Alain Garrigou, Il problema Wikileaks. Ci sono storie che non si raccontano ai bambini

by gabriella

Il segreto di stato nell’era di Wikileaks: i popoli sono bambini e ci sono storie che non si raccontano ai bambini. Tratto da Le Monde Diplomatique dell’ 11 aprile 2011 (traduzione dal francese di José F. Padova).

Nella polemica sulle rivelazioni di WikiLeaks (1) un ex ministro francese degli Affari esteri s’indignava pubblicamente: secondo lui la politica era come le famiglie, vi sono storie che non si raccontano ai bambini. Ci vuole una certa dose di fatuità per osare questo paragone. Hubert Védrine non si rendeva conto di riprendere la vecchia giustificazione delle élite aristocratiche, quando rifiutavano il diritto dei popoli: non erano altro che bambini. Il trionfo della democrazia, quindi, non ha spazzato via il pregiudizio. Rimangono sempre uomini abbastanza persuasi della loro superiorità per pensare che la politica è riservata a gente come loro. Senza peraltro dubitare un solo istante della loro fede repubblicana. Hubert Védrine  era troppo indignato per velare la sua arroganza con un po’ di discrezione, fornendo quindi buone ragioni per dubitare di una superiorità che si crede autorizzato a manifestare.

Ma i benpensanti aggiungeranno: si tratta di politica internazionale nella quale il segreto è sempre stato legittimato, perché ne va della sicurezza degli Stati e della vita delle persone e perché la nostra epoca piena di pericoli ne giustifica ancor più l’applicazione. I giornali hanno spiegato di aver preso precauzioni. Non si scopre alcuna rivelazione di vitale importanza ma tanto peggio. Chissà se verrebbe alla mente dei suoi sostenitori che la diplomazia segreta ha difetti gravi, tali che il presidente Woodrow Wilson pretese di vietarla nei suoi Quattordici punti del gennaio 1918.

Le relazioni internazionali sono un campo tanto eccezionale? È sufficiente che il popolo deluda le élite perché la sua incapacità sia suggerita se non messa sotto accusa. Se ne è visto spuntare il verdetto con il referendum del 2005 sull’Europa. Si deve ben credere che la posta in gioco fosse alla portata di tutti, poiché era sottoposta a referendum. La classe politica e mediatica d’altra parte [ne] approvò [il testo] al 90% circa. Quando gli elettori si azzardarono a dare la maggioranza al «no», sarebbe stato necessario che questa maggioranza non avesse capito, per respingere il testo. Troppo lungo, ci si rese conto del resto, mal redatto, ecc… Nessuno aveva potuto leggerlo, sottinteso: coloro che avevano votato «no». E i commentatori, tutti a ritrovare i cliché della psicologia delle masse per squalificare un popolo incolto, emotivo e ingannato (2). Il popolo d’altronde si era sbagliato tanto bene che non lo si fece votare di nuovo, come in alcuni Paesi vicini, ma una nuova macinatura del testo denominato Trattato di Lisbona fu ratificata dal Parlamento.

Il referendum ha forse ricevuto un colpo mortale in questo gioco di prestigio, nel quale le élite hanno dimostrato di vedere una procedura di ratifica delle loro decisioni. Tuttavia, i medesimi dirigenti stigmatizzarono in seguito la mancanza di senso civico degli astensionisti: inevitabilmente una manifestazione di leggerezza politica. Non è così facile avere un popolo di proprio gradimento, abbastanza attivo per votare ma votare bene, per interessarsi alla politica ma con moderazione. Il timore delle folle rivoluzionarie di un tempo è scomparso, ma il popolo è rimasto infantile, perché delude sempre le élite. Troppo passivo o troppo attivo, mai del tutto all’altezza.

[…]

Le Monde Diplomatique, gennaio 2011
Il segreto e le fughe
Di Serge Halimi (traduzione dal francese di José F. Padova)

Nell’ottobre 1962 il mondo sfiora le guerra nucleare. Poco prima delle elezioni di metà mandato, il presidente John Kennedy ripete che nessun impianto missilistico sovietico arriverà a Cuba – né vi sarebbe tollerato. Mosca passa oltre, ma senza poter valutare se le dichiarazioni americane mirano a tranquillizzare l’elettorato o costituiscono un vero e proprio ultimatum. Alcune comunicazioni – segrete –  preciseranno le intenzioni dei protagonisti e permetteranno di risolvere la crisi. Gli americani propongono di consentire senza dubbi – ma più tardi e con discrezione – a una delle contropartite che Mosca pretende: il ritiro dei missili della NATO schierati in Turchia. Da parte sovietica, una lettera confidenziale di Nikita Krusciov segnala a Kennedy che un impegno americano a non invadere Cuba in futuro gli permetterebbe di ordinare il ritiro delle sue navi con i missili senza perdere la faccia.

Le rivelazioni di WikiLeaks disturberanno quella diplomazia che, come nel 1962, evita le guerre o piuttosto l’altra, quella che le prepara? Perché le fughe di notizie non sono tutte valutate con la medesima severità. Quando il piano serbo “Potkova” fu inventato dai militari tedeschi per giustificare la guerra del Kossovo, quando il New York Times fece da cassa di risonanza alle balle del Pentagono sulle armi di distruzione di massa, la Casa Bianca non pretse sanzioni particolari.

Alcuni pretendono che la rivelazione della tale o della talaltra visita all’ambasciata degli Stati Uniti avrebbe messo in pericolo la vita di qualche visitatore. Eppure, se il pericolo di una divulgazione fosse stato reale (nessuna vittima di questo tipo è ancora stata identificata), come spiegare per quali motivi il segreto sia stato custodito tanto male? E i rischi politici, allora? Il dirigente socialista francese che nel 2006 confidò a un emissario di George W. Bush che l’opposizione di Parigi alla guerra in Iraq era stata «troppo aperta» (François Hollande) o chi bambineggiò dicendo che i rapporti fra i due Paesi «erano stati sempre migliori quando la sinistra era al potere» (Pierre Moscovici) avrebbero proprio preferito che quelle conversazioni fossero divulgate qualche dozzina d’anni dopo…

Tuttavia un ambasciatore non è un messaggero ordinario. Per mettere in luce la propria efficienza può esagerare l’adesione alle posizioni del suo Paese delle personalità che incontra. Ora, le dichiarazioni attribuite agli interlocutori dei diplomatici americani non sono state autenticate da chi le avrebbe pronunciate. Perché fossero pubblicate è bastato in apparenza che sembrassero di straordinaria verosimiglianza, vale a dire che corrispondessero… a ciò che già si sospettava.

Per quanto riguarda l’implicazione della sicurezza, Robert Gates, gran capo del Pentagono, si mostra sereno: «I governi che trattano con gli Stati Uniti lo fanno perché è nel loro interesse. Non perché ci amano, né perché si fidano di noi, né perché credono che noi sappiamo mantenere un segreto».

Note
(1) Serge Halimi, « Le secret et les fuites », Le Monde diplomatique, janvier 2011
(2) « Un air de contre-révolution », Le Monde diplomatique, janvier 2006

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