Annabell, la rete neurale artificiale che parla

by gabriella

Una simulazione al computer di 2 milioni di neuroni ci aiuta a capire come nasce e si sviluppa il linguaggio. A neuronsgrsphspiegarlo uno dei ricercatori coinvolti nel progetto. Uscito su Wired.

Come si sviluppa il linguaggio? Quanta conoscenza di base è necessaria perché diventiamo capaci di comunicare? A queste domande, a metà tra filosofia e neuroscienze, ha cercato di rispondere anche il team di Bruno Golosio dell’Università di Sassari in collaborazione con Angelo Cangelosi dell’Università di Plymouth (Uk). Per farlo non è ricorso però né alla filosofia né alla biologia in senso stretto, quanto piuttosto all’informatica. Attraverso un modello simulato al computer, soprannominato Annabell, infatti, Golosio è riuscito a dimostrare che le reti neurali sono capaci di imparare e di comunicare attraverso il linguaggio umano. A partire da zero. Come lo spiega in un articolo apparso su Plos One, e lo ha raccontato a noi di Wired.

Professor Golosio chi è Annabell?

“Annabell (Artificial Neural Network with Adaptive Behavior Exploited for Language Learning) è un’architettura cognitiva, un sistema usato per simulare strutture e processi che avvengono nella nostra mente.

Si tratta di una simulazione al computer costituita da neuroni artificiali, due milioni di neuroni collegati da 33 miliardi di sinapsi virtuali. Rispetto ad altre simulazioni, Annabell non usa delle regole precodificate per elaborare l’informazione, ma impara attraverso gli stessi meccanismi che sono alla base dell’apprendimento nel nostro cervello e non ha alcuna conoscenza linguistica precodificata”.

In che modo Annabell ha imparato a comunicare?

“Consideriamo Annabell per quel che è: un insieme di tanti neuroni, che ricevono un segnale elettrico in ingresso e lo elaborano per stabilirne uno in uscita. Nel nostro studio abbiamo utilizzato un’interfaccia che converte un testo in un segnale elettrico di input indirizzato ad alcuni neuroni artificiali. Una volta inviato, questo segnale si propaga attraverso la rete che lo elabora e trasmette un segnale in uscita che l’interfaccia converte nuovamente in testo. Il sistema riesce a imparare in modo progressivo a elaborare le informazioni linguistiche. In questo modo siamo riusciti a simulare un dialogo macchina-uomo.

Confronto tra un dialogo umano/Annabell e umano/umano (foto: Bruno Golosio)

“Per valutare la capacità di apprendimento di questo sistema, abbiamo usato frasi e domande basate sulla letteratura scientifica dedicata allo sviluppo del linguaggio infantile. Frasi generalmente semplici, al livello di un bambino di circa quattro anni. In totale sono state trasmesse al sistema circa 1.500 frasi in input, e il sistema ha prodotto circa 500 frasi in output. In queste frasi ha dimostrato la capacità di usare in modo appropriato articoli, nomi, verbi, aggettivi, pronomi. Il sistema inoltre ha dimostrato tra le altre cose di poter imparare a contare, a confrontare i numeri, come per esempio nei confronti di età, a svolgere semplici operazioni aritmetiche”.

Potremmo assimilare il funzionamento di Annabell a quello di un chatterbot?

“No, non lo è perché non è pensato per essere una soluzione tecnica al problema del dialogo uomo-computer. La nostra è un’architettura che usiamo per studiare le funzioni cognitive di alto livello, come lo sviluppo delle nostre competenze linguistiche e la capacità di combinare le informazioni verbali con la memoria, e per comprendere come queste funzioni sono legate ai processi neurali che avvengono nel nostro cervello”.

Che cosa avete scoperto grazie a questa architettura cognitiva?

“I nostri risultati supportano l’ipotesi che lo sviluppo del linguaggio richieda ben poche conoscenze innate, perché Annabell riesce a imparare da zero, senza regole linguistiche precodificate ma solo attraverso la comunicazione con un interlocutore umano. Questo va contro la tesi per esempio di Noam Chomsky, secondo cui nel nostro cervello ci sarebbe una grammatica universale innata su cui costruiamo le nostre competenze relativamente alla lingua che impariamo. Piuttosto quanto trovato supporta un’altra scuola di pensiero, quella per cui le funzioni cognitive più elevate, come appunto il linguaggio, richiedono una limitata conoscenza innata, e sono piuttosto il risultato dell’esperienza che deriva dalle interazioni sociali, dalle interazioni col nostro stesso corpo, dalle interazioni con l’ambiente esterno. In sostanza non ci sono programmi precodificati nel nostro cervello per lo sviluppo di queste funzioni cognitive”.

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