COP 21 è la ventunesima «Conferenza delle parti» dell’organo dell’ONU che si occupa del cambiamento climatico.
Alice Bows-Larkin
Nel corso della nostra vita, tutti abbiamo contribuito al cambiamento climatico. Azioni, scelte e comportamenti, hanno causato un aumento di gas serra.
E’ una considerazione molto forte, credo, ma suscita in noi dei sensi di colpa quando pensiamo alle decisioni che abbiamo preso su dove viaggiare, quanto spesso e come, sull’energia che abbiamo scelto di utilizzare nelle nostre case e nei posti di lavoro, o semplicemente lo stile di vita che abbiamo e di cui godiamo.
Ma possiamo anche invertire il ragionamento, e pensare che se abbiamo avuto un impatto così potente, in negativo, sul nostro clima, allora possiamo influenzare il cambiamento climatico futuro al quale dovremo adattarci.
Possiamo scegliere, dunque. Scegliere di iniziare a prendere sul serio il cambiamento climatico e ridurre significativamente le emissioni di gas serra e di doverci adattare a cambiamenti climatici di minor impatto in futuro.
Oppure possiamo continuare a ignorare il problema del cambiamento climatico. Ma così scegliamo anche di adattarci a cambiamenti climatico molto più drammatici in futuro. E non è solo questo. Vivendo in paesi ad alta emissione pro capite, di fatto, stiamo scegliendo anche per gli altri.
La scelta che non abbiamo, comunque, è quella di un futuro senza cambiamenti climatici. Negli ultimi due decenni, i negoziatori dei nostri governi e i decisori politici di sono riuniti per discutere del cambiamento climatico e si sono concentrati sull’evitare un riscaldamento di 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali.
Questa è la temperatura associata a livelli d’impatto pericolosi, sotto una vasta gamma di profili, sia per gli uomini che per l’ambiente. Due gradi, quindi, sono già un cambiamento climatico pericoloso.
I pericoli del cambiamento possono essere soggettivi. Se pensiamo a un eventi climatico estremo che può avvenire in qualsiasi zona del mondo, se accade in una parte del mondo con buone infrastrutture, dove le persone sono ben assicurate e così via, allora l’impatto potrà causare problemi, agitazioni, costi aggiuntivi. Potrà causare perfino delle morti. Ma se questo evento climatico avviene in un’altra parte del mondo, ove le infrastrutture sono fatiscenti e le persone non sono ben assicurate o non hanno buone reti di supporto, lo stesso impatto può essere devastante. Può causare una significativa perdita di case e di vite.
Questo grafico mostra le emissioni di CO2 legate ai combustibili fossili, dal periodo che precede la Rivoluzione industriale fino ai nostri giorni. Salta subito agli occhi che le emissioni sono cresciute esponenzialmente.
Se ci concentriamo su un periodo più breve, partendo dal 1950, nel 1998 abbiamo fondato Il Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici (UNFCCC). Nel 1992 a Rio si è tenuto il Summit sulla terra, poi nel 2009 abbiamo siglato l’accordo di Coopenhagen, dove si è stabilito di evitare un aumento della temperatura di 2 gradi, in accordo con la scienza e su una base di equità.
Poi, nel 2012, abbiamo avuto Rio +20. E in tutto questo tempo, durante tutte queste riunioni e in molte altre, le emissioni hanno continuato ad aumentare. E se ci concentriamo sulla tendenza delle recenti emissioni storiche, insieme alla nostra comprensione della direzione che sta prendendo l’economia globale, allora siamo più diretti verso un riscaldamento di 4 gradi e non di 2.
Riflettiamo per un attimo su quest’aumento medio globale della temperatura di 4 gradi. La maggior parte del nostro pianeta è composta dal mare. Dato che il mare ha un’inerzia termica maggiore della terraferma, le temperature medie sulla terraferma saranno più alte di quelle sul mare. Inoltre, noi esseri umani non siamo esposti alle temperature globali medie. Sentiamo giorni caldi, giorni freddi, giorni piovosi, soprattutto per chi vive a Manchester come me.
Mettetevi quindi al centro di una città. Immaginate un luogo qualunque del mondo: Mumbai, Pechino, New York, Londra. E’ la giornata più calda che ricordate. Il sole batte forte, siete circondati di cemento e vetro. Adesso immaginate quella stessa giornata, ma 6, 8 forse 10 – 12 gradi più calda di quell’ondata. E’ questo ciò a cui andiamo incontro, in uno scenario, in cui le temperature medie globali aumentano di 4 gradi.
E il problema, con questi estremi – e non parlo solo delle temperature estreme, ma dei temporali estremi e di altri impatti climatici – è che le nostre infrastrutture non sono state progettare per gestirli.
Le nostre strade e le ferrovie sono state create per durare a lungo e sopportare un certo numero di impatti in diverse parti del mondo. Tutto questo verrà messo alla prova. Le nostre centrali elettriche hanno bisogno di essere raffreddate dall’acqua fino a una certa soglia per restare efficienti e sicure. E gli edifici sono stati progettati per essere confortevoli entro un certo range di temperature. Tutto questo verrà messo a dura prova con un aumento di 4 gradi. L nostre infrastrutture non sono state progettate per questo.
Tornando ai 4 gradi, il problema non sono gli impatti diretti, ma anche quelli indiretti. Prendiamo ad esempio le fonti alimentari. Nei raccolti di mais e grano, in alcune parti del mondo si prevede una diminuzione del 40% con una aumento di 4 gradi e del 30% nel riso. Questo sarà assolutamente devastante per le fonti alimentari globali.
Nel complesso, le conseguenze previste per un aumento di 4 gradi non saranno compatibili con la vita globale organizzata che conosciamo.
Torniamo alle traiettorie e ai grafici di 4 e 2 gradi di aumento. E’ ragionevole pensare ancora a un aumento di 2 gradi? Molti dei miei colleghi, insieme ad altri scienziati sostengono che sia troppo tardi per evitare un riscaldamento di soli 2 gradi. Ma vorrei ricorrere alle mie ricerche sui sistemi energetici e alimentari, aviazione e navigazione, per dire che credo ci sia ancora qualche possibilità di evitare questo pericoloso cambiamento di 2 gradi. Ma dobbiamo veramente studiare i numeri per capire come.
Se ci concentriamo su questa graduatoria e su questi grafici. Il cerchio giallo indica che il punto di separazione tra la strada rossa di 4 gradi e quella verde di 2 gradi, è adesso.
E questo è dovuto alle emissioni cumulative, al budget di carbonio. In altre parole, le luci e i proiettori accesi in questa stanza adesso, rilasciano CO2 nell’atmosfera, che a causa di questo consumo energetico, ci resterà moltissimo tempo. Una parte rimarrà nell’atmosfera per un secolo, forse anche molto di più. Si accumulerà e i gas serra tendono ad accumularsi.
Questo ci dice qualcosa su queste traiettorie. Per prima cosa ci dice che è l’area sotto queste curve a contare, non il punto che raggiungeremo in una particolare data futura. Questo è importante, perché non importa se riusciremo a creare una tecnologia meravigliosa che sistemi il problema l’ultimo giorno del 2049, appena in tempo per salvare il salvabile, perché nel frattempo le emissioni si saranno accumulate. Perciò, se continuiamo su questa strada rossa di 4 gradi centigradi, e più vi rimaniamo, più dura sarà compensare negli anni successivi, per mantenere il budget di carbonio, l’area sotto la curva, il che significa che la traiettoria rossa diventerà più ripida.
In altre parole, se non riduciamo le emissioni a breve-medio termine, allora dovremo ridurre significativamente le emissioni di anno in anno. Dobbiamo anche decarbonizzare i nostri sistemi energetici. Ma se non iniziamo a tagliare le emissioni a breve-medio termine, dovremo iniziare anche prima.
Tutto ciò rappresenta una grande sfida.
Ci dice anche qualcosa sulle politiche energetiche. Se vivete in una parte del mondo dove le emissioni pro capite sono già alte, dovreste ridurre la domanda energetica. E questo perché, con tutta la buona volontà, le infrastrutture ingegneristiche su grande scala che si dovrebbero costruire velocemente, per decarbonizzare a fornitura del nostro sistema energetico, semplicemente non potrebbero realizzarsi in tempo.
Quindi non importa se scegliamo l’energia nucleare, o la cattura e il sequestro del carbonio, l’aumento della produzione di biocarburanti, o costruiamo sempre più turbine eoliche o idriche.
Ci vorrebbe comunque troppo tempo.
E dato che l’area sotto la curva è importante, bisogna puntare non solo sull’efficienza energetica, ma anche sul risparmio energetico, cioè usare meno energia.
Se lo facciamo, ciò significherà che mentre continuiamo a migliorare la tecnologia per produrre energia, avremo un lavoro in meno da fare se saremo riusciti a ridurre il consumo di energia, dato che così avremo bisogno di meno infrastrutture per la fornitura.
Un’altra questione che dobbiamo affrontare è quella del benessere e dell’uguaglianza. Esistono molte parti del mondo, dove il tenore di vita deve aumentare. Ma con gli attuali sistemi energetici, basati sui combustibili fossili, la crescita di quelle economie, fa anche crescere le emissioni. Se siamo tutti vincolati allo stesso budget di carbonio, l’aumento delle emissioni in alcune parti del mondo, costringe a ridurle in alcune altre.
Questo rappresenta una sfida enorme per le nazioni ricche. Secondo la nostra ricerca, nei paesi in cui le emissioni pro capite sono già alte: Nord America, Europa, Australia, è necessaria una riduzione delle emissioni del 10% annuo. Fin da subito se vogliamo evitare il target di 2 gradi.
Contestualizziamo.
Secondo l’economista Nicholas Stern, ogni riduzione delle emissioni superiore all’1% annuo, è stata inevitabilmente accompagnata da recessioni economiche e disordini. Ciò rappresenta un problema enorme per la crescita economica, dato che con le nostre infrastrutture ad alta intensità di carbonio, l’economia non può crescere, senza aumento delle emissioni.
Vorrei citare uno studio, scritto da me e da Kevin Anderson nel 2011, nel quale suggerivamo che per evitare un pericoloso cambiamento climatico, la crescita economica dovesse essere sostituita, almeno per un po’, da un periodo di austerità pianificata delle nazioni ricche.
E’ un messaggio molto difficile da far digerire, perché implica che dobbiamo fare le cose molto diversamente. Non si tratta solo di una cambiamento incrementale. Bisogna fare le cose diversamente: cambiare l’intero sistema, e qualche volta produrre di meno.
Riguarda tutti noi. Qualsiasi sia la nostra sfera di influenza. Possiamo scrivere a un politico di zona, parlare con il nostro capo o essere il capo, possiamo parlarne con amici o parenti e semplicemente cambiare stile di vita. Perché dobbiamo veramente cambiare le cose.
In questo momento stiamo scegliendo lo scenario 4 gradi. Se realmente vogliano evitare lo scenario di 2 gradi, bisogna agire immediatamente.
Grazie.
Che cos’è un carbon sink?
L’UNFCCC (United Nation Framework Convention on Climate Change – Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) definisce carbon sink come
come qualsiasi processo, attività o meccanismo per rimuovere gas ad effetto serra, aerosol o un precursore di gas serra dall’atmosfera. Sink di carbonio (carbon sink) sono quindi attività, processi, o meccanismi di rimozione (e sequestro) di biossido di carbonio (CO2) dall’atmosfera.
La definizione di carbon sink dell’UNFCCC suggerisce che i carbon sink– letteramente “pozzi di assorbimento di carbonio”- sono strumenti che sottraggono CO2 dall’atmosfera: CO2 che, ricordiamo, è un composto gassoso naturalmente presente in tracce nell’atmosfera (quale forma più ossidata del carbonio).
Ma la CO2 è anche il più importante gas ad effetto serra, la cui emissione è enormemente cresciuta nell’era industriale primariamente a causa della combustione dei combustibili fossili: ma grazie all’azione dei carbon sink la CO2 può essere rimossa dall’atmosfera e “compartimentata”, non esplicando più nel comparto atmosferico la sua “capacità serra”.
La quota di CO2 sequestrata non concorre quindi nel trattenere la radiazione solare riflessa dalla Terra, evitando incrementi radiativi (“forcing radiativo”) e dell’effetto serra naturale (che determina il conseguente riscaldamento climatico globale).
Un carbon sink è quindi un sistema che trattiene CO2 in quantità maggiore rispetto a quella che (eventualmente) rilascia: le foreste sono un tipico esempio di ciò, dato che in alcune fasi del loro ciclo vitale assorbono carbonio (comportandosi appunto come “carbon sink”) mentre in altre fasi rilasciano CO2, diventando “carbon source”.
E’ tuttavia possibile dire che se una pianta nel corso del tempo accresce la propria biomassa sta assorbendo e stoccando carbonio nelle proprie molecole organiche, con un saldo positivo nell’ambito del sequestro del carbonio atmosferico.
Carbon sink forestali ed emissioni antropiche di gas serra
Alla luce delle definizioni sopra introdotte, si evince che i carbon sink forestali (forestry carbon sink – pozzi di assorbimento forestali) sono quindi luoghi dove si verifica il processo di assorbimento di CO2 dall’atmosfera ed suo sequestro mediante fissazione nelle molecole organiche vegetali (“organicazione della CO2”).
Le piante, infatti, assorbendo anidride carbonica (CO2) nel processo di fotosintesi, fissano il carbonio nella propria biomassa e nel suolo, le quali sono vere e proprie riserve di carbonio (carbon stock) sulla superficie terrestre.
Secondo l’UNFCCC: “Nell’ambito delProtocollo di Kyoto alcune specifiche attività antropiche negli usi del suolo, nei cambiamenti degli usi del suolo e nella forestazione che rimuovono i gas serra dall’atmosfera (e conosciuti come “carbon sinks”, cioè pozzi di assorbimento di carbonio), quali afforestazione, riforestazione e lotta alla deforestazione possono essere utilizzati dai Paesi in nell’Allegato I (del Protocollo di Kyoto, gli “Annex I Parties”) per compensare i propri obiettivi di emissione.
Al contrario, le variazioni di queste attività che riducono i carbon sink (ad esempio un aumento della deforestazione) saranno sottratte dalla quantità di emissioni che i Paesi in Allegato I possono emettere nell’ambito del loro periodo di impegno (del Protocollo di Kyoto)“.
Le logiche sopra illustrate chiariscono ruolo ed importanza dei carbon sink, che effettivamente rappresentano una efficace forma di contrasto al climate change seppure in forma integrativa e secondaria rispetto alla riduzione delle emissioni, prevista dal Protocollo di Kyoto medesimo quale primaria e principale strategia mitigativa.
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