Barbara Cassin, Sofistica

by gabriella

Barbara CassinTraggo da Studia Humanitatis la ricostruzione della fisionomia intellettuale del sofista quale alter ego del filosofo, operazione intellettuale di Platone secondo il quale

«il sofista assomiglia al filosofo quanto il lupo al cane».

Splendida in particolare, l’illustrazione dell’autolegittimazione del discorso ontologico smascherata da Gorgia – quasi in in chiusura del testo [B. Cassin, Sofistica, in AA.VV., Il sapere greco, II, Torino, Einaudi, 2007].

Se l’essere è un effetto del dire, l’immediatezza della natura e l’evidenza di una parola che ha il compito di esprimerla adeguatamente svaniscono insieme: la fisicità che la parola rivela lascia il posto alla politicità creata dal discorso. Si raggiunge così grazie ai sofisti la dimensione della politicità, e la città appare come la creazione continua del linguaggio. La sofistica, se è un gioco, è un gioco che produce il mondo, come il gioco del fanciullo eracliteo.

La sofistica fu un movimento di pensiero che, all’alba presocratica della filosofia, sedusse e scandalizzò la Grecia intera. I sofisti furono effettivamente, secondo la bella espressione di Hegel, i maestri della Grecia”: anziché meditare sull’essere, come gli Eleati, o sulla natura, come i fisici della Ionia, essi scelsero di essere degli educatori di professione, uomini grazie ai quali “nacque la cultura propriamente detta”, stranieri itineranti che fecero commercio della loro saggezza e delle loro competenze come le etere facevano commercio del loro fascino.

Ma i sofisti furono anche uomini di potere, che sapevano come persuadere i giudici, cambiare gli umori di un’assemblea, condurre a buon fine un’ambasceria, dare leggi a una nuova città, educare alla democrazia: in breve, fare opera politica.

Questa duplice capacità ha un’unica fonte: la padronanza del linguaggio, dalla linguistica (morfologia, grammatica e sinonimica, che rese celebre Prodico) alla retorica (studio dei tropi, delle sonorità, delle proprietà del discorso e delle sue parti, in cui primeggiò Gorgia). I sofisti furono anzitutto, secondo la diagnosi di Hegel, “maestri dell’eloquenza”.

Questo tipo di legame costituisce il linguaggio, nel bene e nel male, la linea divisoria tra il “sofista” (σοφιστής), l’esperto in saggezza, e il “filosofo” (φιλόσοφος), l’amante della saggezza che non osa pretendere di possedere tutto il suo oggetto.

[…] I sofisti greci del V secolo a.C. rappresentano un fatto della storia intellettuale: furono forti personalità che creano una sorta di “movimento” caratterizzato da un atteggiamento di pensiero che oggi apprezziamo sempre più e che chiameremmo relativista, progressista, rivolto ai fenomeni e al mondo degli uomini, in altre parole umanistico.

Nella seconda definizione, invece, il nome comune serve, quasi atemporalmente e non senza mistero, a designare, in filosofia, una delle modalità possibili di non-filosofare, quella del “ragionamento verbale”. È dunque necessario rendersi conto che la sofistica si costituì, e fu costituita, come un alter ego della filosofia: essa è, insomma, non solo un fatto storico, ma un effetto strutturale. Lo si verifica già con i testi. Le disavventure della loro trasmissione hanno fatto sì che ci siano pervenuti solo pochissimi frammenti autentici, quasi tutti inseriti all’interno di testimonianze o interpretazioni tendenti a squalificarli.

I frammenti dei sofisti sono stati raccolti da Herman Diels e Walter Kranz e, dopo di loro, da Untersteiner.

Da queste grandi compagini emerge l’esiguità del corpus autentico, cioè attribuibile expressis verbis a qualcuno di loro. Esso mostra, tuttavia, due linee di forza ben chiare: da un lato, l’opera di Gorgia, con l’ontologia, o “meontologia”, del Trattato del non-essere e la retorica dell’Encomio di Elena e dell’Apologia di Palamede; dall’altro, quella di Antifonte, oggetto di scoperte e lavori più recenti, con le preoccupazioni etiche e politiche del papiro Sulla verità e le arringhe-modello costituite in particolare dalle Tetralogie.

Ma i frammenti conservati non sono nulla rispetto all’ampiezza delle spiegazioni e rappresentazioni che hanno suscitato. La ricostruzione delle tesi e delle dottrine dei sofisti fa parte allora di una paleontologia perversa, poiché i medesimi testi sono fonte della nostra conoscenza e della nostra non conoscenza della sofistica.

[…] La sofistica, realtà storica, è al tempo stesso un artefatto, un prodotto della filosofia, che la presenta sempre come la peggiore delle sue alternative. […] Protagora […] fu, si dice, il primo sofista. Di lui possediamo in fin dei conti solo due frasi, una sugli dèi, dei quali

«non so né che sono né che non sono» fr.4 DK

e l’altra, la più celebre, sui χρήματα (le “cose”, come viene abitualmente tradotta quella parola):

«Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono» fr.1 DK.

Ora, questa seconda frase ha molto significativamente come contesto di trasmissione e di interpretazione niente meno che il Teeteto di Platone e il libro IV della Metafisica di Aristotele, senza contare il libro VII dell’opera Contro i matematici di Sesto Empirico.

Socrate

Ma è sufficiente il solo dialogo fra Socrate e Teeteto ad accreditare per sempre il senso relativistico e soggettivistico della “proposizione di Protagora” e a privarla di tutte le sue pretese: se la verità si riduce per ciascuno all’opinione che traduce le sue sensazioni, Protagora avrebbe potuto dire altrettanto bene che

«la misura di tutte le cose è il porco, o il cinocefalo» (Teeteto, 161c).

È così dall’insieme dei dialoghi di Platone che si delinea originariamente la figura ormai tradizionale della sofistica.

Essa viene svalutata su tutti i piani: sul piano ontologico, perché il sofista non si occuperebbe dell’essere, ma si rifugia nel non essere e nell’accidentale (Sofista); sul piano logico, perché non ricercherebbe la verità e il rigore dialettico, ma soltanto l’opinione, la coerenza apparente, la persuasione e la vittoria nel duello oratorio (Eutidemo); sul piano etico, pedagogico e politico, perché il sofista non avrebbe come scopo la saggezza e la virtù, né per l’individuo né per la città, ma il proprio potere personale e il denaro (Gorgia); sul piano letterario, perché le figure del suo stile sarebbero soltanto le ampollosità di un vuoto enciclopedico (Protagora).

Se misurata in base al criterio dell’essere e della verità, la sofistica dovrebbe essere condannata come pseudo-filosofia: una filosofia delle apparenze e un’apparenza di filosofia.

L’operazione platonica consiste essenzialmente nel fare del sofista l’alter ego del filosofo, che non cessa di imitarlo e di farsi passare per lui. Essi si assomigliano, secondo quanto osserva lo Straniero nel Sofista, come

«il lupo assomiglia al cane» (231a 6).

Ma, anche soltanto in base al gioco dei casi della declinazione, ci rendiamo conto che la rassomiglianza è «il più scivoloso dei generi», perché nello scambio di repliche fra Teeteto e Socrate il dativo mette il sofista nella posizione del cane, e il filosofo in quella del lupo, benché solitamente il lettore non se ne avveda. […]

Il sofista, imitatore del “saggio”, ne è un paronimo, una parola della stessa famiglia, né più né meno del filosofo stesso. Per cui, ed è proprio questo che affiora nel Sofista per sconvolgerne la rigorosa organizzazione, l’artefatto è produttore di filosofia, costringe al parricidio e provoca una riflessione sull’essere, il non essere, i grandi generi e la sintassi.

Aristotele

A sua volta, nel libro IV della Metafisica Aristotele confuta coloro che con “l’uomo-misura” di Protagora pretendono che «tutti i fenomeni siano veri» e credono di poter così sfuggire al principio di non-contraddizione: come Eraclito e tutti i Presocratici, essi semplicemente confondono il pensiero con la sensazione, e la sensazione con l’alterazione.

Ora, fidarsi esclusivamente della sensibilità e della sensazione e cercare di tradurre in parole appropriate quel divenire incessante, significa voler afferrare degli uccelli in pieno volo e condannarsi al silenzio, come Cratilo, che si accontenta semplicemente di muovere il dito per indicare quel fiume sempre diverso da se stesso nel quale nessuno potrà mai bagnarsi. Il sofista, se persevera in modo conseguente nella sua pretesa fenomenologia del fugace e del relativo, si condanna al mutismo e si squalifica da solo. Ma che fare se preferisce continuare a parlare, sapendo di contraddirsi?

In tal caso Aristotele, diversamente da Platone, non può accontentarsi di ridurre la sofistica all’ombra della filosofia (un’ombra dannosa, perché ingannata e ingannatrice): deve elaborare una vera e propria strategia di esclusione.

Stavolta è nella dimostrazione dello stesso principio di non-contraddizione che risiede l’impossibilità di contravvenirvi. Questa dimostrazione è, infatti, una confutazione: essa parte da ciò che afferma l’avversario di quel principio, non foss’altro che per esprimere il suo rifiuto, e rende manifesta questa strabiliante conseguenza: che egli obbedisce al principio di non-contraddizione nel momento stesso in cui lo contesta. La sofistica è aristotelica nei suoi stessi termini: se parla, come fanno solitamente i sofisti, Protagora non può parlare che come Aristotele.

La molla vera e propria della confutazione consiste in una serie di equivalenze che, fin dall’istante in cui sono enunciate, sono evidenti di per sé, come la stessa ontologia: parlare significa dire qualcosa, qualcosa che ha un senso e uno solo, lo stesso per me e per gli altri. È sufficiente che io parli, perché il principio di non-contraddizione dimostri immediatamente la sua validità: è impossibile che la stessa parola abbia e non abbia contemporaneamente lo stesso senso.

È dunque sufficiente che io parli o «che l’avversario dica qualcosa», e Aristotele conclude l’argomento assicurando questa condizione necessaria e sufficiente nella definizione di uomo come «animale dotato di λόγος», che esclude a priori dell’umanità tutti coloro che non si prestano alla dimostrazione, perché un uomo siffatto è, in quanto tale, «simile a una pianta» (Metafisica, 1006a 14).

Coloro che rifiutano di sottoporsi alla dimostrazione ritornano a un livello precedente al linguaggio, e si riducono a uno stato di silenzio o di rumore, liberi di interessarsi a «quel che c’è nei suoni della voce e delle parole», come il parlare senza significato di un barbaro: al significante, nella misura in cui non significa nulla.

L’esistenza di senso, confusa in tal modo con l’aspirazione all’univocità, può allora diventare, soprattutto nelle Confutazioni sofistiche, una formidabile macchina da guerra contro l’omonimia (una sola parola usata per molteplici definizioni) e l’anfibolia (o omonimia nella sintassi, allorché una sola frase sia suscettibile di una pluralità di costruzioni). Ma il fatto è che Aristotele, molto più radicalmente, ponendo come equivalenti l’esistenza di non-contraddizione, l’esigenza di significato e l’aspirazione all’univocità, ha emarginato i refrattari e li ha relegati – come piante che parlano – agli estremi limiti non solo della filosofia, ma dell’umanità.

Se il sofista è l’altro del filosofo, se la filosofia lo estromette continuamente dal proprio campo di attività, è evidente allora che a sua volta il filosofo può definirsi come l’altro del sofista, un altro che la sofistica sospinge di continuo nei suoi trinceramenti. La filosofia è figlia dello stupore, e, come dice la prima frase della Metafisica,

«tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza».

Tuttavia, coloro che si pongono la questione di sapere se bisogna o meno onorare gli dèi e amare i propri genitori hanno bisogno solo di una buona correzione, e quelli che si domandano se la neve è bianca, non devono far altro che guardare (Topici, 105a 5-8).

Il sofista (Protagora a proposito degli dèi, Antifonte a proposito della famiglia, Gorgia a proposito di ciò che è) esagera: pone sempre una domanda di troppo, trae sempre una conseguenza di troppo. Questa insolenza (ὕβρις, l’eccesso senza vergogna, e ἀπαιδευσία, l’incultura dei maleducati, sono i due termini greci che caratterizzano la percezione filosofica del sofista) riesce a far andare la filosofia letteralmente fuori di sé, costringe l’amore per la saggezza a trasgredire i limiti che si è assegnato e a compiere dei gesti – come agitare il bastone – che non riflettono certamente la stessa indole degli altri suoi modi di procedere: la sofistica segna i limiti della filosofia.

In questa prospettiva, si comprende perché è interessante studiare le ripetute resurrezioni della sofistica, il modo in cui essa elude continuamente la censura filosofica, e in particolare il movimento che, in piena età imperiale, cinque secoli dopo Protagora e Gorgia, si autodefinisce come “Seconda Sofistica”. Diversa dalla filosofia, dalla metafisica di Platone e di Aristotele fino a quella di Hegel e di Heidegger, e tuttavia nulla di puramente e semplicemente irrazionale, la sofistica costituisce una sfida sempre attuale.

Se la filosofia vuol ridurre al silenzio la sofistica, è perché, inversamente, la sofistica fa della filosofia un prodotto del linguaggio.

Lo attesta in particolare un importante trattatello di Gorgia, siciliano nato a Lentini verso il 485 a.C., di cui possediamo due versioni: una ci è stata trasmessa da Sesto Empirico, Contro i logici, I.65-87, l’altra costituisce la terza parte di uno scritto dossografico anonimo, Su Melisso, Senofane e Gorgia (M.X.G.), tradizionalmente pubblicato all’interno del corpus aristotelico.

Del non-essere o della natura: il titolo del trattatello di Gorgia conservato dal Sesto è provocatorio.

È lo stesso titolo conferito agli scritti di quasi tutti i filosofi presocratici che composero un trattato Sulla natura. Ma ne è anche l’esatto rovesciamento, perché, come non si stancherà di sottolineare Heidegger, tutti quei fisici, o fisiologi (primo fra tutti Parmenide), chiamano φύσις, “natura”, ciò che cresce e viene così ad essere: l’ente. Il trattato di Gorgia, che sotto quest’aspetto è emblematico della sofistica, deve essere quindi inteso come un discorso secondo, che critica un discorso già tenuto da altri, e in particolare il poema di Parmenide, che contiene in potenza tutta l’ontologia.

«Nulla esiste. Se poi esiste, è inconoscibile» (o, nella versione di Sesto, «non è comprensibile all’uomo»). «Se poi anche esiste ed è conoscibile, non è però manifestabile agli altri», ovvero non può essere «formulato e spiegato al prossimo» (frr 3; 3a DK).

Dopo il titolo, è l’atto linguistico di Gorgia che per la sua stessa forma oppone una smentita allo sviluppo del poema. Al posto dell’auto-dispiegamento dell’«essere» nella sferica pienezza della sua identità presente e rappresentata, al posto della “natura” come progresso e cumulo identitario, il trattato presenta una struttura di regresso, che spende immediatamente la tesi principale e poi si assottiglia secondo le caratteristiche dell’antilogia, della difesa, del discorso ancora e sempre secondo.

Questa struttura viene magistralmente descritta da Freud nel Motto di spirito, che si richiama ai sofisti ed è spesso chiamato in causa dagli interpreti:

A ha preso in prestito da B un paiolo di rame, e quando glielo restituisce, B lamenta il fatto che il paiolo ha un grosso buco che lo rende inutilizzabile; A si difende dicendo: 1) non ha mai preso in prestito un paiolo da B; 2) quando l’ha preso in prestito, aveva già un buco; 3) ha restituito il paiolo intatto.

Ognuna delle tre tesi di Gorgia si presenta a turno come un rovesciamento ironico o grossolano di quel Parmenide scolastico che ognuno di noi, da Platone fino a oggi, ha dovuto imparare a memoria: anzitutto, che esiste l’essere, perché l’essere è e il non essere non è.

In secondo luogo, che questo essere è essenzialmente conoscibile, perché essere e pensare sono una sola e medesima cosa, ragion per cui la filosofia, e in particolare quella filosofia prima che si chiama “metafisica”, ha potuto imboccare in modo del tutto naturale la sua strada: conoscere l’essere in quanto essere, e convertirsi in dottrine, discepoli e scuole.

Essere, conoscere, trasmettere: non essere, non esser conoscibile, non essere trasmissibile. Con la sua prima tesi, tutta la strategia di Gorgia consiste nel farci capire che l’Essere, l’eroe parmenideo come Ulisse è l’eroe omerico, non è altro che l’effetto del poema.

Seguendo il modo in cui all’inizio (Parmenide, fr. 2) «la via di ricerca»È – basta a secernere, attraverso una serie di infiniti e participi, il soggetto pieno, ormai identificato in virtù dell’articolo – l’ente – , il sofista anatomizza il modo in cui la sintassi crea la semantica. Questa lettura è sufficiente a rovesciare la dimostrazione del poema, perché il non essere viene a essere inserito nella frase altrettanto bene dell’essere.

Lo Straniero di Platone riprenderà questo argomento, tipicamente wittgensteiniano: Parmenide avrebbe fatto meglio a non parlare del non-essere, a non pronunciare quella parola, a non pensarla neppure, perché, a meno di compiere la disumana impresa di emettere i suoni come una campana che risuona, il linguaggio ci impone i suoi diritti, e chi dice οὐκ ἐστί (“non è”) arriva a dire τὰ μή ὄντα (“i non-enti”) ancora prima di rendersene conto, trascinato dalla forza della sintassi della lingua che parla (Sofista, 237a-239b). Gorgia lo esplicita con chiarezza:

Se il non-essere consiste nel non-esistere, il non-essere per nulla sarà meno dell’essere; perché il non-essere è non-essere, e l’essere è essere, sicché il fatto che le cose non siano non vale meno del fatto che esse siano. fr. 3a DK

Come osserverà Hegel nella Scienza della logica, coloro che insistono sulla differenza fra l’essere e il nulla farebbero bene a dirci in che cosa essa consiste. Ma Gorgia mostra anche qualcosa di più, in una maniera che stavolta conduce, più che ad Aristotele, a Kant e a Benveniste: il non-essere si colloca nella frase non solo come l’essere, ma meglio di questo, cioè in modo meno “sofistico”, perché lascia di fatto meno spazio all’equivoco fra copula ed esistenza.

Infatti, quando si dice “l’essere è essere”, i due sensi del verbo si confermano a vicenda e rischiano di confondersi; al contrario, la proposizione di identità applicata al nome essere (“il non-essere è non-essere”) non invita a concludere, se non in caso di errore o malafede, che il non-essere esiste, ma a distinguere fra i diversi sensi di “è”: l’ontologo è, del tutto naturalmente più sofista del sofista.

Nel secondo postulato del poema – «essere, pensare: la stessa cosa», per riprendere la traduzione paratattica dell’assai controverso frammento 3 proposta da Heidegger – la verità come disvelamento e poi come adeguamento trova il suo punto di ancoraggio: la catastrofe è perfetta. Basta, infatti, che io pensi qualcosa, e a maggior ragione che io lo dica, perché quella cosa, per ciò stesso, sia: se io dico «dei carri lottano in mare aperto», allora dei carri lottano in mare aperto.

Questa serie di capovolgimenti non appartiene al virtuosismo retorico, e quindi esteriore, ma alla catastrofe nel senso etimologico del termine: è una critica radicale interna all’ontologia. Se è impossibile dire ciò che non è, allora tutto quel che si dice è vero. Non c’è posto per il non-essere, come non c’è posto per l’errore o la menzogna: è l’ontologia di Parmenide ed essa soltanto, presa alla lettera e spinta fino al limite estremo, che garantisce l’infallibilità e l’efficacia del discorso, che per ciò stesso è sofistico.

Dunque il procedimento di Gorgia (trattato contro poema) consiste semplicemente nell’attirare l’attenzione, non senza insolenza, su tutte le manovre, comprese quelle del linguaggio e della discorsività, che consentono di instaurare il rapporto di disvelamento fra l’essere e il dire. L’effetto di limite o di catastrofe così ottenuto consiste nel mostrare che, se il testo dell’ontologia è rigoroso, cioè se non rappresenta un’eccezione rispetto alle regole da esso stesso instaurate, allora costituisce un capolavoro sofistico.

Al posto dell’ontologia, che è soltanto una possibilità discorsiva fra molte altre e che si autolegittima in modo puro e semplice, il sofista propone con le sue “esibizioni” (la parola ἐπιδείξεις designa già nei dialoghi di Platone le conferenze e i discorsi tipici dello stile sofistico) qualcosa che potrebbe essere definito “logologia”, per riprendere un termine arrischiato da Novalis, nella quale l’essere, per ciò che esso è, viene anzitutto prodotto ed esibito dal discorso.

Isocrate

Lo si verifica agevolmente nell’Encomio di Elena, che servirà per sempre da modello per quel genere retorico per eccellenza che è il genere epidittico (ritorna nuovamente la parola ἐπιδείξεις, ma questa volta, nella terminologia retorica di Isocrate e soprattutto di Aristotele, nel senso più codificato di “encomio”).

Anziché presentarci adeguatamente Elena di Troia, quella «faccia di cagna» che, due volte traditrice (della sua prima e della sua seconda patria), mise la Grecia a ferro e fuoco nella realtà della guerra e dei poemi omerici, Gorgia fabbrica un’Elena del tutto innocente che lo renderà celebre e che durerà a lungo nel tempo (da Euripide, Isocrate e Dione Crisostomo, fino a Offenbach, Claudel e Giraudoux).

Egli prende in considerazione, uno dopo l’altro, quattro casi: Elena è innocente,

1. se «fece quel che fece» per «cieca volontà del caso», per volontà degli dèi e per i decreti della Necessità («la Fatalità», come dirà nella Belle Hélène di Offenbach);

2. ed è innocente per una seconda ragione, se, debole donna di fronte alla forza virile, «per forza fu rapita» (fr. 11, 6-7).

3. Ma Gorgia aggiunge che essa è innocente se, terza ipotesi, fu persuasa con le parole,

4. o se, quarto caso, era semplicemente innamorata. Come può la sua colpa – essersi lasciata sedurre – renderla innocente? Semplicemente perché Elena non può impedire a se stessa di avere occhi e orecchie, e come i suoi occhi videro il bel corpo di Paride, le sue orecchie ne ascoltarono i discorsi; ora,

«la parola è un gran dominatore (λόγος δυνάστης μέγας ἐστί), che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce, infatti, e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà» (fr. 11, 8).

Gorgia analizza allora gli effetti della tirannia del discorso nelle sue diverse sfere così come le sue cause profonde, ancorate nella dimensione temporale dell’uomo. In questa prospettiva, l’innocenza di Elena deriva in fin dei conti dalla potenza stessa del λόγος: sedotta dalle parole di Paride, ella non è colpevole, perché le parole sono veramente irresistibili, e l’encomio di Elena diventa così un encomio del λόγος, un encomio dell’encomio.

Gorgia lo presenta come un gioco («il mio gioco», come dicono crudamente le ultime parole dell’Encomio di Elena): si tratta insomma di un’esibizione, al tempo stesso codificata e creativa, con la quale l’oratore può rafforzare il consenso ma anche fabbricarlo.

«Facendo appello all’opinione», partendo da alcune banalità, da alcuni luoghi comuni (tutti dicono «a una sola voce e con un solo cuore» che Elena è la più colpevole delle donne), egli gioca con il λόγος per farli esistere altrimenti, per renderli altri da quello che sono e produrne altri («in ogni caso è esente da colpa»: Elena è da lodare). Altrimenti detto, c’è un momento in ogni encomio nel quale il linguaggio prende il sopravvento sull’oggetto e diventa produttore di oggetti, un momento nel quale la descrizione, il luogo comune si aprono. È il momento della creazione e, fra l’altro, della creazione dei valori: il momento della convergenza retorica fra la critica dell’ontologia e l’istituzione della politicità.

un gioco che produce il mondo

Se l’essere è un effetto del dire, l’immediatezza della natura e l’evidenza di una parola che ha il compito di esprimerla adeguatamente svaniscono insieme: la fisicità che la parola rivela lascia il posto alla politicità creata dal discorso. Si raggiunge così grazie ai sofisti la dimensione della politicità, e la città appare come la creazione continua del linguaggio. La sofistica, se è un gioco, è un gioco che produce il mondo, come il gioco del fanciullo eracliteo.

Op. cit. B. Cassin, Sofistica, in AA.VV., Il sapere greco. Volume II. 2007. Piccola Biblioteca Einaudi Ns.

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