L’articolo che il giornalista John Pilger ha dedicato alla Giornata dell’Australia, la manifestazione commemorativa della colonizzazione dell’isola, iniziata il 26 gennaio 1788. Tratto dal blog di Mauro Poggi.
Il 26 gennaio in Australia si celebra uno dei più tristi giorni nella storia dell’umanità. È “un giorno per le famiglie”, dice il magnate dell’editoria Rupert Murdoch. Vengono distribuite bandiere nelle strade, si indossano buffi cappelli. La gente manifesta il proprio orgoglio di comunità, la propria gratitudine.
Nel corso della mia vita, l’Australia non autoctona è cambiata: da società in prevalenza anglo-irlandese si è trasformata in una delle società più etnicamente differenziate al mondo. Molti di coloro che chiamavamo “Nuovi australiani” scelgono spesso il 26 gennaio, la Giornata dell’Australia, per giurare come cittadini, in cerimonie spesso commoventi.
Era l’alba di un 26 gennaio quando, tanti anni fa, mi trovai con altri australiani, nativi e no, a gettare ghirlande nel porto di Sydney. Eravamo scesi fino a una di quelle perfette calette sabbiose dove altri, come sagome impietrite, avevano guardato le navi britanniche calarvi l’ancora il 26 gennaio 1788: il momento in cui l’isola-continente fu tolta ai suoi abitanti. L’eufemismo usato fu “insediamento”. Henry Reynolds, uno dei pochi storici australiani a cui va riconosciuta onestà intellettuale, scrive che si è trattato di uno dei più grandi furti della storia: il massacro che ne seguì lo definisce come “un sussurro nei nostri cuori”.
Gli aborigeni australiani, fra le presenze umane di oggi, costituiscono la comunità più antica. Per gli invasori europei essi non esistevano, perché il loro continente era stato dichiarato terra nullius, una terra deserta. Per supportare questa finzione giuridica furono ordinati omicidi di massa. Nel 1838, il Sydney Monitor scriveva:
“In questa zona è stato deciso di sterminare l’intera razza dei neri”.
Si riferiva ai Darug, un popolo che viveva lungo le rive del grande fiume Hawkesbury non lontano da Sydney. Con una considerevole ingenuità, senza armi da fuoco, essi combatterono un’epica resistenza che è rimasta quasi un segreto nazionale. In una terra disseminata di cenotafi che ricordano i coloni morti, per la maggior parte in guerre imperialiste, non ne esiste uno in memoria di quei guerrieri che lottarono e caddero in difesa dell’Australia.
È una verità che non trova posto nelle coscienze degli australiani. Fra le nazioni nate a spese delle popolazioni indigene, l’Australia continua a rifiutare di confrontarsi con la vergogna del suo passato coloniale.
Un film di Hollywood, Soldato Blu, nel 1970 aveva invertito gli stereotipi razziali e dato agli americani una visione del genocidio perpetrato durante la mitica saga del loro “insediamento”.
A distanza di quasi mezzo secolo si può dire che nessun film equivalente sarà mai prodotto in Australia. Nel 2014, quando il mio film Utopia, che racconta il genocidio australiano, fu visionato da un distributore locale, sono stato avvertito:
“Non c’è modo di distribuirlo. Il pubblico non lo accetterebbe”.
In parte sbagliava. All’uscita di Utopia a Sydney, qualche giorno prima del 26 gennaio, in un’area all’aperto nel quartiere chiamato The Block, vennero più di 4.000 persone, in maggioranza non-indigene.
Molte avevano viaggiato attraverso il continente. I capi indigeni che erano apparsi nel documentario si alzarono in piedi davanti alla schermo e parlarono nella loro lingua. Niente di simile era mai accaduto prima. Eppure, non c’erano giornalisti. Per l’opinione pubblica, l’evento era come non fosse mai accaduto.
L’Australia è una murdochrazia, dominata dalla filosofia di vita di un uomo che ha scambiato la propria nazionalità per la rete televisiva americana della FOX. Adam Goodes, la stella indigena del rugby australiano, scrisse al Sydney Morning Herald chiedendo di “rompere il silenzio”.
“Immaginate di vedere un film che dica la verità sulle terribile ingiustizie commesse contro il nostro popolo, un film che riveli come gli europei, e i governi che hanno guidato il nostro paese, hanno stuprato, ucciso e derubato il nostro popolo per il loro tornaconto. Ora immaginate come ci si sente quando la gente che ha in gran parte beneficiato di quegli stupri, quegli omicidi e quelle rapine – la gente in nome della quale tutto ciò è stato perpetrato – gira la faccia disgustata quando qualcuno cerca di farglielo vedere“.
Goodes aveva rotto il suo silenzio quando denunciò le prevaricazioni razziste verso di lui e verso altri atleti indigeni. Quest’uomo dotato e coraggioso si è ritirato dallo sport l’anno scorso, lasciando
“la nazione sportiva divisa sul suo conto”,
come scrisse compiaciuto un commentatore. In Australia è considerato rispettabile essere “divisi” nell’opposizione al razzismo.
Nel Giorno dell’Australia 2016 – che i nativi preferiscono chiamare Giorno dell’Invasione, o Giorno della Sopravvivenza – non ci sarà alcun riconoscimento del fatto che l’unicità dell’Australia sta nel suo primo popolo, o che la mentalità coloniale è così radicata che non provoca alcun disagio. Una mentalità che si esprime in vari modi, dal servilismo con cui la politica segue la rapacità degli Stati Uniti al disprezzo per gli indigeni, che è analogo a quello nei confronti dei kaffir in Sud Africa.
L’apartheid scorre lungo tutta la società australiana. A pochi minuti di volo da Sydney, le aspettative di vita della popolazione indigena sono fra le più basse. Gli uomini muoiono prima dei 45 anni. Muoiono di malattie dickensiane, come la cardiopatia reumatica; i bambini diventano ciechi per il tracoma e sordi per l’otite, malattie della povertà. Un medico mi confessò:
“Volevo somministrare a una paziente un anti-infiammatorio per un’infiammazione che avrebbe potuto essere evitata in migliori condizioni di vita, ma non ho potuto perché non aveva abbastanza di che nutrirsi e non avrebbe potuto prendere le pillole. Qualche volta mi sembra di avere a che fare con condizioni analoghe a quelle dei lavoratori inglesi all’inizio della rivoluzione industriale”.
Il razzismo che permette questo in una delle più privilegiate società della terra ha radici profonde. Negli anni venti del secolo scorso, un “Protettore di Aborigeni” supervisionava il furto di bambini meticci con il pretesto di “preservare il colore”. Oggi numerosi bambini indigeni vengono allontanati dalle loro famiglie, e molti sicuramente non le rivedranno più.
L’11 febbraio prossimo l’associazione GMAR, Grandmothers Against Removals (Nonne Contro gli Allontanamenti), guiderà una marcia sul Parlamento federale di Canberra per chiedere il ritorno dei bambini rapiti.
L’Australia suscita l’invidia dei governi europei, ora che si rinchiudono nei loro confini e compaiono tendenze fasciste come in Ungheria. I rifugiati che si azzardano a fare rotta verso l’Australia su barconi sovraccarichi sono trattati come criminali, al pari dei “contrabbandieri” la cui fama amplificata viene usata dai media australiani per distrarre dall’immoralità e criminalità del governo.
I rifugiati sono confinati dietro fili spinati, mediamente per più di un anno, alcuni indefinitamente, in condizioni barbariche che hanno portato ad auto-mutilazioni, omicidi, suicidi, disordini psichici. I bambini non ne sono risparmiati. Un sinistro Gulag australiano, condotto da aziende di sicurezza private, che include campi di concentramento sulle remote isole del Pacifico di Manus e Nauru. Lì i rifugiati spesso non hanno idea se e quando saranno liberati.
L’esercito australiano – la cui leggendaria temerarietà è oggetto di acritici libri apologetici che riempono gli scaffali delle edicole aeroportuali – ha un ruolo importante nelle operazioni di respingimento dei rifugiati, in fuga da guerre come quella che gli americani e i loro mercenari australiani hanno condotto in Iraq.
Nessuno sembra notare l’ironia di queste azioni così poco coraggiose, per non parlare delle responsabilità.
Nella Giornata dell’Australia viene proclamato “l’orgoglio dei servizi”, nei quali è incluso il Dipartimento australiano di immigrazione, che costringe gli immigrati nel suo Gulag per processarli lontano dalle proprie coste, spesso in modo arbitrario, lasciandoli a marcire nel dolore e nella disperazione.
La scorsa settimana è stato annunciato che il Dipartimento ha speso 400.000 dollari in medaglie da assegnare ai propri funzionari. Issate le bandiere.
La mappa dei massacri
Stan Grant, My people die young in this country
“My people die young in this country. We die 10 years younger than the average Australian, and we are far from free. We are fewer than 3% of the Australian population and yet we are 25% – one quarter – of those Australians locked up in our prisons. And if you’re a juvenile it is worse, it is 50%. An Indigenous child is more likely to be locked up in prison than they are to finish high school.”
He spoke of his Indigenous ancestors, including his grandmother and great-grandmother, who were among those institutionalised in missions, where Indigenous people were forced into unpaid labour and abused. He referenced the “war of extermination” against his ancestors.
“I love a sunburned country, a land of sweeping plains, of rugged mountain ranges,” Grant said, referencing the famous poem, My Country, by the Australian writer Dorothea Mackellar.
“It reminds me that my people were killed on those plains. We were shot on those plains, diseases ravaged us on those plains.
“Our rights were extinguished because we were not here according to British law, and when British people looked at us, they saw something subhuman. We were fly-blown, Stone-Age savages, and that was the language that was used. Captain Arthur Phillip, a man of enlightenment … was sending out raiding parties with the instruction; ‘bring back the severed heads of the black trouble-makers’.
“By 1901 when we became a nation, we were nowhere, we were not in the constitution. Save for race provisions which allowed for laws to be made which would take our children that would invade our privacy, that would tell us who we could marry and where we could live. The Australian dream.”
The media commentator and writer, Mike Carlton, described Grant’s address as Australia’s “Martin Luther King moment,” and “Stan Grant” was still trending on Twitter on Sunday morning.
Grant won a prestigious Walkley award for journalism in December for his columns covering Indigenous affairs for Guardian Australia.
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