismi di base della stessa finanza: le banche possono assumersi rischi sempre maggiori, nella certezza che se le cose vanno bene aumentano i profitti privati, quando si mettono male interviene il pubblico per socializzare le perdite. È possibile pensare una via d’uscita dalla peggiore crisi finanziaria degli ultimi decenni continuando a premiare e garantire il sistema finanziario che ne è responsabile?

E in seconda battuta devono potere fare default gli stati. Nella situazione in cui si trova l’Italia, con gli interessi sul debito che crescono più velocemente della ricchezza reale e prosciugano qualsiasi manovra finanziaria, un default guidato potrebbe essere una via d’uscita obbligata. È in ogni caso urgente avviare un dibattito senza preconcetti, prima che la situazione economica peggiori ulteriormente. Come primo passo è necessario un «audit» del debito, ovvero un esame della provenienza del debito pubblico italiano e di chi ne è oggi in possesso, per valutare quale parte va pagata, quale ristrutturata, quale eventualmente dichiarare in insolvenza.

I casi di Islanda, Argentina ed Ecuador dimostrano che un default pilotato può essere una soluzione efficace per uscire da una situazione di grave crisi. Le conseguenze sarebbero pesanti, in particolare per le banche che detengono una parte rilevante del debito, e bisognerebbe probabilmente procedere a una nazionalizzazione di una parte del sistema bancario italiano, anche per garantire l’accesso al credito ai cittadini e alle imprese. In ogni caso un default guidato dal debitore, come nel caso dell’Islanda, è sicuramente da preferire a un default guidato dai creditori, come nel caso della Grecia.

Default e fallimento: decolonizzare l’immaginario

In ultimo, una considerazione più generale, che rimanda anche alla necessità di ripensare il linguaggio della finanza. Uno stato è in fallimento nel momento in cui, per tutelare i propri cittadini e il loro futuro, smette di pagare interessi agli speculatori internazionali? O al contrario uno stato che taglia le spese per la scuola pubblica e la ricerca, uno stato che chiude ospedali e teatri, uno stato che non riesce a dare lavoro ai giovani e mantiene privilegi inaccettabili è già uno stato in fallimento? E se uno stato è già in fallimento, che senso ha continuare a pagare il debito?

Un discorso analogo potrebbe ripetersi per un altro termine che ci sentiamo ripetere continuamente, ovvero il rischio di default di interi paesi. Se questo rischio è effettivamente reale e avrebbe conseguenze molto pesanti per i cittadini, cosa succederebbe in caso di default dell’intero pianeta, e non in ambito meramente finanziario? In qualche modo questa situazione è reale. L’intero pianeta è in default dal 27 settembre del 2011. Il 27 settembre è stato l’overshoot day, ovvero il giorno in cui l’umanità ha consumato tutte le risorse che la natura mette a disposizione in un intero anno in maniera sostenibile. In meno di nove mesi abbiamo mangiato tutti i pesci, abbattuto tutti gli alberi, inquinato e prodotto rifiuti per quanto la pur enorme capacità di vita e di rigenerazione della Terra è in grado di sopportare in un intero anno. Rimanendo con una metafora in ambito finanziario, abbiamo consumato in nove mesi tutti gli interessi che la Terra produce, gli ultimi tre mesi li viviamo intaccando il capitale. E mentre noi consumiamo sempre di più, il capitale di specie viventi e di biodiversità continua a ridursi. Mentre la politica e i media continuano a preoccuparsi di compiacere e salvare i mercati finanziari, quanta attenzione e quante risorse sono dedicate a salvaguardare l’unico pianeta che abbiamo?

I cittadini italiani sono chiamati a fare sentire la propria voce per cambiare questo stato di cose, per uscire dalla visione miope secondo cui «non c’è alternativa». Le alternative ci sono, e non ci sono difficoltà tecniche quanto una mancanza di coraggio e di volontà politica a realizzarle. È allora dal basso che dobbiamo iniziare a riappropriarci di ciò che è nostro. Come accennato, la gran parte dei soldi che alimenta la speculazione finanziaria proviene dai nostri risparmi, dai nostri fondi di investimento e fondi pensione.

È necessario ma non più sufficiente orientare i nostri consumi su prodotti meno inquinanti o prodotti secondo criteri di responsabilità sociale. Un analogo cambiamento di rotta deve avvenire nel settore finanziario e creditizio, e dobbiamo essere noi tutti a farlo, dal basso, cambiando i nostri comportamenti.

È necessario riportare la finanza alla sua funzione originaria. Non un fine in se stesso per produrre denaro dal denaro nel più breve tempo possibile ma un mezzo al servizio della società, che ponga il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente al centro del proprio operato, attenta alle conseguenze non economiche delle proprie azioni e in cui la trasparenza sia un valore fondamentale. Se non vogliamo più essere complici della crisi della quale siamo vittime mentre gli squali della speculazione vogliono continuare a giocare alla finanza-casinò, se non vogliamo più che i nostri risparmi siano utilizzati per prestiti e finanziamenti che danneggiano l’ambiente e violano i diritti umani, abbiamo un’alternativa semplice quanto efficace: non con i miei soldi.

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