Alessandro Cravera, Per governare la complessità bisogna farsi le domande giuste

by gabriella

In questo articolo del Sole24Ore una riflessione antieconomicista stimolata dall’osservazione della complessità che il management deve fronteggiare.

Le considerazioni dell’autore, sebbene non nuove nella letteratura sull’organizzazione, colpiscono particolarmente chi ha assistito, con la “Buona scuola”, all’ingresso del management a scuola (il regno della complessità per eccellenza) con Rapporti di Autovalutazione, Piani di Miglioramento, Analisi SWOT ecc.

Scopriamo, in pratica, che per essere efficaci, occorre (tornare ad) essere filosofi.

Al di là dei toni, chiaramente ironici, quanti manager sono davvero consapevoli della fallacia dei principi descritti in tutte le formazioni? In fondo, molti dei suggerimenti rappresentano prassi quotidiane nelle aziende. Vi sono tre princìpi che continuano a caratterizzare il management, pur non essendo funzionali al governo della complessità:

1. L’ossessione per il controllo e per la misurazione: le imprese seguendo il principio «ciò che non si può misurare non si può gestire» hanno determinato un proliferare di KPI, forme di reporting, audit e strumenti di controllo che hanno appesantito e rallentato l’agire organizzativo.
2. La modellizzazione: nonostante la difficoltà di prevedere gli scenari, l’azione manageriale si basa ancora fortemente sulla stesura di piani d’azione, piani strategici e business plan. L’analisi a tavolino prevale sul «try&learn».
3. La ricerca di efficienza e ottimizzazione: l’assunto di base è che se tutte le Funzioni/Dipartimenti raggiungono i loro obiettivi, l’azienda nel complesso raggiungerà i propri target complessivi.

Per quale ragione questi principi risultano inefficaci o dannosi nella complessità? Il termine deriva da «cum-plexum», ovvero intrecciato insieme. Oggi i mercati finanziari, le reti energetiche e di trasporto, le economie e i consumatori sono fortemente interconnessi e questo significa che gli attori economici, interagendo in misura crescente, determinano l’entrata in scena di fenomeni emergenti, non lineari e imprevedibili.

L’imprevedibilità del comportamento dei sistemi complessi dipende dal principio dell’ecologia dell’azione. Tale principio ci indica che ogni azione sfugge sempre più alla volontà del suo autore nella misura in cui entra nel gioco di inter-retro-azioni dell’ambiente nel quale interviene. Così le soluzioni ai problemi aziendali tendono a trasformarsi in «ipersoluzioni», ovvero modi di affrontare i problemi che, pur essendo fondati sulle migliori intenzioni, finiscono con l’avere effetti controproducenti. Si raggiunge l’obiettivo di breve, ma la soluzione adottata porta all’insorgere di nuovi e più gravi problemi nel tempo o nello spazio (le aree aziendali attigue).

Come rifondare quindi il management per governare la complessità? Ecco in breve 7 nuovi principi:

1. Concentrarsi più sulle interconnessioni che sulle strutture: organigrammi e procedure rappresentano il funzionamento aziendale solo sulla carta. Ciò che fa davvero la differenza sono le reti di relazioni informali tra le persone. Conoscere i network della competenza (le persone che detengono il know how), della fiducia o della comunicazione, consente di comprendere il reale funzionamento dell’azienda e di individuare i cambiamenti che migliorano l’organizzazione.

 

2. Costruire contesti generativi: la complessità richiede flessibilità e velocità d’azione da parte di tutti i membri dell’organizzazione. A tal fine appare superato il concetto di leader come colui che decide la strategia, definisce i piani d’azione e controlla che gli altri facciano quanto concordato. Il leader si trasforma in un costruttore di contesti generativi che lasciano autonomia alle persone, ma al contempo guidano i comportamenti collettivi verso gli obiettivi dell’azienda.

 

Abraham Maslow (1908 – 1970)

3. Sviluppare motivazione intrinseca: oggi i driver motivazionali si basano prevalentemente sui sistemi incentivanti. Fanno quindi leva sulla cosiddetta motivazione controllata (fare una cosa per evitare una punizione o per raggiungere un premio). Le dinamiche tipiche dell’open source ci indicano una via diversa. I contributori di Wikipedia, o di un software “aperto” sviluppano una forma di motivazione intrinseca che nasce dalla libertà di scelta e dalla possibilità di incidere personalmente. Dare autonomia e senso di scopo alle persone contribuisce quindi a generare maggiore flessibilità ed engagement.

 

4. Attrezzarsi per un qualunque futuro: per quanti sforzi le aziende facciano, la previsione del futuro è difficile. Il management dovrebbe quindi spostare il proprio focus dalla previsione degli scenari alla capacità di sopravvivere e competere in qualsiasi scenario. Per riuscirci deve mantenere elevati livelli di intangible assets (competenze, reputazione, relazioni con il mercato, ecc.) che consentono di attutire gli eventuali shock di mercato e forniscono continuamente nuove opzioni strategiche a disposizione dell’azienda.

 

Socrate (470-69 – 399 a. C.)

5. Fuggire dall’iper-specializzazione: avere specialisti in azienda è utile e importante, ma la complessità richiede sempre di più figure manageriali ibride, con esperienze contaminate e una visione sistemica e multidisciplinare dell’organizzazione.

 

6. Sfidare conformismo e ortodossie: ogni contesto sociale è caratterizzato da convinzioni che determinano ciò che i membri di quella comunità vedono e fanno. Le ortodossie sono un potente ostacolo all’innovazione («Abbiamo sempre fatto così»). Oggi dobbiamo avere il coraggio di premiare i “devianti” e privilegiare la diversità rispetto all’omologazione.

 

7. Sviluppare ridondanza cognitiva: Ross Ashby, attraverso la sua «Legge della Varietà necessaria», ci ha insegnato che per governare un sistema complesso occorre avere una complessità (intesa come varietà di possibili comportamenti) simile o superiore a tale sistema («only variety can destroy variety»). La complessità del nostro pensiero si misura attraverso la varietà di immagini del futuro che ci creiamo e il numero di opzioni d’azione che produciamo nella nostra continua interazione con l’ambiente esterno.

 

È questa ridondanza cognitiva che ci permette di non essere sorpresi da eventi totalmente inaspettati, di riconoscere le possibili retroazioni sistemiche delle nostre azioni e quindi di concepire azioni più efficaci. Sviluppare ridondanza cognitiva significa pertanto accrescere la capacità di osservare l’evoluzione di un contesto da una molteplicità di punti di vista. In sostanza, farsi la domanda giusta piuttosto che adottare acriticamente quella che consideriamo essere la risposta giusta.

* Partner di Newton Management Innovation

Clicca qui per i precedenti della serie «Sbagliando si impara»:
1) Pensare e prendersi responsabilità: due fattori chiave per il successo
2)L’importanza di saper ascoltare, perché «sentire» non basta

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