BES: vestire di inclusione una politica che giustifica l’esclusione

by gabriella

scuola in declinoCon la direttiva 17.12.2012 sui Bisogni Educativi Speciali, il MIUR ha richiamato l’attenzione su quella parte rilevante del disagio scolastico non legata a deficit cognitivo o a disturbi d’apprendimento (DSA) certificati. Gli studenti con bisogni educativi speciali sono, infatti, bambini e ragazzi, in condizioni di difficoltà (linguistica, psicologica o sociale) non includibili nelle prime due voci.

Un documento dell’Università di Bologna, evidenzia gli anacronismi (l’Unesco ha raccomandato già dal 2000 di sostituire l’espressione Bisogni Educativi Speciali con Educazione per tutti e non si tratta di un problema nominalistico), le arretratezze (il paradigma biomedico a cui i BES fanno riferimento attribuisce tutte le difficoltà d’apprendimento all’individuo, mentre il modello relazionale o “comunicativo”, decisamente più aggiornato, le interpreta come il prodotto dell’interazione tra l’individuo e il suo contesto), ed infine l’ipocrisia di una direttiva che invita la scuola a farsi carico della complessità educativa e sociale, senza specifico supporto economico, organizzativo, formativo: non sono infatti previste risorse per gli strumenti didattici, il numero di alunni per classe resta di 27/35, né si prevede l’assegnazione di insegnanti di sostegno o di formazione per gli insegnanti.

In questo contesto, la direttiva 2012 sui BES può ben essere definita, come osserva Ivana Prete nell’ultimo intervento, come uno strumento che «vela di inclusione una politica che giustifica l’esclusione» per quanto, paradossalmente, in quel teatro dell’assurdo che è ormai la scuola, capita persino di doverlo difendere.

Riflessioni sui recenti documenti ministeriali riguardanti i BES (Gruppo congiunto Supervisori/tutor del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria con Roberta Caldin e Patrizia Sandri) – Università di Bologna – Dipartimento di Scienze dell’Educazione Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione.

Roberta Caldin

Premessa
Il paradigma bio-medico, di cui la stessa I.C.F. del 2001 palesa ampiamente i limiti, si basa su una teoria che attribuisce il deficit all’individuo, mentre il modello sociale interpreta la disabilità e/o il disturbo come prodotto di un’interazione tra la persona e il contesto in cui vive. Secondo questa prospettiva, la proposta dell’Index for inclusion [Booth e Ainscow, 2008] è radicale e si indirizza al superamento del concetto di bisogni educativi speciali, in quanto questi ultimi si inseriscono in un quadro di riferimento che continua a considerare la disabilità come problema del singolo, e propone di sostituirlo con quello di ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione.

La caratteristica della disabilità non è attribuita all’individuo, ma alle situazioni che risultano maggiormente adatte per alcuni e non per altri individui, all’interno di un aprioristico e rassicurante criterio di normalità [Booth T. e Ainscow M., Index for inclusion: developing learning and partecipation in schools, CSIE, Bristol, 2002; trad. it. Dovigo F. e Ianes D. (a cura di), L’index per l’inclusione. Promuovere l’apprendimento e la partecipazione nella scuola, Erickson, Trento, 2008].

Già all’inizio del 2000, attraverso la pubblicazione di vari documenti e dichiarazioni internazionali, l’UNESCO raccomandava di sostituire la dizione Bisogni Educativi Speciali con Educazione per tutti (Education for all); l’espressione “alunni con bisogni educativi speciali” era comparsa la prima volta nel Rapporto Warnock in Inghilterra, nel 1978 (Warnock Committee, 1978), per abolire il termine “handicap” e per sottolineare la necessità che il sistema educativo fosse modificato, riconoscendo il bisogno di un rinnovamento in ambito pedagogico. Il tema è estremamente complesso e potenzialmente foriero di nuovi ambiti di ricerca; in Italia, non permette di intravedere soluzioni facili e immediate a problemi quali la certificazione del deficit, l’organizzazione dei sostegni scolastici ed educativi, la tutela di minori in situazioni sociali svantaggiate e cosi via.

Riguardo al tema attualità/inattualità del costrutto di bisogni educativi speciali e/o del suo superamento attraverso l’espressione ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione (proposto dall’Index per l’inclusione), possiamo sinteticamente dire di intravedere i prodromi di un’opposizione correlativa (piuttosto che di una contraddizione) nella scelta di un primo livello di sensibilizzazione culturale, nel quale gli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione mobilitano concettualmente una comunità, la impegnano coresponsabilmente ad essere lungimirante nella prevedibilità delle conseguenze derivanti dall’ecologia dell’azione; nel contempo, una corretta individuazione diagnostica medico-sociale e una lettura olistica della disabilità, che contempli anche l’intervento educativo, richiede, secondo noi, la chiarezza del costrutto di bisogno educativo speciale, privato, però, di ogni esasperazione tecnicistica, molto in voga oggi.

Il senso della transizione culturale dalla pedagogia dell’integrazione alla buona pedagogia inclusiva (Good pedagogy- Inclusive pedagogy- l’espressione è inserita nel documento UNESCO-Section for Special Needs Education, Inclusive Education and Education for All. A challenge and a vision, Unesco, Paris, 2000, p. 14), avvenuta nei dibattiti internazionali, si può identificare nel principio di un radicale allargamento all’insieme delle popolazioni scolastiche nella loro diversità; l’inclusione concernerebbe, pertanto, tutte le differenze culturali, sociali, linguistiche, razziali, di genere, mentali e fisiche.

L’inclusione richiede un’azione di sistema, una buona prassi intesa come azione politica – non solo come esperienza positiva – che possa cambiare l’organizzazione del contesto: tale approccio rinforza una Weltanschauung sulla prospettiva inclusiva legata al tema dei diritti umani e a quello della giustizia, riallacciandosi al pensiero di quanti, in Italia e nel mondo, interpretano la prospettiva inclusiva come proposta sociale ampia, da realizzare in tutti i contesti dell’esistenza, garante dell’ambiente e dell’ecosistema globale, volta al cambiamento.

L’approccio ai diritti umani ha come corollario la modularità della risposta ai bisogni la cui soddisfazione determina l’effettivo godimento del diritto. Così pensati, i diritti non rientrano nell’esclusiva responsabilità statale, ma divengono di responsabilità comune e differenziata di molteplici attori (Stato, ONG, media, imprese, scuola, famiglie, comunità, individui) che possono agire corresponsabilmente e avere un impatto determinante sulla riuscita degli obiettivi. Un approccio basato sui diritti, anziché sul bisogno (speciale e non) correla esplicitamente alla realizzazione di ciascun diritto del bambino una responsabilità comune differenziata, a carico di molteplici soggetti, istituzionali e non istituzionali, che obbliga a lavorare in rete, in modo integrato.

Non dimentichiamo che la maggior parte dei bisogni di un bambino disabile riguarda quelli di qualunque altro bambino: crescere, imparare, essere amato dalla famiglia e dalla comunità, giocare e stare con altri coetanei dipendono dal bambino disabile stesso, dalla sua famiglia, dal contesto di appartenenza. Nella prospettiva dei diritti umani,

ogni bambino ha gli stessi diritti, ma ogni bambino, non solo quello disabile, ha bisogni diversi, in relazione alle proprie abilità, al luogo dove è nato, alla situazione politica, economica, sociale, culturale dove vive. I bisogni dei bambini disabili “non sono speciali”, sono specifici della sua persona e vanno valutati caso per caso nell’ottica della realizzazione del suo superiore interesse [Carazzone C., Il bambino disabile come persona soggetto di diritti: cambiare prospettiva, in Fondazione Paideia-Cepim Torino, Nascere bene per crescere meglio. Esperienze e percorsi nella comunicazione della disabilità, Torino, 2006, pp. 30].

Le stesse politiche sociali che ne derivano devono situarsi oltre la compensazione degli svantaggi effettuata attraverso l’offerta di beni e servizi, ampliando e garantendo le capacità/facoltà di scelta individuali e collettive (capabilities, si veda Sen A.K., Development as freedom, Knopf, New York, 1999; Sen A., Justice and human disabilities, Laurea Honoris Causa dell’Università di Pavia, 17 giugno 2005) che non concernono solamente i bisogni (primari e non) come alimentarsi, curarsi, istruirsi, ma anche le libertà, i diritti fondamentali correlati a tutte le dimensioni della vita umana. In considerazione di quanto suddetto, indico alcuni interrogativi sui quali si potrebbe discutere, anche a partire dal documento di Dario Ianes:

parlare ancora di BES, senza tenere in nessun conto le indicazioni dell’Unesco che invitano a superare tale costrutto, non è anacronistico o, per lo meno, curioso?
– Rilevare sempre il bisogno individuale, piuttosto che l’impegno del contesto ad essere facilitante, non vanifica l’intera filosofia dell’ICF, ICF-CY, Convenzione sui diritti delle persone disabili?
Continuare a focalizzarsi sui bisogni speciali piuttosto che su quelli ordinari e sui diritti (comuni, di uguaglianza e di cittadinanza), non rischia di inficiare l’approccio emancipativo e partecipativo alle/delle persone disabili e il loro stesso protagonismo?
– in una prospettiva filosofica e antropologica, la dimensione dei bisogni educativi speciali (così come quella dell’originalità e dell’unicità di ciascuno) non potrebbe configurarsi come dimensione trasversale ed esistenziale ampia?

Gruppo dei Supervisori della scuola dell’infanzia: Barbara Darolt, Nicoletta Calzolari, Lorella Quartieri, Maddalena Spisni, Loretta Veterani, Astrid Valeck

Durante la lettura dei recenti documenti ministeriali decreto abbiamo evidenziato la presenza di alcuni elementi che possiamo definire luci e di altri che, a nostro avviso, rappresentano delle ombre. Da qui un breve elenco costituito da titoli che potrebbero essere tradotti in capitoli.

Per luci intendiamo quegli aspetti che leggiamo come possibilità per un cambiamento costruttivo:

– il riconoscimento della complessità della utenza scolastica, e la decertificazione che offre libera espressione individuale;
– la presa in carico di tutti i bambini e la professionalizzazione di tutti i docenti;
– la valorizzazione della didattica inclusiva rispetto alla didattica speciale.

Queste luci riflettono l’idea di insegnante professionista che adotta, come principio del suo lavoro, la sfida di progettare percorsi didattici che accolgano tutte le differenze nell’ottica che, come scritto da don Lorenzo Milani in Lettera a una professoressa, “Non c’è nulla che sia più ingiusto che far le parti uguali tra disuguali”. L’esperienza ci insegna che ogni alunno predilige alcuni canali comunicativi, e che le potenzialità di ognuno trovano espressione nel piccolo o nel grande gruppo dove la mediazione del/la compagno/a (peertutoring) e dell’adulto ne permettono lo sviluppo.

Per ombre intendiamo quegli aspetti che emergono come fragilità e assumono la forma di rischi e di quesiti che ci fanno interrogare sull’effettiva validità della circolare in oggetto:

il riconoscimento dell’eterogeneità e complessità degli alunni in una prospettiva bio-psico-sociale (I.C.F.) è sottolineato senza lo specifico supporto economico, organizzativo, formativo (non sono previsti fondi; il numero di alunni per classe/sezione non prevede contenimento/riduzione, non si prevede l’assegnazione di insegnanti di sostegno; c’è la necessità di una formazione per gli insegnanti sia in fase iniziale sia in itinere nel corso della carriera scolastica);
– il modello inclusivo della scuola italiana è davvero mosso e sostenuto da un’idea culturale centrata sull’inclusione, ma ancora prima su un’idea di uomo libero di esprimersi e di incontrare l’altro diverso da sé senza averne paura?
– le aspettative delle famiglie centrate sulla missione salvifica degli insegnanti sono un peso e un modello di dialogo difficile da sostenere e gestire;
– nei BES entra tutto quello che sfugge al controllo delle certificazioni, progettazioni ecc.: ciò è un rischio o un vantaggio?

Le proposte che seguono tengono conto dell’alto valore – umano e culturale – da noi assegnato al termine inclusione, in un’ottica di ordinaria normalità. Affinchè ogni insegnante curricolare, in ogni sezione (con bambini certificati o meno, con bambini provenienti da altre Terre o meno …), possa prestare la dovuta attenzione e ascolto ad ogni bambino a lui assegnato, occorrerebbe:

che ogni sezione non superasse il tetto massimo di 22 bambini (attualmente, a causa delle varie circolari emesse un anno dopo l’altro, si può arrivare a 30 nella scuola statale);
che ogni volta che un insegnante è assente (malattia, permesso ecc.) questo sia sempre sostituito con un supplente (attualmente, nella maggior parte delle scuola ciò non avviene, l’insegnante che è di turno la mattina si trova sempre da solo, di fatto impedendo ogni tipo di didattica laboratoriale o in piccolo gruppo e durante le ore pomeridiane i bambini presenti a scuola vengono distribuiti sulle sezioni al completo di organico, in una sorta di “gioco dei pacchi”);
– un collaboratore/operatore scolastico assegnato ad ogni sezione. Fino a un po’ di anni fa non solo ciò era la norma, ma vi era pure la figura dell’assistente. Per cui c’erano 4 persone per ogni sezione (funzionante a tempo pieno), senza considerare le realtà con l’insegnante di sostegno. Attualmente, vi sono due collaboratori scolastici per scuola, non vi è più alcun aiuto nelle sezioni e il loro ruolo ha perduto quella valenza di cura e di educazione assumendo quello esclusivo di pulizia dei locali;
– ripensare al ruolo dei Dirigenti assegnando o ri-assegnando loro quel meraviglioso compito di sostegno pedagogico di cui sono stati defraudati. Non sarebbe male ipotizzare figure di sistema con compiti pedagogici posti tra il Dirigente e gli insegnanti. Si pensa ad insegnanti statali con preparazione idonea, insegnanti esperti e colti.

Albina Edgarda Ardizzoni

La direttiva pone al centro dell’interesse, dell’attenzione e dello studio la questione, peraltro complessa, degli studenti con Bisogni educativi speciali, indicando e declinando linee e indirizzi organizzativi e pedagogici per scuole e istituti scolastici. Questo è ciò che appare ad una prima lettura. E’ importante però indagare e leggere tra le righe alla ricerca di quella sostanza e di quel senso che il legislatore ha voluto assegnare alla direttiva. Direttiva, appunto e non legge.

A ben guardare la scuola ne esce sconfitta, mentre, all’apparenza, dall’alto piove un appoggio e un supporto per i docenti e i dirigenti, nel loro cammino di accompagnamento degli studenti, che li porta ad un miraggio di equità e inclusione. In realtà, la direttiva aggiunge un’ ulteriore destrutturazione ed una delegittimazione alla scuola nei suoi aspetti peculiari di formazione, educazione, stabilendo a priori e all’esterno della scuola stessa gli incipit stessi di formazione, ricerca e autoformazione in una prospettiva di lifelong learning.

I veloci cambiamenti che stanno caratterizzando l’Europa, le trasformazioni tecnologiche, le incertezze economiche, sono variabili che debbono essere affrontate nel contesto di una strategia complessiva, dove il compito precipuo spetta al sostegno fornito dalle attività di istruzione e formazione. Alla scuola viene affidato infatti, così come sancito nella Risoluzione del Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea del novembre 2003, il compito di trasformarsi in un

“ambiente di apprendimento aperto, capace di assumere un ruolo propositivo rispetto alle sollecitazioni che provengono dal mondo dei giovani e degli altri contesti che contribuiscono alla loro crescita personale e sociale”.

La direttiva, sottrae, in pratica, questo compito alla scuola, legittimando fonti e luoghi di formazioni esterne. Basti prendere, ad esempio, l’opportunità, solo per alcuni, di accedere ad enti privati per la certificazione e/o l’individuazione di varie disabilità, disagi e quant’altro possa andare a definire uno stato di fragilità sempre più in crescita in campo educativo, con il conseguente accesso ad aree private di recupero e supporto, sia per quanto attiene la sfera neuropsicologica, sia la sfera didattica. La scuola entra così sempre più in un sistema farraginoso che burocratizza ulteriormente le pratiche educative, sottraendo ai docenti il loro ruolo di educatori professionisti. In ultima analisi, incontrando quotidianamente gli studenti che frequentano il Corso Aggiuntivo per le attività di Sostegno, ritengo doveroso sottolineare la situazione degli studenti all’interno del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria. Quello che gli studenti vivono all’Università si manifesta in una pratica-teorica che fonda le sue radici in una Pedagogia istituzionale permeata dal carattere inclusivo, costituente la matrice epistemologica e storica della ex-Facoltà stessa. Essi entrano poi, in punta di piedi, in una scuola, sempre più destabilizzata e destabilizzante, con una sempre più evidente fragilità diffusa, dovuta in primo luogo ad una latente formazione in itinere, nonché a mancate azioni di ricerca-azione, accompagnate dalla pratica riflessiva.

I nostri studenti notano e sottolineano continuamente questa mancanza che la direttiva incentiva, assegnando alla scuola un ruolo puramente di servizio. Passa nel dimenticatoio, trattandosi di mero servizio, l’importanza di una pratica diffusa e condivisa, lasciata, per decenni e oggi più che mai, a un volontariato messo in discussione proprio dagli stessi docenti che non ri-conoscono e ai quali non viene ri-conosciuta la loro professionalità in cammino, mattone su mattone, conducendo il sistema ad una incessante dequalificazione della gestione del quotidiano, fondamento e partenza per progettare percorsi inclusivi per tutti.

Erika Caramalli

• Nella Direttiva del 17/12/2012 vengono posti sullo stesso “piano d’intervento” alunni con Deficit da disturbo dell’attenzione e dell’iperattività (DDAI) e alunni stranieri.
• Dalla Direttiva si intuisce una decertificazione dei DDAI che è funzionale ad un ulteriore risparmio sulla scuola, in particolare sugli organici di sostegno, ma consente anche di bypassare il tetto di alunni per classe in presenza di una certificazione. In questi anni hanno già trascurato spesso e volentieri il limite massimo di 20 alunni per classe in presenza di certificazioni: in questo modo, riducendo la casistica di alunni certificabili, ottengono, di riflesso, la legittimità nel mantenere le classi con un numero massimo se non superiore di affollamento.
• Di fatto, la Direttiva sancisce una deresponsabilizzazione delle Istituzioni, rendendo come unico responsabile dell’azione educativa e formativa la scuola che deve individuare i “casi” per poi agire facendosene carico da tutti i punti di vista. La decertificazione impedisce anche alle scuole di accedere al supporto fornito dalle ASL che, seppur depauperate anch’esse in questi anni, hanno comunque continuato a garantire un “minimo di servizi”. Non si potrà più neppure contare sui contributi dei Comuni che, spesso, in presenza di diagnosi di DDAI intervenivano con l’inserimento di personale educativo.
• L’aspetto più sconfortante è che, da qualche anno a questa parte, chiunque ragioni di scuola ormai raramente ricorda che la scuola comporta percorsi educativi e formativi che prevedono tempi dell’apprendimento che non si esauriscono in uno o pochi anni ma che coinvolgono l’individuo sin dopo l’adolescenza, ovvero per tutta la vita. Pertanto, quando prevedono politiche scolastiche ragionate sul “risparmio sui bambini” trascurano la ricaduta sociale nei tempi lunghi dimostrando una totale miopia rispetto alle problematiche sociali che comporteranno gli attuali risparmi e tagli: non si ragiona più su strategie nel lungo periodo ma solo sui risparmi immediati.
Una scuola depauperata consegna ai nostri ragazzi un futuro già in partenza fondato sulle diseguaglianze e che non risponde ai dettami Costituzionali di garantire a tutti i Cittadini uguaglianza e pari accesso al sapere e alla “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
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“[…] è opportuno assumere un approccio decisamente educativo, per il quale l’identificazione degli alunni con disabilità non avviene sulla base della eventuale certificazione, che certamente mantiene utilità per una serie di benefici e di garanzie, ma allo stesso tempo rischia di chiuderli in una cornice ristretta.” Direttiva 17/12/2012, Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica, Premessa, p. 1

“Vi sono comprese tre grandi sotto-categorie: quella della disabilità; quella dei disturbi evolutivi specifici e quella dello svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale. Per “disturbi evolutivi specifici” intendiamo, oltre i disturbi specifici dell’apprendimento, anche i deficit del linguaggio, delle abilità non verbali, della coordinazione motoria, ricomprendendo – per la comune origine nell’età evolutiva – anche quelli dell’attenzione e dell’iperattività, mentre il funzionamento intellettivo limite può essere considerato un caso di confine fra la disabilità e il disturbo specifico.” Direttiva 17/12/2012 …., p. 2

“Un discorso particolare si deve fare a proposito di alunni e studenti con problemi di controllo attentivo e/o dell’attività, spesso definiti con l’acronimo A.D.H.D. (Attention Deficit Hyperactivity Disorder), corrispondente all’acronimo che si usava per l’Italiano di D.D.A.I. – Deficit da disturbo dell’attenzione e dell’iperattività. […] In alcuni casi il quadro clinico particolarmente grave – anche per la comorbilità con altre patologie – richiede l’assegnazione dell’insegnante di
sostegno, come previsto dalla legge 104/92. Tuttavia, vi sono moltissimi ragazzi con ADHD che, in ragione della minor gravità del disturbo, non ottengono la certificazione di disabilità, ma hanno pari diritto a veder tutelato il loro successo formativo. Direttiva 17/12/2012 … p. 3

Alga Franciosi

Un elemento di criticitá in questo documento é da ravvisarsi nel sistema in cui esso va ad inserirsi. Ci sono diversi attori che dovrebbero collaborare: la scuola, con tutta la sua articolazione di organismi di decisione: consigli di classe, Glh (vedo assente la figura del dirigente scolastico relegata ad una funzione amministrativa dei CTS); le Asl, che, in verità, sono richiamate nella circolare 8 solo come dispensatrici in ritardo di certificazioni per DSA e che possono essere sostituite con quelle rilasciate più velocemente da privati; i CTS, una nuova articolazione dei servizi del MIUR.

Il rischio molto grosso, in questo momento, è che il tutto si risolva in un puro passaggio di carte, in un ricorso indiscriminato a privati certificatori di una qualche mancanza dell’alunno. Al massimo, si ravvede l’opportunitá di acquisire strumenti tecnologici compensativi, il resto rimane sulle spalle degli insegnanti senza supporti formativi o di riduzione del numero di alunni per classe.

Ivana Prete

Un’analisi del testo della Circolare MIUR n°8 del 6/3/2013, mi porta complessivamente a rilevare alcune profonde contraddizioni e a delineare alcuni elementi di rischio. Concordando con quanto emerso anche durante il nostro comune confronto, mi preme evidenziare quanto segue:

Il documento, nel descrivere i soggetti a cui si riferisce, assimila casistiche molto differenti nella definizione “BES”, con un particolare ampio spazio dedicato agli alunni afferenti alla c.d. “Area dello svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale”. A questo proposito, sembra che rientri nella categoria tutto ciò che sia un po’ anomalo, ciò che sia divergente da una normalità presunta. Mi domando: ma la “varietà” all’interno di una classe, non è da sempre stato un elemento connotativo del fare scuola? Non fa parte della professionalità docente gestire la complessità del sistema classe? Precisazioni e strutturazioni in merito ad interventi come indicato, possono essere davvero a favore o sono a detrimento dell’azione didattica e del potere decisionale dell’insegnante? E ancora: si vuole con questa categorizzazione inquadrare (un po’ forzatamente, ma non certo velatamente) il gruppo di alunni di “altra” provenienza?

La“direttiva” tende a sottolineare, anche con tono perentorio, che bisogna agire in situazioni di particolare ‘disturbo’ (anche transitorio) in cui possono venire a trovarsi gli alunni, facendo ricorso ad interventi personalizzati e individualizzati tempestivi (pur senza che sia debitamente considerata la disponibilità di risorse all’interno degli attuali sistemi scolastici). In questi casi, si parla di dispensa da compiti o di interventi di compensazione che mi pare richiamino ad un’organizzazione che poco ha a che vedere con il fornire quelle adeguate opportunità, a cui fa riferimento la “pedagogia attiva”: ai bambini stessi è particolarmente facile riconoscere gli interventi differenziati da quelli differenzianti che portano con sé il rischio di discriminazione. Interessante anche il termine con cui si definisce la situazione di svantaggio degli alunni! (“In tal caso si avrà cura di monitorare l’efficacia degli interventi affinché siano messi in atto per il tempo strettamente necessario. Pertanto, a differenza delle situazioni di disturbo documentate da diagnosi, le misure dispensative, nei casi sopra richiamati, avranno carattere transitorio e attinente aspetti didattici, privilegiando dunque le strategie educative e didattiche attraverso percorsi personalizzati, più che strumenti compensativi e misure dispensative” – p. 3)

I percorsi di attestazione e certificazione di bisogni speciali, di diagnosi funzionale e di disagi particolari sembrano connotare il panorama scolastico, più di quanto sia invece lasciato spazio a livello di ricerca sulla didattica e sulla sperimentazione. Per non parlare, poi, dell’attività praticamente scomparsa dagli scenari della scuola di aggiornamento e formazione professionale in servizio. Dato che queste pratiche, seppur possibili, non sembrano essere ritenute altrettanto urgenti (in assenza di alcuna regolamentazione in merito), non si capisce come ci si possa appellare alle “fondate considerazioni psicopedagogiche e didattiche”. La complessità sociale, rispecchiabile negli odierni contesti scolastici, non può prescindere da un’adeguata formazione del personale insegnante: questa non sembra MAI divenire una priorità del sistema scuola.

Mi sembra molto rivelatore un particolare indizio relativo al suggerimento che la direttiva fornisce in merito alla dispensa dalla “lettura ad alta voce e scrittura veloce sotto dettatura”: in una pratica professionale dove i docenti, assieme agli alunni, siano protagonisti, non sarebbero previste attività di questo tipo, a prescindere. Ritengo queste righe quasi lesive della dignità professionale dei docenti e, comunque, un esempio indicativo della concezione del ‘fare scuola’ alla quale il documento si riferisce.

La complessità del livello di gestione della classe e dell’efficacia della didattica, considerata l’autonomia che spetterebbe di diritto alle Istituzioni Scolastiche, potrebbe risolversi con interventi strutturati e condivisi da un team di professionisti, piuttosto che da direttive aventi, come a me pare, il tono dell’intimidazione più che quello del suggerimento di una strategia di intervento innovativa e risolutiva rivolta all’inclusione. (“Per perseguire tale politica per l’inclusione, la Direttiva fornisce indicazioni alle istituzioni scolastiche, che dovrebbero esplicitarsi, a livello di singole scuole, in alcune azioni strategiche di seguito sintetizzate…” – p. 4)

In generale, sostanzialmente, mi sembra che si rischi di “velare di inclusione una politica che giustifica l’esclusione”. Ritengo che gli elementi di rischio debbano sempre essere considerati per porsi in termini di responsabilità e consapevolezza nei riguardi dell’agire professionale: non considerare i rischi, significa, a
mio avviso, cadere nella trappola dell’ovvietà; al contrario, essere attenti ai possibili inconvenienti, significa ricercare la coerenza tra la pratica didattica e i principi di riconosciuta rilevanza pedagogica ed educativa.

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