Gabriele Miniagio, Adversus pedagogistas

by gabriella

Purtroppo gergale (detto tra filosofi: ogni tanto leggiamo anche il giornale) ma bello, l’articolo di Miniagio esamina la struttura del dispositivo disciplinare noto come “scuola delle competenze”. I meno pazienti saltino pure il primo paragrafo per godersi, dal secondo, una storia della scuola italiana veramente sapiente.

Qualcosa di profondo è accaduto nella scuola italiana. A partire dalla riforma Berlinguer, attraverso una serie di politiche protrattesi per un quindicennio, essa è mutata non solo nella sua veste esteriore, ma anche e soprattutto nel suo principio ispiratore, dunque nel suo rapporto con la società e la cultura. L’ideale della paideia, prima gentiliano e crociano, poi marxista, ha ceduto lentamente ma inesorabilmente il passo ad un pedagogismo scientista, che chiama in causa come proprio referente una mente naturalizzata, totalmente spossessata di un senso dell’agire che non sia l’operare macchinico: il compito del percorso didattico diviene quello di implementare in essa competenze e abilità operative per risolvere problemi dati, al di là di ogni definizione della realtà umana in termini esistenziali o storico-politici1.
Ci sforzeremo di mostrare come questa pedagogia tecnico-operazionale abbia origine nella concezione di una soggettività naturalizzata, teorizzata dagli indirizzi più radicali della filosofia della mente, e come entrambe chiamino in causa un processo di produzione di vita soggettiva che, nella società di massa tardo capitalistica, le sottrae il senso di sé e del mondo; il prodotto di tale processo è qualcosa che potremmo chiamare indifferentemente un quasi bios o un quasi soggetto.

Emergerà infatti, nell’ultima parte di questo lavoro, che il dispositivo “pedagogia delle competenze – naturalizzazione del soggetto” non è affatto neutrale: il carattere tecnico-operazionale, l’ossessione quantitativa della docimologia, l’esigenza di un portfolio di competenze certificato, la ricerca di una valutazione oggettiva dei risultati dell’apprendimento sono elementi a cui le forme di reclutamento e le procedure dei nuovi lavori cognitivi danno l’origine e il fine, l’alpha e l’omega. Ma la relazione non finisce qui, perché quel dispositivo non solo addomestica e disciplina di fatto all’assetto produttivo del capitalismo cognitivo, ma anche e soprattutto perché esso delinea la soggettività macchinica e priva di mondo come un modello complessivo, rispetto a cui il referente dell’azione educativa è disciplinato fin dall’inizio a rispecchiarsi e adeguarsi.

In altri termini il dispositivo “pedagogia delle competenze – soggettività naturalizzata” addomestica non solo ad una serie di pratiche, ma anche ad un senso globale, rilanciando e potenziando i processi di soggettivazione che occorrono nella società tardo capitalistica, con l’intento di produrre macchine da problem solving per cui non è mai in gioco l’esistenza, l’agire e l’orizzonte del possibile.

L’analisi che condurremo esplorerà perciò i nessi sussistenti fra questi tre elementi: pedagogismo delle competenze, naturalizzazione della soggettività, processi di soggettivazione tardocapitalistici.

A questo punto si potrebbe chiedere: perché centrare l’attenzione sull’Italia? La risposta è semplice: perché in Italia la società di massa e i processi di produzione soggettiva che essa realizza non incontrano quell’anticorpo che negli altri paesi europei è ancora in opera e che consiste in una modernizzazione politica e civile, la quale ha accompagnato, quando non preceduto, la modernizzazione in senso economico-produttivo. L’impressione è però che l’efficacia di questo anticorpo sia fragile un po’ ovunque e che l’Italia sia solo l’avanguardia di un processo di degrado della democrazia, della società e della cultura che riguarda tutti i paesi a capitalismo avanzato.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di dipanare gli elementi in gioco, che sono tanti e tutti intrecciati fra loro. Dobbiamo porci una serie di domande.

1) Che cosa è successo nella scuola italiana?
2) Che rapporto c’è fra quanto è accaduto nella scuola e il caso Italia in quanto tale?
3) In che senso i cambiamenti intervenuti hanno origine da quella soggettività naturalizzata, teorizzata da alcune correnti della filosofia della mente?
4) Perché la pedagogia delle competenze e la naturalizzazione della soggettività rientrano in un più generale processo di produzione di vita soggettiva povera, che riguarda la società tardo capitalistica nel suo complesso?

Esamineremo le questioni una per una.

1) Che cosa è successo nella scuola italiana?

Inavvertita dai più, nel silenzio di intellettuali e professori universitari2, col plauso di quasi tutti i sindacati, il primo centrosinistra disegna una riforma della scuola per certi aspetti epocale. Al di là di tutta una serie di fattori organizzativi (il POF, l’autonomia, etc.), occorre mettere a fuoco due elementi: il modo in cui si è proceduto alla legiferazione e i suoi contenuti.

Cominciamo dal primo. La riforma non è stata preceduta da un dibattito aperto, da uno scontro fra idee e concezioni del mondo contrapposte e chiamate ad accordarsi su una serie di principi comuni, come un ingenuo democratico si aspetterebbe, vista l’importanza della scuola per la società e la formazione della cittadinanza, ma dai lavori di una Commissione di “saggi” (gennaio-aprile 1997), chiamati a elaborare contenuti e quadri d’insieme che il legislatore successivamente avrebbe fatto propri, con una sostanziale ratifica; questi “saggi” hanno operato senza mettere in discussione le categorie e i fondamenti epistemologici di una “scienza” pedagogica costruita tutta sulla naturalizzazione del mentale3.

Siamo quindi di fronte ad un modello in cui un sapere già supposto come vero, al di là di ogni riferimento ad una meta-conoscenza critica di livello ulteriore che ne valuti le pretese e le condizioni di possibilità, diviene principio di produzione legislativa; ma non solo: esso è anche la regola che riserva l’inclusione nello spazio del politico ai soli tecnici competenti, con un effetto di gerarchia evidente; da una parte ci sono gli esperti in quella disciplina, coloro che hanno il compito di indirizzare la legislazione, dall’altra coloro che, non essendolo, sono di fatto esclusi dalla deliberazione, con un meccanismo che potremmo definire una sorta di platonismo tecnocratico.

Vediamo meglio questo rapporto fra sapere, verità e deliberazione. Un sapere tecnico-scientifico, qui come altrove, si rappresenta come sistema in grado di produrre enunciati veri: proprio in virtù del fatto che la verità è già presupposta, viene meno la possibilità di un discorso critico, o nel senso di un’analisi storico-archeologica o nel senso di una fondazione trascendentale, in cui la verità del sapere sia la posta in gioco, la variabile x non preventivamente saturata da alcun valore. Ora, la mancanza di un luogo epistemologico critico, com’è evidente, non ha solo un significato teorico, perché con esso si perde anche il carattere aperto di uno spazio di deliberazione politica da cui nessuno dei molti sia preventivamente escluso solo per il fatto di abbracciare questa o quella pratica discorsiva: solo i “tecnici competenti” accedono allo spazio pubblico. Non diversamente vanno le cose nelle decisioni macroeconomiche degli stati, dove il pensiero che oltre all’economia politica vi sia anche la critica dell’economia politica si è ormai definitivamente eclissato e il luogo della decisione non sono più i parlamenti liberamente eletti, dove confliggono i molteplici orientamenti, ma agenzie di tecnocrati competenti assoggettati ai poteri finanziari e alla loro ideologia. La politica diviene quindi ancillare rispetto al sapere tecnico quando esso si chiude su se stesso e non si lascia attraversare da alcun meta discorso: vi è insomma un intreccio indistricabile fra produzione di regimi di verità operata da un sapere tecnico autoriferito, restrizione del politico e produzione legislativa.

Il Quadro europeo dei Titoli e delle Qualifiche (EQF), recepito dal Decreto Ministeriale 22 agosto 2007 N. 139, ne è un’eloquente testimonianza: l’Allegato I, che esso contiene, è un insieme di definizioni per una serie di parole chiave (conoscenze, abilità, competenze, qualifica, sistema nazionale di qualifiche, quadro nazionale di qualifiche, risultati dell’apprendimento) che le legislazioni statali sono chiamate ad usare in modo univoco. Ciò su cui si legifera sono le parole; nella volontà di codificare esattamente i termini relativi ai sistemi d’istruzione è in gioco proprio il primato che il sapere tecnico-scientifico rivendica a sé, il suo potere di produzione di verità e di conseguenza il suo configurarsi come principio direttivo per la definizione dello spazio politico e della legislazione.

Inoltre – e con questo arriviamo al secondo elemento – in quelle parole sono contenute implicitamente le politiche da attuare; l’idea è che il centro di gravità dei processi educativi debba passare dal sapere al saper fare e al saper essere, dalle conoscenze alle abilità e alle competenze. Questi termini sono divenuti cruciali nei documenti di programmazione che il docente e la scuola devono produrre. Ma cerchiamo di darne una connotazione precisa. Il Quadro europeo dei Titoli e delle Qualifiche (EQF) contiene le seguenti definizioni:

Conoscenze”: indicano il risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze sono l’insieme di fatti, principi, teorie e pratiche, relative a un settore di studio o di lavoro; le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche.

Abilità”: indicano le capacità di applicare conoscenze e di usare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi; le abilità sono descritte come cognitive (uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (che implicano l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti).

– “Competenze”: indicano la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale; le competenze sono descritte in termine di responsabilità e autonomia.

Il processo educativo appare quindi diviso su tre livelli, di cui il primo è meramente cognitivo, il secondo operazionale e il terzo operazionale-situazionale: il sapere, il saper fare e il saper applicare ad una situazione ciò che si sa e ciò che si sa fare.

Non può non sorprendere la natura del soggetto destinatario dell’azione didattica: si tratta di un mero esecutore di compiti, di una macchina da competenze che può tutt’al più complessificarsi per venire a capo di situazioni nuove, ma mai di un essere per cui sia in gioco la propria esistenza e l’esistenza in generale, per cui si dia un’apertura di senso al mondo. Eseguire compiti, trovare soluzioni a problemi: questa connotazione macchinica del sapere e dell’operare sembra l’unico orizzonte; invano si cercherà la parola cittadino o cittadinanza nell’EQF4.

Ricapitolando siamo di fronte ad un quadruplice sistema discorsivo, che produce:

1) la verità di enunciati;
2) la restrizione dello spazio politico;
3) i contenuti della legislazione;
4) una vita soggettiva povera.

L’ultimo punto è quello rimasto finora in ombra e che merita forse di essere esplicitato: la pedagogia delle competenze si configura come una produzione che ha il carattere del biopotere. Il linguaggio che essa adopera – un linguaggio, si badi, non solo teorico, ma performativo in quanto incorporato in un quadro normativo europeo che le legislazioni statali devono recepire – presuppone teoreticamente e realizza praticamente un soggetto povero di mondo e tutto questo secondo tre direttrici: esistenziale, storico-pratica e ontologica.

Esistenziale perché, come si è detto, il referente dell’azione didattica è “la mente”, intesa come insieme di procedure da implementare: esso è una specie di macchina che va incontro a compiti sempre più complessi ed è la somma di questi compiti, ma mai innanzitutto un soggetto umano che si comprende esistente e produce il senso della propria esistenza a contatto con la situazione in cui agisce.

Ma l’impoverimento è anche pratico: il soggetto è totalmente weltlos rispetto alle operazioni che compie; il contesto che lo investe non lo interroga alla luce di un significato del proprio agire nel mondo, ma lo chiama semplicemente ad applicare le proprie abilità e a sviluppare le proprie competenze alla luce di un problema dato e in un’accezione meramente operazionale: come su un versante non è in discussione il chi, così sull’altro non è mai in discussione il mondo nel suo complesso, i suoi Sinne, la sua comprensione globale e l’azione in esso in vista della sua trasformazione. Si può dire quindi che questo soggetto compie operazioni, ma non agisce, se con azione intendiamo non l’operare macchinico, il produrre oggetti o risolvere problemi, ma un intervento che avviene come realizzazione di sé nel mondo, attraverso un senso intelligibile intersoggettivamente. Così per questo pedagogismo quando Raskolnikov uccide la vecchia usuraia, egli applica la propria “abilità di maneggio della scure” e quella di “occultamento di tracce” sviluppando la propria “competenza di omicida”, anziché compiere un’azione alla luce di una visione globale, all’interno della quale l’omicidio di uomini ritenuti spregevoli è lecita (questo è un bel passaggio, NDR).

L’impoverimento ontologico, infine, consiste nel fatto che il soggetto ha sempre di fronte a sé il reale e mai il possibile: non è in questione il progetto, rivolto al chi agente o al mondo, ma sempre uno sfondo già dato su cui misurare l’efficacia operativa del sapere. Ciò che Hegel chiamerebbe la potenza del negativo e Marx il lato attivo del sapere è quindi messo definitivamente fuori circuito. Non resta che il mondo dato a cui occorre inesorabilmente adeguarsi.

2) La scuola e il “caso Italia”

Prima di vedere quale sia la configurazione generale del sapere in cui si inserisce il pedagogismo tecnocratico delle competenze, occorre tenere presente quanto è accaduto nella società e nella cultura italiana dell’ultimo ventennio. Sia chiaro che il caso Italia è tale non perché qui si sia verificato qualcosa di diverso dagli altri paesi d’Europa: in Italia è accaduto lo stesso processo, ma con una violenza e una chiarezza che fanno di essa un modello privilegiato di analisi; il caso Italia, in altri termini, è tale non in virtù della sua eccezionalità, ma per la sua esemplarità. Ma andiamo con ordine.

La riforma Gentile, pur con tutti gli aspetti criticabili e classisti che la caratterizzavano5, aveva una precisa fisionomia, che concepiva la scuola come una paideia, al cui vertice vi era la filosofia; la configurazione epistemica era chiara: i saperi tecnico-scientifici erano subordinati al sapere filosofico, nel quale il Soggetto libero si comprendeva producendosi e si produceva comprendendosi; lo stato etico comunitario – che per Gentile il fascismo aveva la missione di portare a compimento quale telos di tutta la storia politica e culturale dell’Italia – era poi l’orizzonte di realizzazione di questa soggettività.

La Repubblica, pur avendo fatto piazza pulita, grazie alla Costituzione, dello stato etico, non mutò nella sostanza il modello complessivo della scuola, producendo “solo” riforme che miravano a democratizzarla6. L’idea che il percorso di studi dovesse trovare nella filosofia il suo telos organizzante non venne infatti meno, nonostante la filosofia venisse declinata non più nel senso del soggetto assoluto che si produceva nell’orizzonte comunitario dello stato, ma nel senso di un sapere critico cui spettava la formazione della cittadinanza. Insomma l’ideale di una paideia filosofico-politica non fu nella sostanza messo in discussione. Da questo punto di vista le istanze emancipatrici del marxismo, che penetrarono progressivamente nella scuola italiana, trovarono subito terreno fertile, informando di sé pratiche d’insegnamento, programmi e documenti d’indirizzo.

Arrivano infine gli anni Ottanta, in cui si manifesta, accanto all’eclissi del marxismo, se si vuole l’ultima “narrazione” filosofica a carattere universalistico, l’acme di una debolezza permanente della società italiana: la sua incapacità di farsi comunità politica e di procedere ad una pedagogia di cittadinanza su scala generale; la paideia gentiliana e poi repubblicana mostrano quindi un sostanziale fallimento nella loro capacità di intaccare la società italiana e di costruire da essa o in essa la comunità politica.

Da questo punto di vista le riflessioni di Pasolini sono ancora attuali: il fascismo e la Repubblica non hanno prodotto una sostanziale modifica antropologica di coloro che abitano nella penisola italiana (i cosiddetti italiani): l’unico fenomeno di modernizzazione in grado di attecchire non è stato a carattere politico e civile, ma è l’acculturazione prodotta dalla società di massa. I processi di soggettivazione, che essa realizza, sono ovviamente fenomeni che riguardano l’intero mondo occidentale, ma negli altri paesi europei la società civile mostra ancora, grazie all’avvenuta costruzione di una cittadinanza, la presenza inerziale di anticorpi politici, culturali e civili che in Italia non ci sono mai stati. È per questo che da noi quei processi – lo ripetiamo ancora – trovano un luogo esemplare: i nodi della storia d’Italia che la lettura gramsciana ha messo in luce, l’elitarismo della cultura, il ritardo storico nella realizzazione dello stato unitario, la presenza minoritaria di una borghesia di stampo europeo, vengono qui chiaramente al pettine.

Torniamo quindi al punto. Abbiamo detto che la società di massa realizza una soggettività spossessata di mondo; se questo è vero, l’orizzonte complessivo del sapere destinato a plasmare la scuola, non può che essere di natura tecnocratica; la pedagogia delle competenze realizza un modello macchinico di mente e una soggettività povera di mondo perfettamente congrue con il consumatore o il lavoratore cognitivo tipico delle società tardo-capitalistiche: si capisce bene come ogni altra forma di produzione soggettiva debba essere messa fuori gioco. Anche qui, il processo è globale, ma avviene in Italia con una radicalità e un’assenza di ostacoli politico-culturali tali da fare di essa un teatro d’analisi privilegiato.

3) Pedagogia operazionale e naturalizzazione della soggettività. Una forma di biopotere

Abbiamo accennato all’inizio al rapporto fra il pedagogismo delle competenze e la naturalizzazione della soggettività; quest’ultima consiste in un approccio teorico che, ritenendo innaturali gli aspetti qualitativi dell’esperienza vissuta, così come li descrivono le filosofie soggettivistiche, e i fenomeni del mondo storico-sociale, considera necessario ridurre entrambi ad una natura fisico-chimica elementare, presunta come sufficiente alla spiegazione, senza l’ammissione che in essa si possano dare emergenze o salti di livello organizzativo7.

Ora, la soggettività naturalizzata, povera di mondo, è esattamente quella che il pedagogismo delle competenze mira a produrre. Il rapporto fra i due è quindi complesso: da una parte la naturalizzazione della soggettività è la matrice genetica, la teoria che fa da sfondo al pedagogismo delle competenze; dall’altra quest’ultimo, recependola, la rende una pratica performativa, ossia un discorso che fa, che produce: grazie ad esso la naturalizzazione della soggettività riesce a realizzare ciò che enuncia teoricamente, ad entrare nel mondo.

Ma questo non è tutto. Occorre infatti aggiungere, come sopra si accennava, che tale pratica è una forma di biopotere8. Questa categoria, forgiata da Foucault, designa il fatto che gli apparati statali dell’epoca moderna esercitano il proprio potere non più, come nella sovranità dell’età classica, nella possibilità di dare la morte, ma nella facoltà del mantenere in vita ed è spesso usato come sinonimo di biopolitica9. In questa sede preferiamo usare il termine biopotere anziché quello di biopolitica, perché più comprensivo; infatti, al contrario di Foucault, intendiamo prendere in considerazione meccanismi di creazione della vita soggettiva la cui radice ultima è di natura essenzialmente economica.

Ad ogni modo la caratteristica essenziale del biopotere sembra essere un rapporto di generatività e di ricorsività: con questo intendiamo che il soggetto su cui si esercita il potere e quello che lo esercita non preesistono a questa relazione, ma ne sono generati: si crea un certo tipo di vita soggettiva e al tempo stesso l’apparato che ha il compito di sorvegliarla e disciplinarla10. Il potere è quindi inseparabile dalla genesi delle entità su cui si esercita, anzi è questa stessa genesi. La vita reclusa dei folli, la vita disciplinata delle carceri, la vita igienizzata della demografia sono eloquenti esempi di biopotere.

Ma come è possibile che l’apparato che esercita il potere e il soggetto che lo subisce siano generati contestualmente? La risposta è semplice: questa genesi consiste in un sapere che delinea l’uno e legittima l’altro, il soggetto deviante e l’apparato atto a normalizzarlo. Un esempio eloquente è quello che Foucault chiamava il dispositivo di sessualità: criticando l’ipotesi repressiva di matrice reichiana, egli mostra come il discorso sulla devianza sessuale sia funzionale alla produzione di soggetti devianti e al tempo stesso del potere che ha il dovere di sorvegliarli11. Tutto ciò mostra chiaramente che il biopotere non è semplicemente l’attività di apparati statali massivi, ma è anche e soprattutto un complesso di pratiche discorsive, che con quelli cooperano e si intersecano. Ciò accade perché i discorsi non sono soltanto astratti e disincarnati contenuti proposizionali, Sinne fregeani, ma pratiche performative, speech acts.

È questa la ragione per cui abbiamo sussunto il dispositivo finora analizzato, sotto il genere biopotere; le condizioni di questa sussunzione sono chiare: da una parte, come abbiamo visto, il discorso sulla naturalizzazione, realizzandosi nel pedagogismo delle competenze, acquisisce carattere performativo, ossia fa, produce soggettività naturalizzata; dall’altra il biopotere non è una res, un subiectum, ma un processo che accade come pratica discorsiva. Questa è la ragione per cui i due termini ingranano ed è possibile considerarli come specie e genere.

4) Pedagogia delle competenze, naturalizzazione, capitalismo

Arrivati a questo punto, dopo aver concepito la pedagogia delle competenze come dispositivo creatore di soggettività povera di mondo (I), dopo averla integrata con la naturalizzazione (II), dopo aver sussunto quest’unica pratica sotto il genere biopotere (III), occorre compiere un quarto e ultimo passo: penetrare in questo genere e vedere se quella pratica discorsiva si intersechi con l’apparato economico del tardo capitalismo, esso stesso produttore – forse il produttore per eccellenza – di vita soggettiva (IV). Quest’ultimo passo – sia detto per inciso – resta un grande “non detto” di Foucault: forse per la riluttanza ad assumere una scala d’analisi macro, la possibilità di connotare il sistema capitalistico nel suo complesso come dispositivo di biopotere in lui non è mai esplicita. Tuttavia questa connotazione sembra risiedere nelle cose stesse, oltre ad essere in qualche modo suggerita dallo stesso Foucault12.

In che senso, allora, possiamo connotare il sistema capitalistico come una forma, anzi la forma, del biopotere?

Per meglio impostare il problema bisogna arrestare un attimo l’analisi del dispositivo “pedagogia delle competenze-soggettività naturalizzata” e cercare di capire in che senso, in che modo e in quali luoghi il capitalismo si mostra essenzialmente come una forma di biopotere. Ora, che il capitalismo industriale sia produzione, oltre che di merci, di forme di vita soggettiva, è stato mostrato in modo esemplare da Marx: il sistema capitalista estorce al lavoratore l’energia utile al proprio funzionamento, un’energia che non si distingue da quella meramente fisica, non richiede cioè il lavoro come operare specifico, come produzione di oggetti direzionata da un sapere proprio, e l’unico fine interno che esso gli lascia è quello di riprodursi; il lavoro è così forza lavoro, l’attività soggettiva è una mera energia animale e il soggetto stesso regredisce a vita biologica da riprodurre.

Arrivati a questo punto dobbiamo aggiungere un elemento: quanto più la società capitalistica complessifica prodotti e processi produttivi (si pensi alla rivoluzione informatica), tanto maggiore sarà il grado di complessità operativa richiesta ai lavoratori. Ecco perché, rispetto al proto-capitalismo che analizzava Marx, la produzione di soggetti deve avvenire in modo da addomesticarli ad assumere le forme complesse dell’operare che la produzione esige. In questo senso la biologizzazione non può mai essere integrale e abbiamo bisogno di un quasi bios o un quasi soggetto, di qualcosa di più della vita naturale e di qualcosa di meno dell’esistenza personale e politica13. Questo è tanto più vero quanto più ci si avvicina al cosiddetto capitalismo cognitivo e ai new jobs che esso porta con sé. A questo punto la relazione con la pedagogia delle competenze dovrebbe essere chiara. Il dispositivo agisce in tre modi:

1) far rispecchiare i referenti dell’azione didattica nell’immagine di un soggetto povero di mondo;
2) allevarli (in positivo) come macchine da problem-solving;
3) impoverire di fatto quei soggetti, attraverso la marginalizzazione di ogni forma di sapere che non sia operazionale.

Partiamo dal primo punto. Il dispositivo funziona così: da una parte grazie al suo radicamento nella filosofia naturalizzata della mente, con il contributo di un’ontologia scientista non indagata quanto ai suoi presupposti, chiusa ad ogni paradigma di complessità, esso delinea una vita soggettiva da cui, come abbiamo detto più volte, è stato espulsa la dimensione esistenziale, quella politica e la relazione ontologica al possibile, spacciando questa forma storica di soggetto per il soggetto in quanto tale. Dall’altra, poiché la naturalizzazione prosegue nella pedagogia delle competenze, esso porta il referente dell’azione didattica a specchiarsi nel che-cos’è delineato in quel modo, rendendolo pronto a inserirsi in un ruolo funzionale a pratiche che non siano altro da quelle di produzione-consumo. È per questo che il dispositivo è non soltanto l’ideologia dell’apparato tardo capitalistico, ma anche la prosecuzione della sua opera – ciò che forse ogni ideologia è, nella misura in cui deve essere efficace. La naturalizzazione non è altro che una metafisica scientista che eternizza il soggetto povero di mondo del capitalismo cognitivo e che diventa col pedagogismo delle competenze strategia di disciplinamento a questa visione del sé.

Veniamo ora al secondo punto: il dispositivo discorsivo è efficace non si limita a fornire un orizzonte di senso generale, ma entra concretamente nel corpo e trasforma in senso operazionale il referente dell’azione didattica, attraverso modelli d’insegnamento essi stessi ridotti alla mera operazionalità. Lo scopo è quello di riprodurre figure funzionali già esistenti nel mondo tardo capitalistico contemporaneo, di istruire a quelle pratiche cognitive che esse presuppongono.

Un significativo esempio di come il dispositivo agisca sul fronte del senso generale e delle pratiche particolari è la prova d’italiano all’esame di stato: il vecchio tema (che in realtà era una dissertazione ragionata su un argomento di storia e letteratura, per la quale gli studenti si preparavano) è stato sostanzialmente sostituito da una prova che consiste nel produrre un articolo di giornale o un saggio breve alla luce di una serie di documenti forniti.

Quest’esempio è eloquente: innanzitutto il contesto della scrittura è presupposto ed è una forma già codificata che occorre nel mondo dato; il modello che viene fornito è che la scrittura non debba mai occorrere al di fuori di quella codificazione e non abbia lo strano e inquietante potere di creare un contesto: il rapporto fra scrittura e mondo è rappresentato come chiuso e così viene prospettato. Insomma si scrive nel modo in cui fanno certe figure della società e bisogna imparare a farlo per inserirsi funzionalmente in essa e nel suo assetto produttivo. In secondo luogo l’obbligo di usare i documenti dirige la prova scritta in una direzione piuttosto che in un’altra e questo è vero anche quando si volesse fare di essi un uso critico: viceversa in una libera dissertazione si potrebbe ritenere del tutto irrilevante fare i conti, anche in negativo, con argomentazioni contenute in certi documenti; si smarrisce perciò ogni dimensione creativa della scrittura, le idee già ci sono, si tratta tutt’al più di operare un montaggio e di prendere posizione su di esse; anche qui: priorità del dato sul possibile. Ecco quindi la pratica di fatto: educare ad una scrittura che non occorra mai libera da forme di codificazione e da contenuti già esistenti.

Quanto al terzo aspetto, la marginalizzazione di ogni sapere non operazionale, ciò a cui si assiste è una vera e propria devastazione della cultura e della conoscenza. Questo versante della questione è legato ai primi due: se i contenuti non sono importanti, se sono solo funzionali alle attitudini cognitive di una mente naturalizzata priva della dimensione del senso storico, perché leggere il Sofista di Platone piuttosto che un qualunque testo argomentato in modo coerente? Dal punto di vista della pedagogia operazionale, il problema non si pone nemmeno: non si tratta di educare cittadini o – non sia mai… – intellettuali rispetto ad una tradizione culturale e ad un possibile rapporto critico con essa, ma di insegnare una serie di funzioni cognitive per inserirsi in una delle figure professionali del lavoro intellettuale già esistenti. I saperi cosiddetti umanistici non sono più finalizzati alla paideia, ma a formare per i new jobs a carattere cognitivo. D’altra parte – è fin troppo banale sottolinearlo – allevare soggetti alla semplificazione culturale è una strategia disciplinare decisamente efficace: chi è educato a non immaginare orizzonti di senso possibile non ha che il reale e rimane quindi al suo posto.

Inoltre se ciò che si produce è un quasi soggetto, che non agisce, ma fa in senso tecnico operazionale, esso non è che una variabile della produzione e come tale è lecito, naturale, auspicabile misurarlo matematicamente. Con ciò si spiega l’ossessione docimologica per la misurabilità, per la matematizzabilità dell’apprendimento14: come prima si accennava, l’esigenza di un portfolio di competenze certificato, la ricerca di una valutazione oggettiva dei risultati dell’apprendimento non sono affatto pratiche neutre ed hanno come origine e scopo d’indirizzo le forme di lavoro tipiche del mondo tardo capitalistico contemporaneo, a cui esse vogliono disciplinare, chiudendo ad ogni sapere che possa produrre un orizzonte di senso ulteriore.

Avendo quest’origine e questo telos, possiamo dire che tutto il dispositivo “pedagogia delle competenze-naturalizzazione del soggetto” non è altro che una codificazione culturale funzionale al nuovo capitalismo cognitivo e alle sue strategie di disciplinamento, che hanno – lo ripetiamo – carattere trofico, sono processi, cioè, che producono vita soggettiva.

Il dispositivo contribuisce quindi a portare a termine il processo di produzione di un’umanità povera che è cominciato proprio con l’apparato capitalistico di produzione-consumo, allevando in batteria animali da competenze o, se si preferisce, producendo macchine da problem solving e consegnando il quasi-bios o quasi-soggetto realizzato alla visione addomesticata di una vita da cui ogni libera formatività è stata espulsa.

5) Che fare?

Se il dispositivo che abbiamo analizzato ha carattere discorsivo, ciò che lo contrasta non può che essere a sua volta un discorso che riapra la questione della vita soggettiva. In ciò non vi è niente di idealistico, né nel metodo né nell’idea direttrice di soggettività che si vuole prospettare. Da un punto di vista metodologico, infatti, dovrebbe essere chiaro che operare su un discorso significa già agire, nella misura in cui esso ha carattere intrinsecamente performativo, non solo cioè dice, ma fa. Se è vero poi che il discorso della naturalizzazione ha la forma del biopotere e che l’apparato capitalistico è esso stesso un dispositivo di biopotere o per meglio dire un complesso di dispositivi di biopotere, funzionalmente e teleologicamente organizzati, la presa di posizione contro questo discorso è, a maggior ragione, un’azione contro lo stato di cose presente.

Inoltre, dal punto di vista dell’idea direttrice di soggettività, contrastare filosoficamente la naturalizzazione non implica necessariamente l’adesione a paradigmi d’analisi idealistici; la presa di posizione contro il soggetto naturalizzato non comporta di per sé la concezione per cui le scienze sono altro che costruzioni di una vita soggettiva produttrice di senso ad essa inoggettivabile e che in nome di ciò occorre rifiutare ogni embodiement, per analizzare il soggetto in un ambito epistemico innaturalistico e trascendentale.

Al contrario, alla naturalizzazione della soggettività si può e si deve rispondere con la complessificazione del concetto di realtà: che il mondo storico sociale, l’ambito dell’agire e dei sensi storici non possano essere ridotti al sostrato fisico elementare secondo la “strategia del formicaio”15, può essere sostenuto senza che con ciò si asserisca una mente disincarnata o una trasfigurazione egologica del reale. Perciò se si deve combattere una battaglia filosofica contro la naturalizzazione della soggettività e la povertà che essa produce, lo si può fare assumendo la complessità del reale, articolando la pluralità dei suoi livelli di emergenza, dove con questo termine si indica «[…] un complesso di proprietà e qualità che, sorte da un fenomeno organizzatore, partecipano a questa organizzazione e retroagiscono sulle condizioni che lo producono»16.

Se è vero quello che diceva Spinoza, “homo particula naturae”, il problema del riduzionismo è non tanto la natura, quanto la sua asserita semplicità. Occorre perciò una nuova epistemologia che sappia vedere in certi aspetti del reale il prodotto, sì, di cause fisiche, le quali operano però in modo non-additivo, interagiscono fra di loro e producono un effetto complessivo che non è la somma degli effetti particolari che ogni causa presa per sé avrebbe. In questo modo si può riconoscere nel mondo dell’agire storico sociale un sistema, le cui proprietà complessive non sono rinvenibili sul piano delle semplici componenti sottosistemiche.

Ma non è tutto; se è vero infatti che il mondo storico umano è uno di quegli effetti di sistema, se è vero, in secondo luogo, che esso a sua volta, con i propri schemi conoscitivi, costruisce una nuova organizzazione di ciò che l’ha posto, e se è vero, infine, che questa nuova organizzazione si iscrive anch’essa nel reale, secondo un anello ricorsivo, il reale stesso non si configura più solo come un dato che c’è, ma anche come un prodotto che viene fatto.

La categoria di complessità si configura quindi come nesso che lega emergenza e ricorsività; il primo concetto garantisce il transito non riduzionista da un’appercezione naturale ad un’appercezione storico-pratica della realtà umana, permettendo di superare il monismo nomologico che sta dietro la naturalizzazione della mente; il concetto di ricorsività, dal canto suo, permette di legittimare la formatività dell’agire, oltrepassando l’appiattimento ontologico su un mondo che è sempre dato e mai prodotto. In questo modo appercezione naturale e appercezione storico-pratica della realtà umana sono distinte e ibridate, al di là della reciproca scomunica fra scientismo e umanesimo.

A ben vedere questo approccio non fa altro che andare fino in fondo al paradosso foucaultiano dell’uomo come allotropo empirico-trascendentale17, esplorandolo però in senso positivo, senza fare di esso la semplice certificazione, in qualche modo solo reattiva, del carattere contraddittorio e aporetico che avrebbe l’episteme contemporanea. Il sapere e l’insegnamento sono così restituiti a un pluralismo metodologico e a un’apertura critica che nel pensiero unico della naturalizzazione e delle competenze sembrano del tutto scomparsi. A quel dispositivo si hanno perciò tutte le armi per resistere. Del resto sono tante oggi le battaglie che hanno come posta in gioco la vita soggettiva. Il dato in fondo confortante è che si sta già combattendo. Persino in Italia.

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Note

1 Il termine competenza fa la sua prima comparsa nella legge che regola il nuovo esame di stato , D.P.R. 23 luglio 1998, n. 323 (Regolamento del nuovo esame di stato), Art. 1. Esso ricompare poi nei regolamenti dell’autonomia DPR 275/99 (Regolamento dell’autonomia), Art. 13, e DM 234/00 (Regolamento dei curricoli nell’autonomia), Art. 2. Le competenze vengono poi recepite come finalità dei sistemi educativi e di formazione dalla Legge 30/2000 Berlinguer-DeMauro, Art. 1 e dalla Legge 53/03 Moratti. Vengono infine illustrate in modo analitico nell’ Allegato D al Decreto Legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, attuativo del 1° ciclo. Si veda in proposito l’utilissimo prospetto in http://ospitiweb.indire.it/adi/Competenze/Cenerini_ok/cenercompetenze_DcIT.htm

2 Si segnalano tuttavia tre prese di posizione nette, significative e ben argomentate: L. Russo, Segmenti e bastoncini, Feltrinelli 1997, G. Ferroni, La scuola sospesa, Einaudi 1997, M. Bontempelli, L’agonia della scuola italiana, CRT Pistoia 2000.

3 Dei lavori di questa commissione può essere utile leggere la Relazione finale, a cura di Roberto Maragliano (http://www.unicobas.it/rel44saggi.htm)

4 L’assenza di una paideia politica nella concezione di una mente naturalizzata da problem solving sembra contraddetta dal fatto che nei documenti d’indirizzo della scuola italiana si insiste da un po’ di tempo sul binomio cittadinanza/ Costituzione. A questo si possono obiettare due considerazioni; in primo luogo occorre osservare il carattere estrinseco e derivato di questo concetto di cittadinanza: la singolarità su cui si interviene non è originariamente politica, secondo la celebre definizione di Aristotele, e l’esser-cittadini sembra una delle tante competenze da implementare, uno dei tanti saperi che consentono comportamenti operativamente efficaci in uscita (la riuscita dell’intesa discorsiva su un certo problema). In secondo luogo si ha l’impressione che questo kit di nozioni democratiche da implementare serva a produrre soggettività conflittuali, in un quadro in cui all’agire politico non è data altra strada che permanere all’interno delle forme date.

5 Primo fra tutti la struttura a “canne d’organo”.

6 Mi riferisco alla riforma che introdusse la scuola media (Legge n.1859 del 31 dicembre 1962) e ai cosiddetti decreti delegati (Legge delega n° 477 del 30 luglio 1973), che istituirono organi collegiali di rappresentanza aperti a docenti, studenti e genitori.

7 Sul nodo naturalizzazione-naturalità mi permetto di rimandare a G. Miniagio, Soggetto trascendentale, mondo della vita, naturalizzazione. Uno sguardo attraverso la fenomenologia di E. Husserl, Tesi di Dottorato, Università di Firenze, 2011, di prossima pubblicazione presso la Firenze University Press.

8 Il biopotere può essere definito «[…] l’insieme dei meccanismi grazie ai quali i tratti biologici che caratterizzano la specie umana diventano oggetto di una politica, di una strategia politica, di una strategia generale di potere»; M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-78, Feltrinelli 2005, p. 13.

9 «Si potrebbe dire che al vecchio potere di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte»; M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli 1978, p. 122.

10 Nel caso del dispositivo di sessualità la cosa è evidente: «Questi comportamenti polimorfi sono stati realmente estratti dal corpo degli uomini e dai loro piaceri; o piuttosto sono stati solidificati in essi; con vari dispositivi di potere sono stati suscitati, portati alla luce, isolati, intensificati, incorporati. L’aumento delle perversioni non è un tema di moralizzazione che avrebbe ossessionato le menti scrupolose dei vittoriani. È il prodotto reale dell’interferenza di un tipo di potere sui corpi ed i loro piaceri. […] L’insediamento delle perversioni è un effetto strumento: è attraverso l’isolamento, l’intensificazione e la consolidazione delle sessualità periferiche che le relazioni di potere con il sesso e con il piacere si ramificano, si moltiplicano, misurano il corpo e penetrano i comportamenti. […] Proliferazione delle sessualità attraverso l’estensione del potere; maggiorazione del potere al quale ciascuna di queste sessualità regionali offre una superficie d’intervento; […]»; M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 47; corsivo mio.

11 «Il potere funziona come un meccanismo di richiamo, attira, estrae le stranezze su cui veglia. Il piacere si trasmette al potere che lo insegue; il potere fissa il piacere che ha appena stanato. L’esame medico, l’investigazione psichiatrica, il rapporto pedagogico, i controlli familiari possono avere come obiettivo globale di dire di no a tutte le sessualità apparenti e improduttive; nei fatti funzionano a doppio impulso: piacere e potere. Piacere di esercitare un potere che interroga, sorveglia, fa la posta, spia, fruga, palpa, porta alla luce; dall’altra piacere che si accende per dover fuggire a questo potere, sottrarvisi, ingannarlo e travisarlo. Potere che si lascia invadere dal piacere a cui dà la caccia; e di fronte ad esso, potere che si afferma nel piacere di scandalizzare o di resistere»; M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 44.

12 «[..] il dispositivo di sessualità è legato all’economia attraverso punti di scambio numerosi e sottili, ma il principale dei quali è il corpo – corpo che produce e consuma»; M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 95; «Questo biopotere è stato, senza dubbio, uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo; questo non ha potuto consiìolidarsi che a prezzo dell’inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione e grazie ad un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici», ivi, p. 124; «l’adeguarsi dell’accumulazione degli uomini a quella del capitale, l’articolazione della crescita dei gruppi umani con le forze produttive e la ripartizione differenziale del profitto, sono stati resi possibili in parte dall’esercizio del biopotere, nelle sue forme e con i suoi procedimenti più svariati», ivi, p. 125.

13 Del resto anche l’esistenza di una sfera del consumo ci fa vedere che la biologizzazione non può mai essere completa e che siamo di fronte a un quasi-bios o a un quasi soggetto: questo bios di specie homo, senza un desiderio che si nutra di un “mondo apollineo d’immagini”, finirebbe probabilmente per perire: in questo senso la biologizzazione non può mai essere integrale. Se ciò può rappresentare una minaccia, l’intervento, tuttavia, di una seconda fondamentale soglia storica, l’avvento della società di massa, scongiura il pericolo e ne fa, paradossalmente, un’opportunità: il desiderio viene sempre più canalizzato verso l’imago dei prodotti dell’apparato. Ecco che quindi abbiamo tre momenti nella produzione di soggettività:

– l’energia di attivazione, appetita dall’apparato, è la forza biologica del lavoro;

– questa può esser mantenuta solo lasciando attiva la facoltà di desiderio;

– la facoltà di desiderio può essere eccitata funzionalmente all’apparato quando essa, dal sistema dei media, viene trasfigurata in appetito dei suoi prodotti.

La forza lavoro appetita dall’apparato ne appetisce le merci; la scarica della facoltà di desiderio è la discarica dell’apparato. È così che viene prodotto il consumatore. Alla luce di tutto ciò, se è unilaterale dire che la forza lavoro è nuda vita, è altrettanto unilaterale dire che il consumatore è individualità personale: esso deve esibire un certo grado di standardizzazione, se lo si vuole in grado di assorbire ciò che l’apparato serialmente produce. Esso innesca nella produzione un processo di biologizzazione e nel consumo un processo di soggettivazione, che le sono funzionali solo nella misura in cui ciascuno si interrompe. La quasi-soggettività desiderante del consumatore, insieme alla vita quasi-biologica della forza lavoro, è dunque il risultato di questa interruzione, di questa produzione difettiva. Per una trattazione più dettagliata rimandiamo a G. Miniagio, “Macchina, potere, desiderio”, in Lavoro, merce, desiderio, a cura di G. Brindisi e E. de Conciliis, Mimesis, Milano-Udine 2011; pp. 155-162.

14 Un’obiezione di principio alla docimologia è che i descrittori da riempire con valori numerici sono quelli e non altri perché selezionati da una forma di giudizio che non ha carattere quantitativo ed ha a che fare con una scelta di criteri che viene fatta altrove, in un livello pre- o meta- docimologico; la docimologia non può quindi sostituire una dottrina del giudizio, nel senso kantiano della facoltà riflettente del giudicare. Inoltre nelle prove non strutturate, che nessuno dei pedagogisti pensa di abolire – e come potrebbero, se alcuni dei new jobs cognitivi presuppongono la scrittura? – ogni valore numerico viene attribuito con una forma di giudizio di congruità-a che, ancora una volta, non procede quantitativamente.

15 L’esempio è di Hofstaedter-Dennet: la funzione di un formicaio (accumulare cibo, nutrire la regina, difendersi, etc.), pur essendo molteplicemente realizzabile in svariate serie di interazioni fra le singole formiche, nel singolo caso è identica ad una sola serie e può essere tradotta in essa; analogamente il mondo dei “fenomeni mentali” può essere tradotto nelle micro sequenze del livello elementare fisico-chimico; cfr. Hofstaedter-Dennet , L’io della mente, Adelphi, Milano, 1992. È evidente che qui fra il micro e il macro non c’è alcuna emergenza.

16 E. Morin, Il Metodo. 3. La conoscenza della conoscenza, Cortina, Milano 2007, p. 83.

17 M. Foucault, Le parole e le cose, BUR, Milano 1978 p. 343.

Tratto da: http://www.kainos-portale.com/index.php?option=com_content&view=article&id=203:adversus-paedagogistas&catid=58:ricerche&Itemid=104

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