La scuola di adattamento al disadattamento in cui consiste l’Erasmus nell’efficace racconto di Alessandro Volpi per Senso Comune.
Come molti giovani europei anche io sono partito per uno scambio Erasmus: dopo quasi tre mesi mi concedo qualche riflessione che vuole essere il più generale possibile, in cui i soggetti che compaiono sono – citando Marx – delle semplici “maschere di rapporti sociali”, per cui non se ne abbia a male nessuno, visto che lo stesso scrivente è ben dentro quei processi che cerca di descrivere.
Cosa rappresenta l’Erasmus? Innanzitutto l’Erasmus è una bolla, una bolla divertentissima: pensate di essere gettati in mezzo a centinaia o migliaia o decine di migliaia di persone provenienti da tutta Europa in un luogo che non è un luogo, con nessuna responsabilità nei confronti delle persone che vi circondano, potendo scopare, bere, drogarvi e fare tutte quelle cose che piacciono a tutti in un contesto progettato anche in termini di infrastrutture, attraverso tutta una serie di luoghi dedicati ad agevolare questo tipo di vita. A chi potrebbe non piacere tutto ciò? E questo sia detto senza moralismo di sorta, senza la minima condanna.
Passare del tempo in delle bolle non è di per sé qualcosa di negativo, il parco attrazioni in cui il bambino viene portato la domenica è per lui una bolla, ma sa che il giorno successivo lo aspetta di nuovo la scuola. Insomma la bolla scoppia e il bambino stesso ne è preparato. Questo non succede con l’Erasmus, in cui un sistema di propaganda ti convince che quella bolla è il tuo futuro, perché appartieni alla Erasmus Generation. Ovviamente tu – visto che ti trovi in un parco attrazioni – vuoi crederci, pensando che l’università di provincia in cui hai passato gli ultimi anni della tua vita possa essere solo un lontano ricordo e che passerai i prossimi anni in altre cento di queste bolle in giro per il mondo.
Purtroppo però bolla scoppia per i più. Per chi non riesce ad accedere a quella ristretta élite cosmopolita che gli permetterebbe di continuare a girare il mondo, a farsi sempre più internazionale ecc… c’è una brutale ri-territorializzazione, con il senso di sconfitta annesso per essere tornato a fare la vita del cugino sfigato che non è mai uscito dal paese. In alternativa ci sono altre due possibilità per cui la promessa dell’Erasmus si realizza ma in forma distopica. Ci sono i quasi vincitori, che passeranno anni ed anni in giro per il mondo fra stage non pagati o pagati una miseria sempre ad un passo dalle proprie aspirazioni, per cui quel paradiso si rivela un inferno. Infine ci sono gli ultimi, quelli che non hanno nemmeno un posto in cui fallire, che dovranno emigrare per fame, e non la fame di Steve Jobs, ma la fame – seppur relativa – dei poveracci. Quello che conta è che però nel frattempo tu ti sia convinto che concorrere in questa lotta al massacro sia l’unica possibilità (un TINA esistenziale), che stare in un luogo è un fallimento e che all’emigrato lo attende un futuro stupendo.
Qualcuno parla dell’Erasmus come di una forma di servizio militare postmoderno; in questa definizione c’è del vero ma non è tutto. Il militare aveva sì come fine – altro discorso è se ci riusciva – di disciplinare, ma lo faceva attraverso una repressione, una disciplina rigida che abitava ad una certa durezza del vivere. L’Erasmus funziona senza dubbio meglio perché agisce esattamente al contrario: educa al desiderio, ad inseguire delle aspirazioni che il più delle volte saranno disattese dalla realtà, ma che intanto servono a convincerti a dei comportamenti necessari alla riproduzione del sistema.
In questo senso è molto più calzante la metafora che usa Raffaele Alberto Ventura nel suo Teoria della classe disagiata [qui un estratto] riferendosi più in generale all’istruzione:
“Il problema è che la scuola si prefigge d’inculcare valori e abitudini della classe borghese senza preoccuparsi che questi possano entrare in conflitto con le risorse materiali presenti e future degli studenti: insegna cioè, dice Illich, a «pensare da ricchi e vivere da poveri». Nello stesso modo il duca Des Esseintes, in Controcorrente di Huysmans, si diverte a portare un giovane povero al bordello, abituarlo a vizi che non può permettersi e poi abbandonarlo alla sua condizione per farlo soffrire e trasformarlo in un ladro, anzi in un assassino. Nel caso del sistema educativo l’obiettivo è più limitato: trasformare lo studente in consumatore, che tenderà a risparmiare il meno possibile al fine di garantirsi uno stile di vita affine a quello promosso dalla scuola e dall’università.”
Al di là del contesto generale della teoria di Ventura per cui rimando alla critica di Thomas Fazi, questa metafora ci aiuta bene a capire cosa rappresenta l’Erasmus nella sua funzione ideologico-sociale: inculcare aspirazioni che non possono essere mantenute per spingerci in quel gioco al massacro che è la competizione per i pochi posti nell’unica vita che ci sembra degna di essere vissuta: quella delle élites cosmopolite.
Le conseguenze che dobbiamo trarre da questo discorso ovviamente non sono reazionarie, nessuno qui vuole limitare la circolazione dei saperi, il progetto Erasmus è un valore da preservare qualsiasi sia il destino dell’UE, e anzi magari da rendere pure più universale. Quello che possiamo fare – noi classe disagiata in Erasmus – è di sfruttare il meglio di questo progetto senza cadere nella trappola ideologica della Erasmus Generation. Diceva Leo Longanesi, uno dei più brillanti scrittori e giornalisti italiani del secolo scorso: “la carne in scatola americana la mangio, ma le ideologie che l’accompagnano le lascio sul piatto.”
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