Gli fu domandato quanto differiscano gli educati dagli ineducati e la sua risposta fu: «Tanto quanto i vivi dai morti».
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi
1. La concezione dell’anima
2. L’educazione come sviluppo razionale: diventare ciò che si è
3. Educazione e felicità: la polis e la vita buona
3.1 La felicità
3.2 I fini dell’educazione: capacità di pensiero e cura di sé
3.2.1 La saggezza e l’aretè
1. La concezione dell’anima
La concezione dell’anima (psyché) di Aristotele è meno inquieta di quella platonica.
Lo stagirita non la concepisce infatti come il luogo di conflitto di tre “principi” in lotta fra loro – anima irascibile, concupiscibile, razionale – ma come una struttura assolutamente unitaria portatrice di funzioni armoniche, cosicché l’istinto non è dissociato dal pensiero e la sensazione non è staccata dalla volontà o dall’attività intellettuale.
Nel De Anima, il filosofo distingue un’anima nutritiva, cioè la capacità di svilupparsi, nutrirsi e riprodursi del mondo vegetale, un’anima sensitiva che identifica la capacità di sentire propria degli animali, e un’anima razionale, propria dell’uomo, che ne spiega l’attività di pensiero.
Poiché ogni essere è per Aristotele sintesi (synolon) di materia e forma, l’individuo è concepito come un organismo composto di corpo e anima, realtà vivente.
L’anima è quindi «la forma di un corpo che ha la vita in potenza», cioè il principio di sviluppo di un individuo, immanente (cioè interno) all’individuo stesso. Ciò significa che per un greco l’anima non è un principio spirituale separato dal corpo, come la tradizione cristiana seguendo il platonismo di Agostino ha ritenuto, ma semplicemente la vita del corpo.
Il filosofo sottolinea che se nel mondo inorganico le cose diventano ciò che sono solo per causa esterna, nel mondo organico il principio di sviluppo e la causa di movimento (cioè il fattore che determina il passaggio dalla potenza all’atto) sono immanenti alla materia stessa: è la forma infatti ad essere causa dello sviluppo degli esseri viventi.
L’anima è perciò la sostanza (ousia) dell’individuo, ciò che esso è o, più specificamente, ciò che tende a diventare. Essa è quindi sia principio formale – l’identità – che finale – ciò che essa tende a diventare – di una cosa. E se ogni essere ha come fine la piena attualizzazione della propria forma, l’individuo tende a sviluppare (attualizzare) le proprie funzioni organiche, sensitive e intellettive. In questo modo, dato che la specificità umana consiste nella razionalità, egli tenderà a realizzarsi pienamente come essere razionale.
2. L’educazione come sviluppo razionale: diventare ciò che si è
L’educazione é un ornamento nella buona sorte, un rifugio nell’avversa.
I genitori che educano i figli meritano onori maggiori
dei genitori che hanno solo generato: questi
infatti diedero la vita, quelli procurarono il viver bene.
Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, V, 1, 19
In base a quanto si è detto, è chiaro che per Aristotele l’educazione si configura come sviluppo di un principio interno allo stesso individuo. Ogni individuo è insomma un essere potenziale che l’anima si incarica di realizzare, in cui quel «potenziale» è inteso dal filosofo come l’insieme delle disposizioni ad agire, cioè ciò che per sua natura è capace di diventare, piuttosto che delle qualità innate.
L’istruzione e l’educazione si presentano perciò come attività che assecondano il processo di sviluppo naturalmente attivo, la cui efficacia dipende sia dalle attitudini dell’individuo che dagli stimoli ambientali.
Diogene Laerzio riferirisce che Aristotele
«era solito dire che l’educazione ha bisogno di tre elementi: attitudine naturale, studio ed esercizio» (Vite dei filosofi, V,1,18) e che «insegnava al discepoli ad esercitarsi su un tema determinato e insieme li allenava ai dibattiti oratori» (V,1,3).
3. Educazione e felicità: la polis e la vita buona
3.1 La felicità
Negli scritti di etica e politica, Aristotele istituisce uno stretto legame tra educazione e felicità. Nell’Etica Nicomachea il filosofo indica il bene dell’uomo nella felicità.
Tutti gli uomini tendono alla felicità, ma non sono concordi nell’indicare in cosa consista. Essa però non può identificarsi con il piacere dei sensi perché ciò circoscriverebbe ad un’unica dimensione la vita personale, né nell’onore tributato nella vita pubblica, perché dipende da altri ed è un bene derivato (è cioè il riconoscimento delle proprie virtù), né infine nella ricchezza che è un semplice mezzo per conseguirla. La felicità è invece nella realizzazione della propria più intima natura, la quale, in base a quanto visto nella psicologia, consiste nello sviluppo e nell’esercizio della ragione.
Aristotele condivide, come si vede, l’idea fondamentale dell’antropologia socratica che l’uomo è la sua ragione, una vita felice è dunque una vita che realizza la naturale tendenza umana alla conoscenza –
«tutti gli uomini, per natura, amano la conoscenza» scrive nel libro I della Metafisica –
e alla prassi razionale o saggezza (phrónesis).
3.2 I fini dell’educazione: capacità di pensiero e cura di sé
La riflessione di Aristotele sulla felicità prosegue con una considerazione sulla vita associata, cioè sulla società che per un filosofo greco coincide con la polis.
L’uomo è qui definito un animale sociale, zóon politikòn («ὁ ἄνθρωπος φύσει ζῷον πολιτικὸν», Polit, 1253a ), assolutamente incapace di vivere isolato dagli altri perché come singolo, cioè al di fuori della comunità, non potrebbe mai realizzare la sua propria natura di essere razionale. Non potrebbe cioè vivere libero nella polis dandosi autonomamente le proprie leggi.
Il fine dell’educazione è quindi il bene dell’uomo nelle due direzioni dianoetica (cioè intellettuale, relativa alla capacità di pensiero) e pratica (cioè relativa all’azione e al comportamento giusto). L’educazione al pensiero (dianoia) è propria della cura di sé, attraverso la quale coloro che dispongono di tempo libero (scholé) e non devono servire – non essendo né schiavi, né stranieri, né donne, ma cittadini liberi – possono impiegarlo al servizio di se stessi (scholé, da cui “scuola”, significa infatti “tempo libero”).
3.2.1 La saggezza e l’aretè
L’educazione alla saggezza, o comportamento razionale (phronesis) copre, invece, tutti gli ambiti della vita personale e si esprime non in rapporto a valori assoluti, ma all’adeguatezza della condotta nelle molteplici situazioni concrete dell’esistenza.
Principio fondamentale della vita etica aristotelica è l’idea di una condotta ispirata alla ragione secondo il criterio del giusto mezzo che non significa mediocrità, ma ricerca del meglio nella situazione data. Ne segue che per Aristotele, il comportamento etico non consiste nell’adesione a norme universali date una volta per tutte, ma in un impegno costante alla saggezza: l’uomo virtuoso è così l’uomo comune impegnato nell’ordinare la propria esistenza secondo ragione.
Nell’Etica Nicomachea Aristotele scrive che il bene si riconosce mediante l’educazione, il cui esercizio fa sorgere in noi l’abitudine a compiere buone azioni. Di conseguenza, le virtù etiche (coraggio, temperanza, liberalità, giustizia, ecc.) derivano in noi da una pratica acquisita attraverso il comportamento costantemente corretto:
[…] nessuna delle virtù etiche sorge in noi per natura; è vero invece che le virtù sorgono in noi che, atti per natura ad accoglierle, ci perfezioniamo attraverso l’abitudine […] lo impariamo attraverso la pratica, così altrettanto compiendo cose giuste diventiamo giusti, compiendo cose moderate, moderati, compiendo cose coraggiose coraggiosi.
L’areté è dunque un modo di comportarsi, una prassi, che non è innata, ma appresa. E’ habitus, non temperamento. Essere virtuosi vuol dire adottare un modo di vivere informato alla razionalità e alla saggezza.
Quello che pensiamo diventiamo
« Cura i pensieri: diventeranno parole. Cura le tue parole: diventeranno le tue azioni. Cura le tue azioni perché diventeranno abitudini. Cura le tue abitudini perché diventeranno il tuo carattere e cura il tuo carattere perché diventerà il tuo destino. Quello che pensiamo diventiamo. Le persone non pensano più: sentono. Come ci si sente? “Ahh, oggi non mi sento bene… Ahh, mi dispiace, nel nostro gruppo ci si sente…” Lei lo sa qual è uno dei grandi problemi al giorno d'oggi? È che siamo governati da persone che danno più peso alle sensazioni invece di dare peso ai concetti e alle idee. I concetti e le idee! »“The Iron Lady” è un film diretto da Phyllida Lloyd, che racconta la vita dell'ex primo ministro britannico Margaret Thatcher, interpretata da Meryl Streep, che per la sua interpretazione ha ricevuto il suo terzo Oscar.
Publiée par Filosofia e Storia della filosofia sur Dimanche 29 mai 2016
La separazione tra sfera dianoetica e sfera pratica è un elemento di forte rottura con la filosofia platonica. Infatti, mentre Platone, e prima Socrate, avevano affermato l’unità della virtù (areté) e, conformemente, la stretta continuità tra la vita teoretica e la vita pratica, cioè tra il conoscere e l’agire («conoscere il bene è farlo»), Aristotele rompe tale nesso.
Per lo stagirita, infatti, la conoscenza del bene non è epistemica (non si può conoscere il bene in assoluto): saper distinguere il bene dal male è solo la condizione necessaria, ma non sufficiente, per agire in modo giusto. Finché non intervengono la decisione e la scelta che non sono condizioni di carattere teoretico, ma fronetico (da phronesis, cioè legate alla saggezza), il bene rimane nell’ambito del possibile, ma non si traduce in un’azione reale e concreta (si veda l’esempio di Massarenti, Smettere di fumare. Aristotele contro Platone).
Aristotele rovescia, di conseguenza, il rapporto istituito da Platone tra conoscenza e città giusta. Non sono i filosofi, cioè gli uomini capaci di contemplare il vero, a dover guidare la polis ma, al contrario, spetta alla città giusta il compito di assicurare ai cittadini la vita buona, cioè le condizioni perché possano dedicarsi alla vita razionale, vale a dire alla propria felicità.
Prende così corpo l’idea che la felicità sia la cura di sé, tempo liberato dalle occupazioni servili e dedicato al godimento intellettuale del mondo e all’educazione della saggezza, cioè alla scholé.
Un’applicazione dell’etica aristotelica: La scelta di Sophie
La vera sapienza, come il vero amore, sono uno stato, una maniera di essere, un atteggiamento, una situazione dell’anima
non sono né idee, né principi, né sistema.
Nicolas Gomez Dávila, Notas
Sophie’s Choise è un film drammatico diretto da Alan Pakula, premio Oscar nel 1983. La protagonista, Sophie, è una cattolica polacca reduce dalla deportazione che vive a New York con il compagno, un intellettuale ebreo.
I due coinvolgono nei loro ricordi un giovane americano, arrivato a New York dopo il congedo militare per diventare scrittore. Sophie descrive il padre, professore universitario a Cracovia, come un modello di virtù, mentre questi ha collaborato con i nazisti, nel vano tentativo di salvare la propria vita e quella dei propri familiari.
Deportata ad Auschwitz con i due figli piccoli, per aver acquistato del cibo alla borsa nera, all’arrivo Sophie è costretta da un ufficiale nazista a scegliere quale dei due figli salvare dalla morte. Inorridita, si rifiuta di scegliere, ma poi cede e sceglie di salvare il figlio Jan. In seguito, per salvare se stessa e tentare di rivedere il figlio da cui è stata separata, accetta di collaborare con i carcerieri, diventando la segretaria del comandante del campo, Rudolf Höß.
Ma quale scelta avrebbe dovuto fare Sophie? Nella condizione data, può essere considerata giusta la scelta di salvare almeno uno dei figli? È giusto scegliere il male minore?
Aristotele ci risponderebbe che scegliere il bene non è frutto di considerazioni immediate, ma della capacità di distinguere il bene dal male e dal coraggio di farlo.
Sofia avrebbe potuto scegliere la morte, se lo avesse fatto, non avrebbe aggiunto la propria atroce scelta alla crudeltà nazista. Le è mancato però il coraggio di scegliere ciò che era giusto, oppure ha scelto l’ingiustizia in base a un’errata valutazione dei benefici che ne avrebbe ricavato: una o più vite salvate al prezzo di una vita innocente, non significa che quelle vite possano essere vissute (cioè che siano vita vera) e che ne valga la pena.
Anche i soldati della Divisione Aqui hanno dovuto scegliere e hanno scelto di resistere.
Come resistere nel tempo della barbarie
La psicologia giovanile
Nel secondo capitolo della Retorica (II (B), 12, 1389 a-b) Aristotele traccia un quadro molto dettagliato della psicologia giovanile:
I giovani sono inclini ai desideri e portati a fare ciò che desiderano. Tra i desideri del corpo sono inclini soprattutto a quelli erotici e sono incontinenti al riguardo. Sono mutevoli e spesso sazi nei loro desideri e, come desiderano intensamente, così cessano rapidamente di desiderare; infatti le loro volontà non sono forti, ma sono come la fame e la sete dei malati. E sono impetuosi, facili all’ira e a seguire l’impulso. E sono succubi dell’impetuosità; per la loro ambizione non sopportano la mancanza di riguardo, bensì s’adirano se ritengono di aver subito ingiustizia. E sono ambiziosi e ancor più desiderosi di successo; la giovinezza infatti desidera la superiorità e la vittoria è una superiorità.
E hanno queste due ambizioni più che l’amore del denaro; essi amano pochissimo il denaro, perché non ne hanno ancora provato il bisogno. Essi non sono di cattivo carattere, ma di buon carattere, perché non hanno ancor visto molte malvagità; e sono facili a sperare; infatti come gli uomini brilli, i giovani sono riscaldati dalla natura anche per il fatto che non hanno ancora subito molti insuccessi. E vivono la maggior parte del tempo nella speranza; infatti la speranza è relativa all’avvenire, così come il ricordo è relativo al passato; e per i giovani l’avvenire è lungo e il passato è breve; infatti all’inizio del mattino non v’è nulla nella giornata che si possa ricordare, mentre si può sperare tutto.
Essi sono facili a lasciarsi ingannare, per il motivo che dicemmo, cioè perché sperano facilmente. E sono più coraggiosi; poiché sono impetuosi e facile a sperare e di queste due qualità la prima impedisce loro di avere paura, la seconda li rende fiduciosi, infatti nessuno teme quando è adirato, e lo sperare qualche bene dona fiducia. E sono indignabili; poiché non ammettono che esistano altrove altre cose belle, ma sono educati solo dalla legge della tradizione. E sono magnanimi, perché non sono ancora stati umiliati dalla vita, anzi sono inesperti delle ineluttabilità, e il ritenersi degni di grandi cose è magnanimità: e ciò è proprio di chi è facile a sperare.
Inoltre preferiscono compiere belle azioni piuttosto che azioni utili; poiché essi vivono più secondo il loro carattere che non secondo il calcolo; ed è il calcolo che riguarda l’interesse, mentre la virtù riguarda il bello. E sono amanti degli amici e dei compagni più che nelle altre età, poiché godono della vita in comune e non giudicano ancora nulla secondo il loro interesse e, quindi, neppure i loro amici.
E peccano sempre per eccesso o per esagerazione: infatti essi fanno tutto con eccesso; poiché amano all’eccesso, odiano all’eccesso e così via. Essi credono di sapere tutto e si ostinano al proposito; questa è appunto la causa del loro eccesso in tutto. E anche le loro ingiustizie sono compiute per eccesso oltraggioso, non per malvagità. E sono inclini alla pietà, perché immaginano tutti onesti e migliori di quanto siano; e misurano i vicini col metro della loro innocenza, per cui immaginano che le loro sofferenze siano immeritate. E sono amanti del riso e buontemponi; infatti la giocondità è un eccesso temperato dall’educazione.
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