A partire dal fatidico 11 settembre, uno spettro è tornato ad aggirarsi per l’Europa: il “relativismo culturale”. In Italia soprattutto, non v’è articolo, commento, intervista su controversie riguardanti i rapporti fra “noi” e gli “altri” che non si apra o si chiuda con un’invettiva contro il relativismo. Che si tratti della questione del foulard detto islamico o del dibattito sulle cosiddette mutilazioni dei genitali femminili, del rapporto con l’islam “trapiantato” oppure del giudizio sulla guerra preventiva, la rampogna antirelativista è divenuta luogo comune delle retoriche di destra, ma condiviso da non pochi locutori di sinistra. Cosa, quest’ultima, alquanto sorprendente se si considera che il tema del rifiuto del relativismo –che nel linguaggio neocons significa indiscutibilità del fondamentalismo cristiano e del connesso progetto imperiale armato – è ricomparso sull’onda dell’offensiva della nuova destra americana e della pretesa della superiorità assoluta della “civiltà occidentale”. Circa l’uso politico della deprecazione del relativismo, rigore vuole, tuttavia, che si faccia distinzione fra varianti di destra e varianti di sinistra: nella variante guerresca alla Marcello Pera, occorre sbarazzarsi del relativismo –“la sofferenza dell’Occidente”- perché appaia chiaro che la guerra preventiva è soluzione necessaria per quanto dolorosa; nelle varianti di sinistra, il relativismo culturale è deprecabile perché alimenta il “comunitarismo” (côté francese) oppure perché è rinuncia a principi quali l’uguaglianza fra i generi (côté italiano, oltre che francese).
E’ lecito sospettare che la popolarizzazione di una formula fino a tempi recenti riservata al lessico della filosofia e delle scienze sociali e una così reiterata e condivisa condanna –fino alla recente, autorevole denuncia da parte di Ratzinger, oggi Benedetto XVI, del relativismo insinuatosi nel corpo della chiesta cristiana- si collochino nel solco di quel cieco furore universalista (rubo l’espressione a Claudio Marta) che, soprattutto dall’11 settembre in poi, fa da copertura a una sfrenata vocazione egemonica, rimettendo in discussione i faticosi tentativi del passato di perseguire politiche di traduzione e di riconoscimento reciproco fra “civiltà”, collettività, culture diverse.
Non è certo che la totalità dei pubblici censori del relativismo conosca genesi e significato del concetto; né è sicuro che sia consapevole della non-coincidenza fra relativismo etico e relativismo culturale quale principio epistemologico e/o metodologico. Non è da escludere tuttavia che, pur intuendo la distinzione, voglia insinuare nel pubblico che dubitare che la propria forma di vita particolare possa essere assunta a metro di misura universale significhi ipso facto svendere i propri modelli, principi e valori, dichiarare che essi sono infondati o interscambiabili, assumere un atteggiamento di rassegnato scetticismo.
Conviene spendere qualche parola per ricordare che il vituperato relativismo culturale è una delle pietre miliari del pensiero antropologico, una delle sue acquisizioni più importanti e feconde. La cui esplicita e sistematica formulazione nasce fra gli anni trenta e quaranta del Novecento nell’ambito dell’antropologia culturale statunitense: come decisa ripulsa del razzismo hitleriano e come vigorosa reazione contro l’evoluzionismo ottocentesco, che pretendeva di classificare gerarchicamente le culture secondo un’unica linea di sviluppo. Essa si configurava dunque come rottura “progressista” o, se preferite, liberal del paradigma colonialista, per il quale lo stadio più avanzato dell’umanità s’identificava con l’Inghilterra vittoriana ossia con il cuore dell’Impero. Uno dei primi a criticare severamente le gerarchizzazioni di stampo evoluzionista fra culture inferiori e superiori, civilizzate e primitive, fu il caposcuola Franz Boas, per il quale ogni cultura è una costruzione originale che merita d’essere analizzata per se stessa. Fra gli allievi di Boas sarà soprattutto Melville J. Herskovits ad articolare compiutamente il paradigma relativista: nel 1947, in qualità di membro del consiglio direttivo dell’American Anthropological Association, egli firmò un testo, Statement on Human Rights, che inviò alla commissione delle Nazioni Unite incaricata di elaborare la Dichiarazione universale dei diritti umani. In quel testo l’antropologo avanzava una critica preventiva dell’universalismo (dell’ideologia universalista, non dell’idea dell’universalità): ogni tentativo di formulare postulati che scaturiscono da convincimenti o dal codice morale di una sola cultura, egli scriveva, riduce la possibilità di applicare all’umanità nel suo insieme qualunque dichiarazione dei diritti umani. All’epoca, quando il timore era che si potesse relativizzare anche la cultura nazista, la critica di Herskovits fu respinta. Ma oggi, quando l’universalismo si rivela – almeno nel suo uso politico – sempre più particolare, sempre più sottomesso all’idea della superiorità della civiltà occidentale e del suo diritto a imporne i valori con le guerre preventive, è certo che il monito di Herskovits abbia fatto il suo tempo?
Il 26 settembre 2001, sull’onda dell’emozione per l’attentato alle Torri gemelle, Angelo Panebianco scriveva sul Corriere della Sera: “Se la guerra al terrorismo durerà anni, bisognerà attrezzarsi per neutralizzare (…) il principale alleato di Bin Laden e soci in Occidente, la loro più preziosa ‘quinta colonna’: il relativismo culturale”. Già allora Clara Gallini in un’intervista al manifesto (27 settembre 2001) segnalava il carattere strumentale e tendenzioso di quell’esortazione: quando si vuole territorializzare il mondo elevando rigidi confini tra i gruppi, scriveva l’antropologa, il relativismo culturale viene evocato come una necessità positiva; quando si vuole ristabilire la superiorità dell’Occidente e della sua civiltà, il relativismo viene demonizzato. A distanza di quasi quattro anni si deve constatare che l’esortazione di Panebianco è stata raccolta, da destra e da sinistra, perfino con qualche eccesso di zelo, mentre la saggia relativizzazione del relativismo proposta da Gallini è caduta nel vuoto. Così che l’evocazione del “vaso di Pandora del relativismo culturale” dal quale scaturirebbero i mostri che minacciano “i nostri valori” suona come un’ingiunzione tanto vacua sul piano teorico quanto efficace su quello comunicativo e politico. L’effetto ricercato è -a seconda delle varianti, di destra o di sinistra- intimidire il povero lettore che osi coltivare qualche dubbio sulla legittimità di esportare “i nostri valori” con ogni mezzo oppure dissenta dall’idea di proibire per legge i segni religiosi detti ostensibili; è tacitare chi ritenga sospetta la corale condanna del fanatismo “islamico” (un altro termine à la mode) da parte di una società che incoraggia l’idolatrico delirio di massa per la morte di un papa; è bacchettare la sinistra altermondialista la quale pensa che con i giovani sfavoriti delle banlieues si debba tentare di dialogare benché sia loro venuta questa fissa di dirsi musulmani. Il risultato per eccellenza, quello perseguito in Italia soprattutto da locutori di destra, è indurre il pubblico a distogliere lo sguardo dall’incappucciato di Abu Ghraib, effetto collaterale dei “nostri valori”, perché si volga estasiato verso la nostra democrazia, la nostra laicità, la nostra libertà. Perché infine riconosca insieme a Bush che “il nostro stile di vita non è negoziabile”.
E’ raro che ai censori antirelativisti venga in mente che la “nostra civiltà” ha egualmente prodotto attitudini come l’incertezza e la critica di sé, il rispetto per forme di vita diverse dalla propria, la sospensione del giudizio etnocentrico come postura metodologica che consente la comprensione di altre culture e il dialogo con gli “altri”. Ignorare o rinnegare questa propensione, rifiutare l’idea che vi siano più punti di vista e che essi potrebbero convivere nel rispetto reciproco, è porsi al di fuori di una cospicua linea culturale europea: quella che da Montaigne a Herder, da Rousseau a Derrida, pur nell’infuriare di guerre religiose, conflitti di classe, conquiste coloniali, scontri imperiali, ha saputo parlare la lingua della critica del proprio particolare e della disposizione a comprendere mondi diversi dal proprio.
Tutto ciò vuol dire sposare senza dubbio alcuno il paradigma relativista col rischio di giungere –secondo un’accusa divenuta anch’essa luogo comune- a rinunciare al postulato dell’unità del genere umano? Niente affatto. Al di là dell’opportuna denuncia dell’uso politico del “rifiuto del relativismo”, la necessità che oggi si pone è quella di ridefinire i termini della dicotomia universalismo/relativismo. Nelle loro declinazioni estreme, sia la posizione relativista sia quella universalista non sono più sostenibili. Come tutti i culturalismi, le posizioni radicalmente relativiste corrono il rischio di vedere differenze ove vi sono ineguaglianze sociali o addirittura di produrre ineguaglianze sociali attribuendo differenze. Il relativismo facilmente può scivolare verso una concezione statica e deterministica delle culture, intese come totalità chiuse, autosufficienti, cogenti; occultare il fatto che qualsiasi cultura è attraversata da conflitti fra le classi, le caste, i generi, le generazioni. D’altra parte, più che evidenti sono le venature dell’etnocentrismo, dell’egemonismo, del fondamentalismo nelle attuali declinazioni universaliste. Quando non è una maschera del progetto imperiale e del “fardello dell’uomo bianco” in versione postcoloniale, l’universalismo si configura oggi sempre più come un universale gerarchico e astratto, che non riesce a dare risposte a società sempre più eterogenee, complesse, plurali, sempre più attraversate da esclusioni e marginalità sociali. La tragica figura dell’incappucciato di Abu Ghraib dovrebbe segnalarci l’urgenza di immaginare l’utopia di un pluriversalismo, per citare Serge Latouche, o di una universalità policentrica come antidoto al progetto imperiale e ai suoi sottoprodotti locali.
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