Il governo Renzi impugna la legge sull’acqua pubblica della Regione Lazio
Anche se cambiano le terga assise sugli scranni di Palazzo Chigi, anche se gli schieramenti politici si rimescolano e si alternano al governo, la minestra riscaldata è sempre la medesima: no e poi no all’applicazione del referendum per l’acqua pubblica. Alla faccia del popolo sovrano, il Governo ha impugnato venerdì la legge sull’acqua pubblica della Regione Lazio. Motivo sintetico? Non garantisce la concorrenza. Ovvero, non garantisce un guadagno per i gestori dei servizi idrici.
L’ultima puntata della telenovela relativa alla mancata applicazione del referendum sull’acqua pubblica si dipana a partire dal comunicato stampa di Palazzo Chigi relative alle decisioni prese venerdì dal Consiglio dei Ministri. Dice fra l’altro che il Governo ha impugnato la legge della Regione Lazio n. 5 del 4 aprile 2014 intitolata “Tutela, governo e gestione pubblica delle acque”.
Leggetela. Articolo 2: “L’acqua è un bene comune naturale e un diritto umano universale. La disponibilità e l’accesso individuale e collettivo all’acqua potabile, in attuazione dei principi costituzionali, sono garantiti in quanto diritti inalienabili e inviolabili della persona”. Articolo 3, con dedica implicita alle società che producono acqua in bottiglia: “la Regione e gli enti preposti alla pianificazione della gestione dell’acqua possono comunque disporre limiti al rilascio o al rinnovo delle concessioni di prelievo dell’acqua anche in presenza di remunerazione dell’intero costo”. Articolo 4: la gestione del servizio idrico “deve essere svolta senza finalità lucrative e ha come obiettivo il pareggio di bilancio, persegue finalità di carattere sociale e ambientale ed è finanziata attraverso risorse regionali e meccanismi tariffari”.
E’ l’applicazione dei principi del referendum. Ma il Governo non vuole. Il sito del ministero degli Affari Regionali spiega i motivi per cui la legge è stata impugnata. Sono numerosi ma riconducibili ad un unico principio: la legge del Lazio sull’acqua violerebbe l’articolo 117 della Costituzione; in particolare, ne violerebbe il secondo comma alle lettere e), l), s). Sono quelle che assegnano allo Stato (e non alle Regioni) il potere di legiferare in materia di concorrenza, giurisdizione e tutela dell’ambiente.
Il punto centrale – è ovvio – è la concorrenza. Il Governo vuole che l’erogazione dell’acqua sia soggetta alle regole del mercato e del guadagno, anche se perfino l’Unione Europea così smaniosa di liberalizzare e privatizzare propende per l’acqua pubblica.
Ammesso e non concesso che la legge del Lazio violi la Costituzione, io mi chiedo (ma è una domanda puramente retorica) se il Governo, sull’acqua, non viola la volontà popolare espressa attraverso il referendum. Mi chiedo anche a chi, a cosa bisogna appellarsi per costringere un Governo ad applicare la volontà popolare espressa nel modo previsto dall’articolo 75 della Costituzione. E questa non è purtroppo una domanda retorica.
Assoninme. Quel Referendum è acqua passata. La ripubblicizzazione del sistema idrico resterà sulla carta
Vale il principio del recupero dei costi. Affidamento diretto in house consentito in pochi casi. Tratto da “ItaliaOggi”, 7 luglio 2011.
Concorrenza ed efficienza resteranno le basi per una buona normativa sui servizi pubblici locali, nonostante l’esito del referendum sull’acqua dello scorso giugno.
È questa la convinzione di Assonime che si rintraccia in un’analisi che guarda oltre il responso delle urne sui quesiti referendari sul servizio idrico.
Insomma, la tanto sbandierata ri-pubblicizzazione dell’acqua è soltanto uno slogan che non potrà essere realizzato.
Il punto da cui ripartire sono le regole europee, che restano ferme,
è la premessa dello studio redatto dai ricercatori dell’associazione presieduta da Luigi Abete che riunisce le grandi società per azioni.
In particolare,
l’affidamento diretto secondo il modello in house è consentito solo nel rispetto dei vincoli posti dal diritto europeo e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia; per gli altri affidamenti bisogna seguire procedure a evidenza pubblica,
ricorda la ricerca dell’associazione guidata dal direttore generale, Stefano Micossi. I principi europei per l’affidamento delle concessioni di servizi (trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento) sono espressamente richiamati dall’articolo 30 del Codice dei contratti pubblici, ricordano Ginevra Bruzzone, Raffaella Marzulli e Virginia Dagostino, autrici del paper.
L’abrogazione del richiamo all’adeguata remunerazione del capitale investito tra i criteri per la determinazione della tariffa del servizio idrico integrato, secondo Assonime,
non fa venire meno il principio europeo del full cost recovery, in base al quale la tariffa deve tendere alla copertura dei costi, incluso il costo degli investimenti.
Gli stessi giudici costituzionali, secondo le ricercatrici di Assonime, nella sentenza in cui hanno dichiarato ammissibile il quesito referendario hanno riconosciuto il carattere essenziale della copertura dei costi.
«Occorre peraltro tenere presente», si legge nell’analisi , che il percorso di consolidamento degli equilibri di finanza pubblica a tutti i livelli di governo esige che le scelte degli enti locali riguardo alla gestione dei servizi vengano compiute secondo le modalità più efficienti, minimizzando il ricorso alle risorse pubbliche». Anche per questo motivo, «l’affidamento dei servizi con procedura a evidenza pubblica resta un’opzione importante per gli enti locali».
Le conclusioni sono confortanti, nonostante la propaganda dei vincitori del referendum tenuto il 12 e 13 giugno scorso:
È importante chiarire che una completa esclusione delle imprese private dal settore idrico non appare una via percorribile nei prossimi anni,
sostiene Assonime. Infatti le perdite delle attuali reti idriche superano il 30%, con situazioni ben più gravi in alcune regioni; gli investimenti necessari per mantenere e completare le infrastrutture ammontano a 64 miliardi di euro nei prossimi trent’anni. Così,
data la scarsità di risorse a disposizione per la spesa pubblica e i limiti a un aumento del debito pubblico derivanti dal Patto di stabilità e crescita e dal Patto di stabilità interno, senza il contributo dei capitali privati realizzare gli investimenti necessari appare difficile.
Sui criteri di determinazione delle tariffe, sia per il servizio idrico che per la gestione dei rifiuti, le direttive europee richiedono agli Stati membri di orientarsi al principio della piena copertura dei costi, inclusi i costi ambientali e i costi delle risorse. Ma «l’obiettivo della piena copertura dei costi, inclusi i costi di investimento, è ancora lontano, in Italia più che in altri paesi, e si può senz’altro ritenere opportuno che una parte degli investimenti sia a carico della spesa pubblica». Tuttavia, il principio di politica tariffaria sottostante non deve essere abbandonato, consiglia l’associazione presieduta da Abete non si tratta solo di un obbligo europeo, ma è anche fondamentale per evitare comportamenti scorretti di spreco delle risorse idriche:
Sia nello scenario della gestione diretta che in quello dell’affidamento con procedura a evidenza pubblica è prevedibile che nei prossimi anni le tariffe medie in Italia aumenteranno per avvicinarsi alla media europea.
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