Traggo dal blog Voci dall’estero, questo utile articolo ispirato al libro di Francesco Carlucci, L’Italia in ristagno, Milano, Angeli, 2008.
Il Serpentone
Nel 1973 l’Italia aderì al primo tentativo fatto in Europa di integrazione monetaria denominato “serpente monetario”, dove i paesi aderenti si impegnavano a mantenere le proprie valute ancorate al marco entro una banda di oscillazione, e insieme fluttuare nei confronti del dollaro. Le autorità di governo allora si accorsero abbastanza presto che la creazione di un sistema di cambi fissi tra economie non perfettamente integrate può fortemente danneggiare alcune delle economie avvantaggiandone altre, e che l’Italia non era in grado di migliorare nel breve periodo le debolezze strutturali della sua economia per adeguarne la competitività a quella dei partners più forti, quindi per evitare di mandare il paese in stagnazione, decisero velocemente di uscire dal serpente.
Le Svalutazioni Competitive
Dopo l’uscita dal serpente, però, le autorità omisero di affrontare i problemi strutturali dell’economia Italiana (produzioni poco tecnologicamente avanzate che subiscono la concorrenza dei paesi emergenti, scarsa ricerca scientifica, squilibri territoriali e distributivi, costi della buorocrazia, e così via dicendo) che la rendevano e la rendono tuttora poco competitiva rispetto agli altri paesi industrializzati, scegliendo la cosidetta “terapia della svalutazione”, ossia ricorrendo ripetutamente a svalutazioni della lira per ottenere una competitività di prezzo. In pochi anni (dal ’73 al ’79) la lira si deprezzò di oltre il 40% nei confronti del dollaro e di oltre il 100% nei confronti del marco Tedesco.
Nel contempo, l’economia Italiana cresceva di circa il 5% all’anno, con un’inflazione annua media del 15%. L’inflazione aumentò anche in seguito all’aumento drastico del prezzo del petrolio, e alla spirale prezzi salari favorita dal meccanismo della scala mobile, ma è vero anche che la forte svalutazione della lira comportava una certa dose di inflazione importata. Si venne a creare così un circolo vizioso svalutazione/inflazione, nel quale la svalutazione della lira faceva aumentare l’inflazione interna a causa del maggior costo del petrolio, e l’inflazione deteriorava di nuovo la situazione della competitività, cosicché le autorità di governo deprezzavano ulteriormente la valuta Italiana.
La Politica del Cambio Forte
Al fine di spezzare il circolo vizioso svalutazione/inflazione, nel 1979 l’Italia aderì al Sistema Monetario Europeo (Sme), il secondo tentativo di creare una zona di stabilità dei cambi nel continente Europeo di allora, esclusa la Gran Bretagna (che aderì solo nel 1990), tra i sei paesi fondatori, più Irlanda e Danimarca. L’accordo legava le monete Europee in rapporti di cambio fissi, ma aggiustabili – con margini di oscillazione del + o – 2,25% rispetto alla parità centrale, e possibilità di riallineamento (svalutazione o rivalutazione) nelle situazioni di persistenti pressioni sul cambio. La lira, a causa della sua maggiore debolezza, adottò una banda più larga, del 6% sopra e sotto la parità. Nel periodo iniziale, sino a circa il 1983, ci furono parecchi riallineamenti, poi dal 1987 si giunse a cambi “irrevocabilmente fissi”, su pressione dei paesi dell’area del marco che volevano evitavare i riallineamenti competitivi dei paesi a più alta inflazione. I paesi a più alta inflazione, d’altra parte, accettarono i cambi irrevocabilmente fissi, considerandola come una terapia shock attraverso la quale introdurre un vincolo esterno (il cambio fisso) capace di costringere le loro economie a una maggiore disciplina salariale e fiscale, e così fare pressione sui sindacati per moderare i salari, e sul governo per ridurre i deficit del bilancio pubblico e le politiche fiscali espansive.
Sicuramente nel breve e medio periodo questa scelta non ottenne i risultati desiderati. Si verificarono forti deficit commerciali nei paesi a più alta inflazione, e forti surplus nell’area del marco. Per mantenere il cambio fisso i paesi deficitari furono costretti a tenere alti i tassi di interesse per compensare la bilancia dei pagamenti con afflussi di capitali, ma il conseguente aumento del debito estero peggiorava ulteriormente le partite correnti dal lato dei redditi da capitale in uscita. Senza considerare che gli alti interessi portarono a un declino costante nella crescita del PIL, e a un’esplosione del debito pubblico a causa degli elevati oneri per servire il debito. L’attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 – che costrinse la lira a svalutare e ad uscire dallo SME – avvenne dunque in una fase in cui l’economia Italiana era già allo stremo, con un’inflazione che era il triplo di quella Tedesca e un cambio insostenibile.
La svalutazione del ’92 tuttavia non portò inflazione in Italia. Anzi, l’inflazione diminuì rispetto al periodo precedente, l’Italia riequilibrò i conti con l’estero grazie alla ritrovata competitività di prezzo, e il PIL riprese a crescere. Nei tre anni successivi, però, l’Italia tornò ad affidare, nei fatti, alla sola svalutazione della lira la crescita economica, trascurando di migliorare la sua struttura produttiva e distributiva.
L’Euro
Nel 1992 era stato firmato il Trattato di Maastricht, che prevedeva l’istituzione dell’Unione Monetaria in tre tappe. La transizione all’ultima fase, nella quale i paesi aderenti avrebbero condiviso la moneta comune, l’euro, sarebbe iniziata nel 1999 ed era condizionata al rispetto di cinque criteri economici. I primi due riguardavano la situazione delle finanze pubbliche: il deficit annuale del bilancio dello Stato non doveva superare il 3% del PIL, e il totale del debito pubblico non doveva superare il 60% del PIL, oppure almeno essere avviato verso un deciso risanamento. Gli altri criteri riguardavano il tasso di inflazione e il tasso di interesse, che dovevano convergere verso i livelli minimi dei paesi più forti, con un massimo di scostamento ammesso, e la stabilità del tasso di cambio nei due anni precedenti. Dimentichi dei precedenti fallimenti, e forse pensando che questa volta l’Italia ce l’avrebbe fatta – forza dell’illusione – le autorità di governo trascurarono di verificare se la struttura produttiva Italiana avesse raggiunto lo stesso grado di sviluppo di quella dei paesi Europei più avanzati, e legarono di nuovo l’Italia all’area del marco, scegliendo ancora una volta la terapia shock rispetto a una terapia più gradualista, che mantenesse una libertà di movimento nel cambio per il tempo necessario a migliorare realmente la struttura dell’economia.
I nostri politici imposero al paese grandi sforzi per soddisfare i criteri di Maastricht e poter entrare nell’euro. Furono messe in atto politiche di bilancio restrittive e fu mantenuto fisso il cambio. Abbiamo già descritto altre volte gli squilibri delle partite correnti indotti dall’euro, e la crisi che ne è seguita, per cui ne faccio un riassunto in questo box.
Con l’entrata nell’euro la politica monetaria unificata stabilì un tasso di interesse unico per tutti allo stesso livello, che di fatto risultò troppo basso per le economie periferiche, che mantenevano comunque un differenziale di inflazione rispetto all’area del marco: i tassi di interesse reali troppo bassi favorirono l’accesso ai flussi finanziari dall’estero, alimentando in maniera eccessiva, con l’indebitamento, la domanda del settore privato di Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo, e provocando una crescita dei salari nominali superiore alla media Europea, in conseguenza dell’accresciuta domanda di lavoro. La maggiore inflazione che ne conseguiva, generava una perdita di competitività, con minori esportazioni e persistenti disavanzi commerciali. Nel caso Italiano in particolare, la debolezza della domanda interna – dovuta alle politiche restrittive per entrare nell’euro – ha compensato la debole performance delle esportazioni, che hanno sofferto moltissimo della perdita di competitività di prezzo, sicché il saldo delle partite correnti non è peggiorato in maniera significativa. La perdita della competitività di prezzo è dovuta alla diversa dinamica nell’andamento del costo del lavoro tra Germania, Austria da una parte e Italia e paesi periferici dall’altra. Il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) nel periodo 1999-2008 è aumentato in media dello 0,4% all’anno in Germania, contro oltre il 2,5% all’anno in Italia e Spagna, comportando un forte deprezzamento cumulato del tasso di cambio reale. Secondo la Commissione Europea, la quota dei salari ha avuto un calo significativo in tutta l’area dell’euro. Tuttavia, il calo è stato più marcato in Germania e in Austria – e questo tipo di politica economica da parte della Germania è stato definito “mercantilismo monetario”: una sorta di violazione dei “patti impliciti” Europei che prescrivevano un obiettivo comune di inflazione del 2%, mentre la Germania avrebbe perseguito una inflazione al di sotto di tale soglia, facendo „dumping salariale“. Peraltro ciò che ha aggravato questi squilibri commerciali è stata la loro persistenza nel tempo, data la impossibilità di riallineamenti dei tassi di cambio nominali, che in circostanze diverse avrebbe impedito al divario di approfondirsi. In questa situazione, il propagarsi della crisi finanziaria dagli USA ha bruscamente interrotto il flusso dei capitali. Le turbolenze finanziarie del 2008 e la conseguente profonda recessione nel 2009 hanno fatto sì che improvvisamente gli investitori corressero a rifugiarsi negli assets considerati più sicuri, e gli investimenti nella periferia della zona euro evidentemente non lo erano. Poiché al debito delle famiglie dei paesi periferici corrispondeva quello delle banche periferiche verso quelle Tedesche, gli Stati sono dovuti correre in soccorso dei conti disastrati delle banche, ed ecco che anche il debito pubblico è cresciuto. Nel frattempo, anche la recessione faceva crollare le entrate fiscali, spingendo i bilanci pubblici in rosso ancor più profondo. E il risultato è stato un crollo della fiducia degli investitori nei titoli del debito pubblico dei paesi periferici. Una particolare fragilità dell’eurozona sta nel fatto che i paesi che fanno parte dell’unione monetaria Europea non hanno gli strumenti che possono avere altri paesi per migliorare le loro economie ed evitare una vera e propria crisi fiscale: Giappone e Usa hanno una banca centrale che può acquistare titoli direttamente dallo Stato, nel caso in cui i mercati rifiutino di farlo. Ciò consente di sostenere forti disavanzi facendo politiche di bilancio espansive per sostenere l’economia in tempi di crisi, senza incorrere in grossi problemi immediati di sfiducia dei mercati e insostenibilità del debito. La Bce, per decisione statutaria, adotta invece una politica di tipo monetarista, secondo la quale la Banca centrale si deve limitare a seguire la semplice regola di fissare a priori il tasso di crescita della moneta che deve essere molto contenuto per evitare l’inflazione, e secondo cui la politica di bilancio non è in grado di correggere le fluttuazioni economiche, da qui l’impossibilità della monetizzazione del deficit e l’importanza assegnata al pareggio del bilancio. Quindi gli Stati per finanziarsi non possono contare sulla banca centrale e devono ricorrere ai mercati, con tutto quel che ne può conseguire in termini di insostenibilità nelle fasi critiche dell’economia. Questo spiega la percezione comune che la crisi dell’euro sia in effetti una crisi di debiti sovrani e di stati spendaccioni, mentre in realtà, come hanno sostenuto da ben prima della crisi importanti economisti (Feldstein, Krugman, Dornbush, per nominarne solo alcuni), e come sta diventando sempre più evidente anche al pubblico, la crisi dell’euro era inevitabile per i profondi squilibri settoriali che necessariamente si verificano in un’area valutaria comune tra paesi con economie troppo strutturalmente differenti.
I perché di questa scelta e perché l’unione di bilancio è impensabile
La scelta di entrare nell’euro e di sottoporre l’Italia a questa terapia shock è stata giustificata con la motivazione che sarebbe stata necessaria per guadagnare in “stabilità”, entrando a far parte di un’area valutaria forte. E’ vero che le svalutazioni competitive portavano instabilità macroeconomica a causa del perverso meccanismo per cui da un lato la svalutazione migliora la competitività di prezzo e la bilancia corrente aiutando la crescita del paese, ma dall’altro generalmente, quando le svalutazioni sono ripetute, importano inflazione, quindi fanno crescere i tassi di interesse, deprimono l’economia e peggiorano i conti pubblici. Inoltre, entrare in un’area valutaria forte ci avrebbe messo al riparo dagli attacchi speculativi e dalle svalutazioni imposte dall’esterno. In realtà, a giudicare dagli spread e dai rischi di crollo dell’euro, non è proprio così.
L’entrata nell’euro, così come l’entrata in un regime di cambi fissi, provoca un tipo di instabilità, che è una instabilità macroeconomica dovuta a bassa competitività, per cui le importazioni aumentano a un tasso maggiore delle esportazioni e il saldo diventa sempre più negativo. Poiché nel breve periodo è molto difficile intervenire a migliorare le variabili che influenzano la competitività (qualificazione professionale, infrastrutture, servizi per le aziende, capacità di innovazione, burocrazia e privilegi, aspetti giuridici, ecc), l’economia del paese va in stagnazione.
In questa fase la domanda interna potrebbe compensare la mancanza di competitività, se stimolata da una spesa pubblica convenientemente indirizzata a favorire la vendita di beni e servizi nazionali. Se però la spesa pubblica non può essere aumentata perché ci sono vincoli di bilancio stabiliti da accordi internazionali, allora il paese passa dalla stagnazione alla recessione. In questo quadro, pensare che un’unione di bilancio a guida Europea, e quindi a guida Tedesca, possa risolvere la crisi degli squilibri settoriali dell’eurozona, non sembra né possibile né sano.
Non c’è certamente da aspettarsi che la Germania monetarista si metta a finanziare politiche espansive per aiutarci a sostenere la domanda interna e attenuare la recessione. La centralizzazione della politica di bilancio servirebbe a farci attraversare senza rischio di sorprese (ci venisse mai l’idea di uscire dall’euro) quella lunga recessione che in “un’unione da mani legate” di questo genere è l’unica via per riequilibrare gli scompensi, la famosa svalutazione interna dei prezzi e dei salari. Naturalmente, tutto questo non ci porterebbe alla fine, almeno, fuori dal tunnel, perché nel corso di questo impoverimento i paesi che dall’euro si sono rafforzati e arricchiti avrebbero tutta la possibilità di finire di comprare per due soldi le nostre migliori risorse, riducendoci a colonie e non dovendo più temere la nostra riacquistata competitività.
Perché l’Italia si costringa ripetutamente al confronto con l’area del marco, che le provoca ingenti danni, senza prepararsi adeguatamente, questo è un fatto che rimane difficile da tollerare. Occorre che noi, in Italia, troviamo i politici e gli amministratori capaci di attuare quegli interventi necessari per razionalizare e rendere efficiente la struttura produttiva del paese, e poter aumentare la competitività; ma nell’attesa che questi interventi producano effetti, dobbiamo evitare che il paese attraversi la recessione, e adottare una terapia gradualista che affianchi agli interventi strutturali una flessibilità del cambio, sino ad arrivare a una struttura dell’economia che possa reggere il confronto con i paesi economicamente più forti, e magari, ma solo forse e solo allora, adottare una moneta comune.
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