Una filosofia dell’ospitalità
[…] Quella di Klossowski può essere considerata un’inedita filosofia dell’ospitalità, soprattutto perché centrata su un’esperienza pervertita nella sua natura convenzionale, nella quale tale costume assume un senso essenziale ed enigmatico (Perniola 1990), ruotando su stessa con un movimento vizioso e impuro. Essa, tuttavia, non sorge sulla spinta di qualche fenomeno sociale di cui solo in questi ultimi tempi abbiamo costatato e vissuto gli aspetti più drammatici. Non è una teoria che cerca di interpretare i mutamenti apportati dall’avvento delle società multirazziali e multiculturali fornendone una giustificazione teorica a posteriori. Nelle sue conclusioni “impure”, tuttavia, sembra aprire un indiscutibile varco alla presenza di molte singolarità. Infatti, il concetto di ospitalità, proposto da Klossowski già a partire dai suoi esordi come pensatore e scrittore, prepara il terreno all’avvento di un sentire, a un pensiero pronto a revocare l’intoccabile centralità del soggetto cartesiano, a prendere atto serenamente della fine di concezioni forti e immutabili sulle quali l’Occidente ha innalzato le sue fondamenta culturali e il suo potere etnico. Intorno al tema dell’ospitalità è tuttavia necessario registrare subito due notevoli interventi di cui è opportuno dare qui brevemente conto, sia per l’apporto di idee, sia per far risaltare l’originalità della proposta del filosofo francese che, è bene ribadirlo, è improntata a un forte sentire filosofico.
Il primo contributo rilevante è quello di Emile Benveniste (1976, vol. I, p.64), non tanto perché illustra con impareggiabile erudizione e competenza la complessa storia di tale pratica, quanto perché il termine ospitalità, per lo studioso, già nella sua formulazione originaria rivela dei contorni imprecisi e indiscernibili, aspetto molto importante per entrare in sintonia con la concezione di Klossowski. Quello che subito ci colpisce in Benveniste è che inscrive tale pratica entro la dimensione economica del “dare e avere”, dunque il rapporto di ospitalità riguarda essenzialmente lo scambio e la sfera economica. La nozione primitiva della parola hostis – egli osserva– indicava una forma di uguaglianza e di reciprocità: è hostis colui che a un dono fa seguire un contro-dono. L’hostis per gli antichi romani non era uno straniero, poiché gli venivano riconosciuti gli stessi diritti dei cittadini.
L’altra riflessione che qui dobbiamo prendere in considerazione, e sulla quale ci soffermeremo più a lungo, è quella più recente di Jacques Derrida (2002), che si impegna in alcune conferenze risalenti al 1996 ad indagare tale nozione rispetto all’avvento delle società multietniche. Derrida ritiene che affrontare il problema dell’ospitalità significhi porre “una questione del fuori”. Egli distingue un’ospitalità di diritto e di giustizia da un’ospitalità assoluta: la prima esige la formulazione di un nome, la seconda richiede che io apra la mia dimora all’altro assoluto, al senza nome. La prima obbedisce a delle regole che si riferiscono al riconoscimento dello straniero stretto a chi lo accoglie da un patto di reciprocità. La seconda è lo snaturamento della prima in quanto non sorge sulla base di un patto, né sull’obbligo di pronunciare il proprio nome e cognome: tale ospitalità è assoluta e impone di rompere con l’ospitalità di diritto. Ci sembra dunque di capire, da tale ragionamento, che lo straniero non rappresenti ancora quel “fuori”, presupposto inaggirabile dell’ospitalità. Lo straniero non è ancora l’alterità incondizionata, il “fuori assoluto e selvaggio, barbaro, preculturale e pregiuridico” (p. 81).
Se, da una parte, il lavoro di Benveniste chiarisce magistralmente come la nozione di ospitalità abbia sempre avuto uno statuto enigmatico, per l’identificazione dell’ospite con lo straniero, in virtù del rapporto di parità economica e giuridica che gli viene riconosciuta, dall’altra è proprio questa parità che rifiuta Derrida. Il suo punto di vista appare, infatti, imperniato sulla rottura della reciprocità ospite-straniero, dono/contro-dono, giacché la sua riflessione prende avvio dall’ipotesi di un “fuori” assoluto nel quale è rilevabile una presenza giuridicamente innominabile. Perfino il rapporto economico è escluso poiché lo straniero non è oggetto di diritto, non gode dei benefici delle leggi dell’ospitalità, ma di un’ospitalità ulteriore, senza condizioni. Oggetto di quest’ultima forma di ospitalità non è l’invitato, il quale gode della stessa identità dell’ospite (quindi non è problematizzabile come un “fuori”), ma il barbaro che rappresenta invece il “fuori” assoluto senza nome. Ora, proprio riferendosi al lavoro di Klossowski, Derrida osserva che lo straniero è considerato un liberatore, giacché il padrone di casa è ostaggio della sua soggettività e dunque solo una presenza estranea può porlo nella condizione di ospite. Egli ritiene che le leggi dell’ospitalità imposte da Octave (personaggio centrale, insieme alla sposa Roberte, delle Lois de l’hospitalité) siano caratterizzate da una “altissima verticalità”: esse sono come una minacciosa spada di Damocle, sorvegliano gli ospiti “dall’alto della loro impassibilità”.
Queste “Leggi” – continua Derrida – sono “inaccessibili a qualsiasi trasformazione”. La conclusione è che l’ospitalità così come formulata nel lavoro di Klossowski appare viziata da un’intrinseca difficoltà, da un’aporia di fondo che ne impedirebbe la piena realizzazione. L’antinomia starebbe proprio nel fatto che non vi è un “fuori”, giacché l’evento si svolge già tutto all’interno. Il padrone di casa è nella sua casa, tuttavia vi accede solo in virtù dell’ospite. Egli vi entra come se venisse da fuori. Insomma il padrone di casa accetterebbe soltanto la finzione di un “fuori” che risolverebbe l’ospitalità entro una vertigine centrata esclusivamente sull’ospite-padrone di casa. Stando alle considerazioni di Derrida, quelle di Klossowski non sarebbero altro che leggi dell’inospitalità, se non dell’ostilità, vale a dire il disconoscimento di quel “fuori” innominabile cui Derrida stesso attribuisce il potere di liberarci dall’asservimento alla soggettività.
È invece proprio quel “fuori”, nella sua valenza misteriosa e segreta, che viene attribuita al filosofo dei simulacri da un gruppo di pensatori d’oltralpe. Vi è, infatti, una linea interpretativa tipicamente francese (Lugan-Dardigna 1986; Madou 1987) che ha voluto vedere nel pensiero di Klossowski una sorta di filosofia dello svelamento, l’incarnazione di un oscuro oggetto sempre sfuggente, la ricerca di una specie di kantiana cosa in sé, unitamente ad un effetto di vertigine che sarebbero alla base delle leggi dell’ospitalità. Tali ricerche, pur suggestive nelle loro formulazioni, sembrano rimanere abbagliate dall’effetto di superficie che il lavoro di Klossowski suscita inevitabilmente. Esse hanno tuttavia una giustificazione storica ben precisa, risalente sicuramente al sodalizio tra Klossowski, Bataille ed altri intellettuali che negli anni Trenta diedero luogo al “Collège de Sociologie” (Hollier 1979) e alla rivista “Acéphale” (Camus 1980).
Infatti, il pensiero di Klossowski è stato inopportunamente assimilato a quello di Bataille nel quale prevale proprio quel senso dello svelamento, del disincarnare necessario per accedere a quel mistero posto “fuori dai limiti”(Bataille 1954). Si è molto insistito anche su una supposta linea di continuità Bataille, Blanchot, Klossowski (Wilhem 1979), soprattutto in relazione all’esercizio della scrittura, che ha appiattito i tre pensatori uno sull’altro, generando in tal modo improponibili equivalenze. In riferimento a queste ultime esposizioni critiche ci si impongono alcuni interrogativi di non secondaria importanza: il senso dell’immane lavoro compiuto dal filosofo dell’ospitalità dunque si ridurrebbe tutto nell’ipotizzare la vertigine del pensiero? nel mostrare l’inattingibile senso del mistero che solo un ingannevole simulacro ci potrebbe rivelare? nell’indicare un fondo incomunicabile che apparterrebbe alla nostra più intima sfera impulsionale, manifestabile nell’effimera consistenza della carne? Se le cose stessero veramente così tutto il suo pensiero sarebbe ben poca cosa, e comunque solo e soltanto una variante di una tradizione tutta occidentale che ha fondato le sue certezze sulla convinzione dell’esistenza di una verità lontana, a noi inattingibile, tuttavia con valore kantianamente regolativo.
Di parere contrario sia a Derrida sia alle interpretazioni centrate sullo svelamento, è Denis Hollier, il quale in un recente saggio (Hollier 1999, p. 25) ha sostenuto la presenza nella riflessione di Klossowski di un vero e proprio movimento dall’ostilità verso l’ospitalità. Probabilmente sotto l’influenza del pensiero di Carl Schmitt – dice Hollier – nei suoi primi scritti risalenti al periodo del “Collège de Sociologie” il filosofo francese ha elaborato una teoria del “nemico”, il quale sarebbe riconoscibile solo partendo da un’originaria eterogeneità dell’anima in lotta con se stessa. La coscienza vedrebbe in tale conflitto come una minaccia che sopraggiungerebbe dal di fuori. È questo un punto di vista esclusivo che sarà totalmente rovesciato a partire dal volume che apre Les lois de l’hospitalité, cioè dall’opera Roberte ce soir. L’ostilità si ribalta in ospitalità, nel riconoscimento dell’adulterio, nel desiderio di aprire all’invitato, nella coincidenza dei suoi stessi desideri con quelli dell’ospite apparso alle spalle di Roberte. Insomma Klossowski – secondo Hollier – muterebbe una forma di perversione aggressiva in una “perversion hospitalière”. Hollier introduce nella nostra discussione una positiva connessione diretta tra ospitalità e perversione. In concordanza con queste ultime idee è importante sottolineare che Klossowski si serve, attraverso un lungo e multiforme itinerario di ricerca, di tre codici comunicativi convenzionalmente accettati dalla società: quello letterario, quello filosofico, quello artistico. Tutti e tre però sono esercitati sotto il segno della perversione: evidente in quello letterario nella struttura del lavoro, marcato dalla discontinuità; rilevabile in quello filosofico, nei presupposti teorici, impostati sotto l’egida della semiotica impulsionale; percepibile in quello artistico, in quanto contraddistinto da un atto di sospensione, da un’inclinazione drammaturgica, svolta con l’intenzione di attrarre ipotetici complici.
Infine è opportuno ribadire con forza che nella discussione intorno alla nozione di ospitalità, così come è stata proposta da Klossowski attraverso le sue opere, sarebbe esiziale farsi condizionare dalla contrapposizione dialettica vero-falso, dentro-fuori, interiore-esteriore, padrone di casa-straniero, ostilità-ospitalità. Non si tratta di sostenere l’una o l’altra tesi. Non è nelle intenzioni del filosofo francese essere esclusivo o inclusivo, valorizzare l’interiorità o l’esteriorità, accogliere lo straniero o farlo rimanere sulla soglia della sua casa. L’obiettivo che Klossowski ha perseguito attraverso molteplici strategie non ci sembra sia stato quello di teorizzare un “fuori” talmente altro da non poter essere nominato e comunque riconosciuto, né quello di valorizzare un’interiorità talmente nascosta da dover essere svelata attraverso degli stratagemmi ingannatori. È invece importante ripartire dal senso originario dell’ospitalità così come l’ha illustrata Benveniste, senso nel quale l’ospite e l’invitato sono la stessa persona. Tuttavia avendo cura a non prendere a pretesto tale meccanismo speculare per dare alla riflessione di Klossowski quella curvatura nichilistica, quell’imprendibile senso vertiginoso, quel vuoto turbinio del pensiero che ha condizionato molti interpreti, e che lo rigetterebbe, ora sì, al di fuori della filosofia dell’ospitalità.
L’enigma dell’ospitalità
È stato Alain Arnaud (1990) a sostenere che l’enigma alimenta tutta la filosofia di Klossowski. Ma si tratta ancora di un enigma che ha a che fare con il misterioso e con il segreto. Non si può sostenere che Klossowski è un pensatore enigmatico soltanto perché nasconde un segreto manifestabile in maniera ambigua. Arnaud sembra pensare ad una enigmaticità ancora troppo “vertiginosa”. L’enigma klossowskiano non è legato ad alcuna dicotomia, né oppone la segretezza alla manifestazione palese, nessuna oscurità o ricerca dell’originario, nessun pensiero torbido condiziona la sua riflessione; appare invece come un indiscernibile che alimenta tutte le sue opere, le quali danno una versione sempre differenziante (enigmatica, appunto) dell’ospitalità. In tal senso l’enigma klossowskiano non va nemmeno confuso con l’enigmaticità che pervade la filosofia del secondo Heidegger, giacché il filosofo tedesco è orientato verso il più proprio, in completa antitesi con la visione di Klossowski (Perniola 1983, p. 59).
Per comprendere lo scenario emozionale che guida il filosofo francese basterebbe porre mente sia al suo itinerario intellettuale e religioso – anch’esso molto enigmatico e leggibile da più punti di vista – sia alla definizione che egli ha dato di se stesso, quando ha affermato di non essere né uno scrittore, né un filosofo, né un artista, ma solo e soltanto un monomane. Non vi è nulla di più enigmatico di questa dichiarazione, tanto più che i tre modi di essere (scrittore, filosofo, artista) sono in palese contrasto con l’unicità della monomania. In altre parole, vuol dire che le attività sono svolte entro un ambito molto fluttuante e mutevole, tuttavia sempre in riferimento ad un fatto unico, quello della monomania che così assume, a mano a mano, sensi e significati diversi a seconda dell’attività svolta. Questa monomania non sarebbe altro se non quel “segno unico” di cui egli ha avuto esperienza e continua ad avere cognizione e di cui riferisce in un saggio densissimo sotto il profilo filosofico, posto quale Postface al volume delle Lois de l’hospitalité. E la sua opera ci appare enigmatica perché ripete, entro un movimento indiscernibile (o meglio discernibile esclusivamente per il tema prescelto e per lo strumento comunicativo adottato), sempre e soltanto lo stesso tema, vale a dire le leggi dell’ospitalità.
Il suo pensiero, egli stesso, la sua opera, sono enigmatici in quanto esaltano l’indistinguibile e l’indecidibile. Ma anche qui bisogna fare molta attenzione, perché parteggiare per l’enigma, per l’indiscernibile, non vuol dire sostare in una condizione di immobilità per l’incapacità di imporre un nome alle cose, per l’impossibilità a trarsi fuori da una palude del pensiero nella quale né si muore né si vive. Al contrario l’enigma klossowskiano ha un senso fortemente strategico ed operativo in quanto mira a dare la massima libertà al pensiero, ponendolo di fronte alla possibilità di attribuire ad un unico fatto, un’unica nozione o fenomeno, interpretazioni tra loro contrastanti, sensi confliggenti, entro un mondo che appare anch’esso fluttuante ed in continuo mutamento. L’enigma, in questo senso, segnerebbe la morte del principium individuationis nonché la fine dell’incomunicabilità, giacché la differenza indiscernibile diventa un’apertura pronunciabile e nominabile. Proprio su questo tema sono illuminanti due saggi che hanno inaugurato già a partire dagli anni Sessanta lo studio dell’opera di Klossowski.
Lo scritto di Michel Foucault La prose d’Actéon del 1964 e quello di Maurice Blanchot Le rire des dieuxdel 1965 rappresentano due riflessioni insuperate sugli elementi enigmatici presenti nell’opera del filosofo dell’ospitalità. Il dèmone, dice Foucault, non è l’Altro, il polo opposto a Dio, piuttosto è l’estraneità che si rivela essere lo Stesso, l’esattamente Simile. L’esperienza cui ci avvia Klossowski si situa in quel luogo in cui si avverte una “impercettibile differenza nello Stesso, è il luogo d’origine di un movimento infinito”. E per dire questo concetto Klossowski riprende la parola simulacro, che vuol dire venire insieme, perché esso dice congiuntamente lo Stesso e l’Altro (Foucault suggerisce una specifica costellazione di parole afferenti al simulacro, come similitudine, simultaneità, simulazione e dissimulazione). Nella sua essenza il simulacro dice tutto simultaneamente e simula all’infinito anche l’opposto di ciò che dice. A Foucault fa eco Blanchot il quale afferma che in Klossowski il principio di identità è abolito senza tuttavia cedere il suo posto alla dialettica dei contrari. Il negativo, continua Blanchot, non è più ciò che si oppone allo stesso, “ma la pura similitudine, l’infinita distanza e lo scarto insensibile”.
Come ci introduce Klossowski alle sue leggi dell’ospitalità? Il padrone di casa – scrive – invita lo straniero a porsi al di là di ogni accidentale accoglienza, dunque a rimontare verso la sostanza della sua presenza. Egli intende dunque stabilire con lui una intesa sostanziale sostituendoglisi nel ruolo di invitato, in modo che la complicità pattuita non sia altro che un rapporto di sé con se stesso. È possibile “abbracciare e non abbracciare nello stesso tempo, essere là e non esserci, entrare quando si è già all’interno?”(Klossowski 1965, p. 107). Questo è l’interrogativo che si pone Antoine, nipote di Octave e Roberte, pensando allo stratagemma che lo zio vorrebbe adottare per svelare tutti gli aspetti della personalità della zia. Risiedono in questa ipotesi – in definitiva – le “leggi dell’ospitalità” scritte da Octave, fatte incorniciare e appese ad una parete della camera degli ospiti.
Il padrone di casa è in primo luogo preoccupato di elargire la sua felicità domestica all’invitato, tuttavia questa intenzione confligge con la pratica monogamica in uso nei costumi sessuali occidentali. Egli vorrebbe stabilire con l’invitato, con lo straniero, una relazione essenziale attraverso l’attualizzazione della padrona di casa nella ospite. Le difficoltà (cui tra l’altro fa allusione anche Derrida) sorgono ora, poiché se la padrona di casa rimane nella dimensione della mera esistenza, vale a dire dell’accidentalità, darà luogo a una duplice inattualità: se è fedele non tradisce lo sposo, pur praticando l’ospitalità, e dunque porta al fallimento il progetto di Octave; se si comporta infedelmente, tradisce sotto il dominio di un gesto infedele, così da portare lo stesso verso la non riuscita delle leggi dell’ospitalità. La padrona di casa deve stabilire con l’invitato un rapporto enigmatico, né essere fedele, né essere infedele rispetto alle pretese dello sposo.
Se la padrona di casa transita dal suo stato meramente esistenziale in quello più essenziale ed enigmatico della ospite, non solo attualizza lo straniero nell’ospite, ma, nel contempo, disloca lo sposo nella condizione di straniero. Solo in questo caso la fedeltà della ospite nei confronti dello sposo assicura il compimento fedele di ciò che le leggi dell’ospitalità invitano a praticare. Quello della sposa si configura come l’infedeltà di chi compie fedelmente un mandato. È chiaro che Octave corre un grosso rischio, la riuscita delle leggi dell’ospitalità è affidata alla frequentazione di un esiguo spazio intermedio entro il quale si gioca tutta la partita, poiché la ospite potrebbe interpretare le leggi come un triviale invito all’adulterio da parte di un vecchio voyeur. Tuttavia, se è vero quello che dice Heidegger, cioè che dove c’è il pericolo lì vi è anche la salvezza,
l’ospite vuole rischiare di perdere e ritiene che perdendo invece di vincere in partenza, riuscirà ad afferrare, costi quel che costi, l’essenza della ospite nell’infedeltà della padrona di casa. Egli vuole possederla infedele, in quanto ospite (hôtesse) che compie fedelmente i suoi doveri (p. 111).
Non sempre, dunque, il “teatro coniugale” messo in atto da Octave riesce a raggiungere gli scopi che l’anziano teologo si è proposto: “da noi non è possibile osservare a piacere le leggi dell’ospitalità” (p. 27), commenta a seguito di un’esperienza non riuscita. Quello che non è attuabile nella vita – egli medita – è osservabile nei quadri di Tonnerre, il suo pittore preferito, autore di opere che interpretano le leggi dell’ospitalità magistralmente, in quanto ne esaltano l’aspetto drammaturgico e l’ambigua sospensione che Octave, riscoprendo un antico termine adottato da Quintiliano, definisce solecistica (2). In questo senso è curioso osservare che le “leggi”, proprio nella redazione manoscritta, hanno l’apparenza di un tableau: sono incorniciate e appese al muro come un qualsiasi quadro, così da preludere alla drammatizzazione figurativa deitableaux vivants.
Le leggi dell’ospitalità attualizzano una singolare astuzia erotica basata sulla rete di scambi e finzioni entro la quale i protagonisti sono praticamente svuotati della loro individualità stabile e immutabile. Octave, infatti, imbastisce un filosofico rapporto triangolare centrato sul circolo vizioso di derivazione nietzscheana (Klossowski 1969). Il circolo vizioso dell’ospitalità, nel quale hanno valore più che le individualità le singolarità pre-individuali, è caratterizzato da questo movimento: la ospite (hôtesse), in virtù della puntuale osservanza delle leggi dell’ospitalità (cioè praticando una infedeltà fedele), diviene attuale per lo straniero che in tal modo si modifica nell’ospite (hôte). Nel contempo la padrona di casa diventa inattuale per l’ospite (hôte) il quale nello stesso momento si è modificato nell’invitato. Questa circolarità viziosa ed enigmatica è insita – come si può vedere – nello scarto tra l’attimo indiscernibile nel quale l’incrocio si attualizza, e il suo svanire nell’atto di rivolersi continuamente. Vale a dire, quando scopriamo in una medesima singolarità la presenza di due essenze ugualmente ammissibili, cioè la padrona di casa inattuale che è anche la ospite attuale, mentre lo straniero, nel quale si attualizza la ospite, è l’ospite nella “relazione di sé con se stesso” (Klossowski 1965, p. 110). Nella misura in cui la padrona di casa si sarà esorcizzata nella ospite(hôtesse), l’ospite (hôte) l’avrà posseduta nella sua forma più alta, modificandosi nell’invitato.
La personalità molteplice di Roberte risulterebbe indiscernibile se un elemento derivato ed estraneo non s’interponesse tra lei ed Octave. Invocato per prendere parte al grandetableau vivant delle leggi dell’ospitalità, lo straniero si attualizza nell’ospite insidiandone la sposa, sennonché il suo gesto è sospeso, la sua presenza si avverte soltanto nello spazio intermedio. Insomma l’invitato non può che essere identificato nel dèmone intermediario, il quale insuffla la sua presenza nel corpo del padrone e della padrona di casa (3). La nozione dihostis ha grande importanza per Octave, proprio perché grazie ad essa riesce a vivere un’esperienza di livello pari a quella di Roberte. Se la ospite rinuncia all’incomunicabilità, se un dèmone la possiede e ne disgrega ilprincipium individuationis, se la sua fisionomia è in definitiva come “un nome per due donne intercambiabili” (p. 273), Octave, l’altro anello delle leggi dell’ospitalità, di questa singolare e perversa struttura trinitaria, non può che essere, a suo modo, funzionale al gioco filosofico dell’ospitalità nato sotto l’impresa del demoniaco (Huser 1982). Egli si sdoppia, vive l’avventura del discontinuo con la stessa intensità di Roberte, giacché è l’hostis. Condizione che sperimenta quando prende atto dell’esistenza di una potenza intermediaria che, confida al nipote Antoine, si pone “tra te e me, tra me e zia Roberte, tra zia Roberte e te” (Klossowski 1965, p.116). Le leggi dell’ospitalità sono portate a compimento quando ogni anima è abitata dal suo dèmone, che la mette in rapporto di mutua scambiabilità con altre anime. È possibile dunque essere due differenti persone, avere due anime? È possibile situare l’interposto nell’essere tradizionalmente concepito come unico ed inscindibile? “È possibile allora immaginare una operazione che, dissociando l’anima dal corpo e lo spirito dall’anima, sospenda la persona attuale all’interno della medesima?”(p. 128). Da qui discende che il più alto tutore delle leggi dell’ospitalità non le vive metafisicamente, dunque osservandole freddamente dall’esterno come una sorta di demiurgo, ma ne è pienamente e criticamente coinvolto: egli è posseduto dalla stessa tensione, è nel discontinuo come Roberte, nella misura in cui incarna due fantasmi, l’ospite e lo straniero. Il nome di Octave scompare dietro a quello di Théodore Lacase o del signor K., ed è riconoscibile solo dall’insieme dei nomi, i quali non ricostituiscono un’identità immutabile, ma rappresentano la fine del più proprio e del più stabile. Da qui anche la dislocazione incessante dell’anima, l’infinito artificio degli sdoppiamenti, il guardare divenuto ambiguo riguardarsi. Le “leggi” sono state accusate d’essere dominate da una forte tonalità narcisistica (Montrelay 1970, p. 63) giacché Octave pare voglia mantenere il suo ospite nel ruolo di straniero per tutto il tempo del suo passaggio, pur usandolo quale suo strumento esclusivo. L’obiettivo di Klossowski, però, non è quello di esaltare il soggetto – nel nostro caso Octave – piuttosto è quello di minarne ogni stabilità, abbandonandolo alle sue fluttuazioni impulsionali.
Ecco allora la confessione esplicita della doppia anima: “
Per anni mi sono sforzato di passare dietro la nostra vita, per riguardarla. Ho voluto dunque prendere la vita tenendomi fuori della vita, da dove ha tutt’altro aspetto. Se la si fissa da lì, si tocca una insostenibile felicità […]”(Klossowski 1965, p. 187).
Octave, dunque, punta a verificare nella sposa tutte le sue possibili modificazioni, le molteplici personalità, rese manifestabili da una forma di erotismo pervertito che solo le leggi dell’ospitalità possono assicurare. Tale erotica dell’ospitalità recita che solo alienandola Roberte (la sposa, segno unico del pensiero di Klossowski) diverrà inalienabile (Klossowski 1984, p. 20; Marroni 1990). In questo passaggio s’intrecciano sessualità, viziosità e pensiero: la comprensione di tali sottili transiti non richiede l’adozione di nozioni concettuali tradizionali, ma una forma superiore di complicità nella quale non ha posto il superamento dialettico. Proprio quest’ultima affermazione ci introduce in un altro aspetto della filosofia dell’ospitalità che è quello della perversione, dal momento che il circolo vizioso descritto da Klossowski è totalmente sotto il segno dell’esitazione e dell’intermedio. Ora, come ha sostenuto Deleuze (1969), la filosofia occidentale ha puntato su due tipi di filosofo, quello delle altezze e quello delle profondità, disconoscendo dignità al pensiero della superficie, in altre parole a quello che fa leva sull’esitazione, sul carattere disgiunto delle cose, la cui valenza appare appunto perversa. La perversione è un’esperienza estrema che immette in un territorio posto al di là di ogni divisione (Perniola 1998). Il sentire cui ci avvia Klossowski ha propriamente il carattere della perversione nella misura in cui la legge dell’ospitalità appare solecisticamente sospesa. Di fronte a questa pratica enigmatica prende senso quella intraducibile “perversion hospitalière” prospettata da Hollier.
L’esperienza impura dell’ospitalità
Il concetto di perversione ci porta direttamente dentro un’esperienza impura. Sorgono però alcuni interrogativi: perché è impura l’ospitalità nel modo in cui ce la propone Klossowski? E poi, basta la nozione di perversione a darci il quadro completo di quello che andiamo cercando? Per esempio, il concetto di simulacro, sul quale il filosofo francese ha edificato il suo pensiero e la sua notorietà, quale funzione svolge in tutta questa vicenda filosofica?
La pratica della perversione è stata storicamente incarnata dal marchese de Sade. Klossowski scrive un’opera capitale sul marchese dal titolo Sade mon prochain, cui pone in apertura della seconda edizione il saggio dal titolo Le philosophe scélérat (Klossowski 1967). In questo scritto, nel quale fa i conti con la prima edizione del libro risalente al 1947, accusata dall’autore stesso di essere venata da una sorta di “romanticismo wagneriano”, il perverso assurge a pensatore che ha fatto della scelleratezza la sua filosofia. Egli è scellerato perché spinge la sua riflessione al culmine del possibile attraverso un erotismo antigregario, dunque in conflitto con le norme della ragione. Se nella filosofia tradizionale è il cogito ad essere al centro di ogni discussione, qui è proprio l’inverso, giacché è la fine dell’io a dare al pensiero l’impulso a pensare l’impensabile. L’ateismo di Sade, sostiene Klossowski, non ha nulla che fare con l’ateismo razionale, il quale mostra di essere l’esatto uguale e contrario del monoteismo, in quanto ne conserva le fondamenta, cioè l’io razionale il cui presupposto è l’esistenza di Dio; il pensatore Sade aspira invece all’ateismo integrale, cioè alla soppressione della soggettività, in modo che abolendo l’io vada a scomparire anche il suo presupposto, vale a dire Dio.
“L’ateismo integrale – scrive Klossowski – significa che il principio di identità stesso scompare con il garante assoluto di quel principio; dunque la proprietà dell’io responsabile è moralmente e fisicamente abolita” (p. 25).
Come abbiamo detto il suo ateismo integrale Sade lo persegue con un’attività erotica la quale fa leva sullo spirito antigregario. Questa pratica centrata sulla sodomia – dunque operante contro la propagazione della specie – non raggiunge mai il suo culmine, ricomincia sempre di nuovo, poiché non è nelle sue intenzioni annullare l’oggetto della sua perversione, anzi vuole continuamente ricostituirlo. La sua è una forma alta di apatia, di partecipazione impartecipe, un’azione incessantemente ripetuta, quindi sostenuta da un forte sentire enigmatico.
La sua ascesi sessuale lo colloca in un ambito filosofico perverso poiché fatta di esitazione, di movimento permanente, di pratica senza scopo.
“Sade ha voluto trasgredire l’atto stesso dell’oltraggio in favore di uno stato permanente di movimento perpetuo – quel movimento che molto più tardi Nietzsche ha chiamato: l’‘innocenza del divenire’” (p. 44).
Ora, perché l’ospitalità è perversa? Perché è un’esperienza impura? Perché esalta quell’innocenza del divenire nel quale il movimento perpetuo ha la meglio su qualsiasi scopo e finalismo, su qualsiasi utilitarismo voluto dalle convezioni della società; perché l’io lascia il posto alla possibilità di transitare da un corpo all’altro, di modificarsi in qualcosa d’altro, senza trovare mai quella conciliazione che il pensiero gregario vorrebbe a tutti i costi ottenere. Questa esperienza perversa è anche impura in quanto rispetto alle norme della ragione essa appare insolita, perturbante, sospinta da quell’eccesso che la rende incomprensibile a quei filosofi che utilizzano esclusivamente i concetti elaborati dalla nostra tradizione filosofica. Qui il pensiero come funzione o facoltà di qualcosa di più originario non ha più corso, piuttosto esso deve farsi fenomeno, fatto, pensiero flagrante, in quanto non si tratta più di comprendere, ma di essere complici (Decottignies 1997). Il pensiero perverso sarebbe tuttavia incompleto se non si estrinsecasse in una figura strategica ed operativa quale è quella del simulacro (Klossowski 2001; Klossowski 2002; Marroni 1993; Henric 1989).
La teoria del simulacro è fondamentalmente basata su tre concetti: sulla valorizzazione del sentire, dal momento che i fremiti del corpo sono interpretabili solo da una semiotica impulsionale; sul valore del conflitto, considerato che il simulacro non concilia e armonizza alcunché, piuttosto testimonia di una lotta tra il fantasma impulsionale, la coscienza dominata dall’io, la possibilità di darsi a vedere; sulla fine del principium individuationis, perché l’adesione incondizionata al circolo vizioso dell’eterno ritorno abolisce ogni scopo e differisce incessantemente la coscienza dell’io nel rapporto tra memoria e oblio. Le leggi dell’ospitalità sarebbero incomprensibili se non tenessimo conto della semiotica impulsionale, dell’assenza di ogni spirito di conciliazione e dell’abolizione dell’io. Roberte e Octave si muovono entro questo scenario, nel quale la sposa e lo sposo possono agire liberamente, scambiare i propri corpi senza condizionamenti metafisici, proprio in virtù dell’adesione alla filosofia del simulacro. Il circolo vizioso dell’ospitalità diventa operativo perché l’io è scomparso; la perversione di Roberte e Octave assume un valore filosofico (e non di mero adulterio consensuale sullo sfondo di intenzioni pornografiche) perché il suo strumento interpretativo non è più la semiotica della coscienza, ma la semiotica impulsionale; il circolo dell’ospitalità ricomincia sempre di nuovo fino alla scomparsa dell’io perché il suo scopo non è la pacificazione e la conciliazione, ma il movimento perpetuo. Quell’essenziale che va cercando Octave non è nulla più che il simulacro di Roberte; egli non può vedere altro se non le sue infinite modificazioni, le quali si attualizzano partendo dalla revoca di ogni riferimento a una supposta originarietà.
Il simulacro è un falso che si sa tale serenamente, perché non vi è più un modello che lo faccia sentire una mera impostura, un inganno. “Il simulacro nel senso imitativo – scrive Klossowski – è l’attualizzazione di qualcosa di incomunicabile in sé o di irrapresentabile: propriamente il fantasma nella costrizione ossessiva” (Klossowski 1984 p. 76). Imitare, è bene chiarirlo subito, non significa riprodurre nel senso tradizionale e pedissequo del termine, ma rassomigliare, stabilire una strategia mimetica, generare una tensione imitativa tra fantasma impulsionale e simulacro. Quest’ultimo si colloca nell’entre-deux, nell’intermedio, in uno spazio differenziale; sa di non potere accedere al fondo incomunicabile del perverso, ma può, per mezzo di una strategia mimetica, imitarlo. Il simulacro non è il prodotto del fantasma impulsionale, non è una sua manifestazione, non è l’espressione di un originale, ma una sua “ingegnosa riproduzione”, “la riproduzione voluta di fantasmi non voluti, nati dalla vita impulsionale” (Klossowski 1969, p. 196). Non è il fantasma impulsionale che assume un carattere espressivo, ma è imitato, copiato, contraffatto. Non vi è insomma un prototipo che si manifesta, piuttosto è il suo simulacro il quale in uno sforzo che implica la connivenza di entrambi ne offre la riproduzione. Ma non nel senso che tale riproduzione sia la manifestazione decaduta di un originale, piuttosto è una sua orma, una sua imprimitura, che si instaura entro una differenza, dunque oltre ogni pensiero dialettico. Klossowski si pone questo interrogativo: esiste davvero un punto primigenio da cui far dipendere tutte le condizioni del simulacro e dunque dell’ospitalità? Se poniamo la “morte di Dio” non scompare anche quel presupposto che dà vita al soggetto stabile e immutabile?
Al soggetto, momentaneamente ricondotto al suo io, si impone dunque quel circolo vizioso, quell’eterno ritorno che Klossowski ha magistralmente teorizzato nel suo libro su Nietzsche, non come teoria uguale e contraria a quella tradizionale, ma come simulacro di dottrina, derisoria rispetto alla philosophia perennis. C’è di più. L’inscambiabilità e l’incomunicabilità del nostro fondo impulsionale non deriverebbe – secondo il filosofo francese – dal loro impossibile attingimento, ma dal fatto che è un fondo originario assolutamente insignificante, vale a dire non traducibile in un significato secondo i cliché della ragione normativa. Anzi, non solo è intraducibile, è anche privo di ogni originarietà in quanto sorto su un sentire derivato ed esterno, una intensità, una sollecitazione dal di fuori, una sorta di impossessamento. Punto di vista che, in un colloquio con Alain Arnaud, fa dire al filosofo francese:
L’anima è sempre abitata da qualche potenza, buona o cattiva. Non è quando le anime sono abitate che esse sono malate; è allorquando non sono più abitabili. La malattia del mondo moderno sta nel fatto che le anime non sono più abitabili, e che esse ne soffrono! (Klossowski 1984, p. 107).
Questo fondo può essere “compreso” solo attraverso una semiotica impulsionale, che risulta essere il superamento della semiotica della coscienza, la quale interpreta riduttivamente gli impulsi secondo il dettato di una coscienza meramente raziocinante e dunque esclusiva di altre forme di conoscenza (4).
Se la purezza appartiene al silenzio, dice Klossowski commentando un libro di Bataille, il linguaggio non può che essere impuro, per restare ancora puro linguaggio. È necessario che l’anima espella tutto ciò che immagina nel suo silenzio; e questo può avvenire solo al prezzo di una parola impura (Klossowski 1963, pp. 124-125). Le leggi dell’ospitalità sarebbero dunque incomprensibili senza il richiamo ai concetti di perversione e di simulacro. Solo a partire da tali pensieri “impuri” e perturbanti è possibile capire quanto sereno e puro sia, nella sua essenza, quel sentire che presiede alla filosofia dell’ospitalità.
Note
1 Il corposo volume riunisce tre lavori: Roberte ce soir (1953), La Révocation de l’Édit de Nantes (1959), Le Souffleur ou un théâtre de société (1960). Per inquadrare nel suo complesso la riflessione di Klossowski rinviamo al nostro volume, Pierre Klossowski. Sessualità vizio e complotto nella filosofia, Milano, Costa & Nolan, 1999.
2 “In gestu nonnulli putant vitium inesse, quum aliud voce, aliud nutu vela manu demonstratur” (Quintiliano, Institutio oratoria, I, 5, 37). Altro genere di solecismo – dice Quintiliano – si verifica quando nel gesto una cosa si esprime con la voce, tutt’altro col cenno della mano.
3 I dèmomi plasmano “le nostre anime e le attraggono a sé, installandosi nei nostri muscoli, nel nostro midollo, nelle nostre vene, nelle nostre arterie, nel cervello stesso, penetrando fin nelle nostre viscere” (Discorsi di Ermete Trismegisto, a cura di B.M. Tordini Portogalli, Torino, Boringhieri, 1965, p.157).
4 Nel libro su Nietzsche Klossowski fa sua la critica del filosofo tedesco alla nota definizione di Spinoza che recita: “Non ridere, non lugere, necque detestari, sed intelligere!”, rivendicando altre forme di conoscenza, non centrate sul pensiero come facoltà o funzione, ma in quanto fenomeno in sé.
Bibliografia
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