Traggo da Micromega le recensioni di Carlo Formenti e Stefano Rodotà [e un estratto del libro] al saggio di Zygmunt Bauman e David Lyon, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2014.
Carlo Formenti, Sorvegliati e felici
Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la NSA, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri Paesi, nonché di capi di stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private.
A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo 1984 di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida (Ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.
Lyon, da sempre attento analista dei problemi della sorveglianza, e Bauman, il filosofo che ha sostituito il concetto di “modernità liquida” alla categoria di postmodernità, ribaltano gli scenari orwelliani e foucaultiani di cui sopra ai quali contrappongono quattro tesi di fondo:
1) viviamo in un mondo post panottico in cui le nuove forme di controllo e sorveglianza assumono le caratteristiche tipiche del consumo e dell’intrattenimento;
2) i principali oggetti al centro dell’attenzione dei sistemi di sorveglianza non sono le persone in carne e ossa, bensì i loro “doppi” elettronici, cioè i dati che li riguardano;
3) ciò che più dobbiamo temere non è la fine della privacy e dell’anonimato bensì l’inquadramento in categorie in grado di determinare apriori il nostro futuro di consumatori e cittadini;
4) la costruzione di questa macchina infernale procede con la collaborazione spontanea, se non gioiosa, delle sue vittime. Proverò ora a illustrare le quattro tesi nell’ordine appena enunciato.
Il concetto di Panopticon, argomentano Lyon e Bauman, implicava la concentrazione dei soggetti sottoposti a sorveglianza in determinati luoghi – carceri, fabbriche, scuole, ospedali, ecc. – e sfruttava il “controllo delle anime” come strumento per cambiare comportamenti e motivazioni. Lo sguardo, temuto ma non visto e quindi presunto come costantemente presente, del controllore induce l’autodisciplina di lavoratori, prigionieri, pazienti e allievi che si adeguano alle aspettative del sistema di controllo per non subire sanzioni.
Queste modalità punitive di controllo, osservano gli autori, riguardano ormai esclusivamente le “zone ingestibili” della società come le prigioni e i campi profughi, sono cioè riservate agli esseri umani dichiarati “inutili” ed esclusi nel senso pieno e letterale della parola. Viceversa il nuovo potere globale – che Lyon e Bauman contrappongono al potere politico tradizionale, confinato nel locale – non si esercita erigendo barriere, recinzioni e confini che vengono anzi considerati come ostacoli da superare e aggirare; esso deve poter raggiungere tutti in modo da poterli valutare e giudicare uno per uno e, a tale scopo, si impegna affinché tutti siano motivati a esporsi volontariamente al suo sguardo, a cercarlo avidamente più che a sottrarvisi.
Passiamo alla seconda tesi. Qui Lyon e Bauman riprendono un tema che Stefano Rodotà ha già ampiamente sviscerato negli anni scorsi, analizzando il fenomeno del “doppio elettronico”. La costruzione di veri e propri “duplicati” delle persone è un processo costantemente in atto a partire dai frammenti di dati personali che ognuno di noi fornisce continuamente e quotidianamente al sistema di sorveglianza navigando in rete, usando la carta di credito, frequentando i social media, usando i motori di ricerca ecc.
Ciò di cui non siamo consapevoli è che questi frammenti di dati, estratti per scopi diversi, vengono poi remixati e utilizzati per altri scopi, sfuggendo completamente al nostro controllo (la sorveglianza tende così “a farsi liquida”, dice Bauman riproponendo la sua metafora favorita). Ma soprattutto ciò di cui non ci rendiamo sufficientemente conto è che questa informazione sganciata dal corpo finisce per esercitare un’influenza decisiva sulle nostre opportunità di vita e di lavoro. Il punto è infatti che i nostri duplicati divengono oggetto di analisi statistiche che servono a prevedere comportamenti futuri (Lyon e Bauman citano in merito il film Minority Report) e, sulla base di tali previsioni, a incasellarci in determinate categorie di consumatori appetibili o marginali e/o di cittadini buoni cattivi o “pericolosi”.
Siamo così alla terza tesi, la più inquietante, secondo cui la nuova sorveglianza si propone di selezionare le persone allo stesso modo in cui, nei campi di concentramento nazisti, si selezionava chi doveva essere eliminato subito e chi poteva ancora tornare utile. Oggi è sparita la violenza omicida, ma non il principio della classificazione come presupposto di un trattamento differenziale per le diverse categorie di consumatori e cittadini.
Il marketing ci valuta in base ai nostri “profili”, cioè ai nostri precedenti comportamenti di consumo; i sistemi di sicurezza non rivolgono più la loro attenzione ai singoli potenziali malfattori ma alle “categorie sospette” (vedi le disavventure delle persone di origine araba ai controlli negli aeroporti occidentali). Ecco perché la privacy non è più soltanto minacciata, ma diventa addirittura sospetta. Quante volte vi siete sentiti rispondere da qualcuno a cui ponevate il problema “che m’importa tanto non ho nulla da nascondere”? Come dire: se qualcuno tiene troppo alla propria invisibilità è automaticamente sospettato di avere commesso un crimine. Una mentalità che alimenta la tendenza alla delazione: per non essere classificati fra i sospettati, siamo infatti disposti a puntare il dito (o gli occhiali di Google) contro gli altri.
Infine la quarta tesi: esporsi alla sorveglianza è oggi divenuto un gesto spontaneo, se non addirittura gratificante. Se il sorvegliato del Panopticon era ossessionato dall’incubo di non essere mai solo, il nostro incubo è diventato quello di non essere notati da nessuno; quello che vogliamo è non sentirci mai soli. Addestrati dai reality show televisivi e dall’esibizionismo dei social media, i nativi digitali considerano l’esibizione pubblica del privato come una virtù, se non come un dovere; “diventiamo tutti, al tempo stesso, promotori di merci e le merci che promuoviamo”, siamo costantemente impegnati a trasformare noi stessi in una merce vendibile. La seduzione sostituisce la polizia come arma strategica del controllo e ciò non riguarda solo consumi e sicurezza, ma anche la nuova organizzazione del lavoro: i manager si liberano del fardello di gestire e controllare una forza lavoro che ormai si autocontrolla h24 (come le lumache, scrivono Lyon e Bauman, ci portiamo sempre dietro quei Panopticon personali che sono cellulari, smart phone e iPad).
In molti dei concetti del libro di Lyon e Bauman – e soprattutto in quest’ultima tesi della collaborazione volontaria delle vittime – ritrovo quanto io stesso scrivevo qualche anno fa (Felici e sfruttati, Ed. Egea). Tuttavia, pur condividendo questi argomenti, non posso fare a meno di provare un certo disagio, perché mi sembra che nell’analisi manchi qualcosa. Nella loro critica all’idolatria della tecnica risuonano infatti echi dei discorsi di un autore come Jacques Ellul, discorsi in cui l’autonomia della tecnica e la sua capacità di “spersonalizzare” i sistemi di dominio e controllo vengono presentati come assoluti:
la guerra d’indipendenza delle scuri contro i boia, si legge in un passaggio del libro, ormai si è conclusa con la vittoria delle scuri, ormai sono le scuri a scegliere i fini, cioè le teste da tagliare.
Qui il pensiero corre ai droni e alla loro capacità di “anestetizzare” il senso di colpa di chi li manovra (o, in futuro prossimo, di fare del tutto a meno di manovratori umani); ma per quanto inquietanti ci appaiano simili fenomeni, credo che non andrebbero mai dimenticati i fattori politici ed economici – leggi le relazioni di potere fra dominati e dominanti – che rendono possibili certi sviluppi tecnici e che, quindi, rappresentano l’unico terreno su cui si possa sperare di lottare per cambiare direzione. Altrimenti l’unica speranza di salvezza, come mi pare succeda nell’ultimo capitolo del libro, resta affidata alla fede (è il caso di Lyon) o a un’etica laica (è il caso di Bauman) che rinvia solo a sé stessa.
Stefano Rodotà, L’era della sorveglianza. Bauman: Siamo noi i “Grandi Piccoli Fratelli”
Dal 1949, quando comparve 1984 di George Orwell, per molto tempo sulle nostre società si è allungata l’ombra dell’utopia negativa del Grande Fratello. Con il passare degli anni, e con la continua crescita delle possibilità di raccogliere dati personali grazie alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, era divenuto via via più pressante l’invito a rivolgere lo sguardo piuttosto al moltiplicarsi dei Piccoli Fratelli, che penetravano nelle società rendendo concreta una sorveglianza diffusa sulle persone. Molti di questi Piccoli Fratelli sono poi cresciuti, hanno assunto le sembianze di Google o di Facebook, fino a quando il Datagate ha rivelato l’esistenza di un soggetto, l’americana National Security Agency, dove potevano essere riconosciuti i tratti di un vero Grande Fratello planetario.
Abbandonando questo schema, Zygmunt Bauman e David Lyon dialogano mettendo in evidenza una più profonda trasformazione della società, ormai posseduta integralmente dalle logiche della sorveglianza, non più imputabile a questo o quel soggetto, ma divenuta un suo dato strutturale (Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, traduzione di M. Cupellaro, Laterza). Non siamo di fonte a una variazione nella letteratura sulla morte della privacy, ma a una riflessione sulla sorveglianza
«liquida, perché è cruciale cogliere i modi in cui essa si infiltra nella linfa vitale della contemporaneità»
fino a distruggerla, facendo regredire la persona alla condizione di puro oggetto sul quale si esercitano poteri fondati, in definitiva, sull’imperativo della sicurezza e sulle pretese del mercato.
L’oggetto della riflessione, allora, divengono la effettiva distribuzione e il concreto esercizio del potere, facendo emergere l’inadeguatezza della politica, l’impotenza degli Stati nazionali e, drammaticamente, anche una sorta di impossibilità individuale e collettiva di opporsi a questo processo. L’orizzonte è quello della ricerca di Bauman sulla modernità liquida che, tuttavia, non diviene uno schema costrittivo, perché David Lyon, con le sue domande, sollecita anche un confronto con molte delle posizioni emerse nella discussione contemporanea sulla sorveglianza, con una ricchezza di riferimenti che qui possono essere colti solo in parte. Ma i veri interlocutori finiscono con l’essere altri – Jeremy Bentham, con la sua teorizzazione del Panopticon; Michel Foucault, per l’indagine sul dispositivo della sicurezza; e l’assai più lontano Etienne de la Boétie, l’autore del Discorso sulla servitù volontaria.
Tutti i processi di trasformazione della persona, infatti, vengono descritti non tanto come l’effetto di una costante imposizione esterna, ma come il risultato di processi che costruiscono le condizioni propizie perché ciascuno accetti le servitù che gli vengono imposte, se non vuole essere vittima dei processi di esclusione che innervano la società della sorveglianza. Siamo così di fronte ad una nuova antropologia, nella trasformazione delle persone in “hyperlinkumani”, in entità bisognose di cogliere ogni occasione di visibilità, mettendo in rete qualsiasi informazione personale, contribuendo così alla “profilazione fai da te”. L’insistenza sull’assoggettamento volontario, tuttavia, non fa dare il giusto rilievo al parallelo processo di espropriazione dell’autonomia delle persone, consegnate agli algoritmi e alle tecniche probabilistiche che costruiscono una identità ad esse ignota, che ipoteca il loro futuro.
La sorveglianza si manifesta così come un dispositivo di esclusione, che rende non più utilizzabile lo schema del Panopticon, la costruzione circolare che consente ai carcerieri di vedere i detenuti senza esser visti e che, con le sue mura, è il simbolo della modernità “solida”. Al suo posto vengono insediati un Banopticon, le raccolte di dati in base alle quali si costruiscono i profili dei soggetti da escludere; e un Synopticon, che coinvolge ogni persona nei processi di sorveglianza. Poiché all’origine di tutto è l’ininterrotta raccolta di ogni informazioni, non è un caso che il libro si apra enfatizzando il ruolo dei droni, le macchine volanti sempre più miniaturizzate, capaci di giungere in ogni luogo e di impadronirsi dei dati in una condizione di quasi invisibilità, emblema estremo della liquidità.
Una nuova società è di fronte a noi, riconducibile alla “passione moderna per la costruzione di un ordine”, che portò ai campi di concentramento di nazismo e fascismo, dei quali i processi di selezione sociale della società della sorveglianza si presentano come la prosecuzione, sia pure in forme più blande e high tech. E in uno schema così compatto ed estremo non riescono ad aprire brecce le domande con le quali Lyon cerca di indurre Bauman a una considerazione più articolata della rivoluzione tecnologica, con una amputazione dell’analisi che rischia di rendere più debole la ricostruzione complessiva, che non a caso trascura tutti i contributi che cercano di segnalare le possibilità di intervenire attivamente per contrastare la logica della sorveglianza.
Si torna così al tema del potere, che “evapora” nella spazio dei flussi planetari dell’informazione, e della politica ricacciata nei luoghi fisici degli Stati nazionali. Una politica per ciò impotente, se non recupera la dimensione globale, anche per far sì che la ricostruzione negativa possa divenire una di quelle distopie che si autosmentiscono. Vero è che, perché questo accada, è indispensabile uno “slancio d’azione” (qui Bauman cita Gramsci) che compare come speranza nelle battute finali del dialogo, indicando la strada di “un’etica della cura” che recuperi integralmente la considerazione “dell’Altro” e induca a fissare il limite nel rispetto della dignità della persona. Tutto questo, però, viene collocato piuttosto in un recupero della trascendenza più che nella fiducia dell’azione individuale e collettiva. Ma siamo davvero sicuri che non sia più possibile continuare a seguire anche questa strada?
Zygmunt Bauman, David Lyon, Internet e la morte dell’anonimato (estratto di Sesto potere)
Siamo noi, per nostra volontà, a mandare al massacro il nostro diritto alla privacy. O forse acconsentiamo a perdere la privacy perché lo consideriamo un prezzo ragionevole da pagare in cambio delle meraviglie che ci vengono offerte. O ancora, la pressione a consegnare al mattatoio la nostra autonomia personale è così forte, e ci avvicina a tal punto alla condizione di un gregge di pecore, che solo pochissime volontà eccezionalmente ribelli, audaci, combattive e risolute sono preparate a tentare seriamente una resistenza. In un modo o nell’altro, però, ci viene offerta, almeno sulla carta, la parvenza di un contratto bilaterale e, almeno formalmente, abbiamo il diritto di sporgere reclamo o fare causa se quel contratto dovesse essere violato: tutte cose di cui nel caso dei droni non c’è più alcuna traccia.
Eppure, nonostante tutto, una volta dentro siamo ostaggio della sorte. Come osserva Brian Stelter, «l’intelligenza collettiva dei due miliardi di utenti Internet e le impronte digitali che tanti di loro lasciano nei siti web si combinano rendendo sempre più facile risalire alla fonte di qualsiasi video imbarazzante, di qualsiasi foto intima e di qualsiasi email sconveniente: che la fonte lo voglia o no». A Rich
Lam, fotografo freelance che aveva documentato i disordini scoppiati nelle strade di Vancouver, è bastato un giorno per rintracciare e identificare due persone che si baciavano appassionatamente e che erano (casualmente) finite in uno dei suoi scatti. Ormai tutto ciò che è privato avviene potenzialmente in pubblico, è potenzialmente disponibile al pubblico consumo e tale resta per tutto il tempo, fino alla fine dei tempi, poiché è impossibile «far dimenticare» a Internet qualcosa una volta che è stato registrato in uno dei suoi innumerevoli server. «Questa erosione dell’anonimato è un prodotto di social media pervasivi, di servizi di hosting gratuito di foto e video e – la cosa forse più importante di tutte – di un mutamento di opinione delle persone riguardo a cosa debba essere pubblico e cosa debba essere privato». Tutti quei gadget tecnici sono, ci dicono, «user-friendly»: anche se quella frase tanto amata dai copypubblicitari segnala, a ben vedere, un prodotto che per essere completo richiede, un po’ come i mobili Ikea, uno sforzo da parte dell’utilizzatore e, aggiungo, la devozione entusiastica e il plauso assordante degli utenti. Un Étienne de la Boétie contemporaneo probabilmente non parlerebbe più di servitù volontaria, ma addirittura «fai da te»…
Che conclusione possiamo trarre da questo incontro tra operatori di droni e gestori di account Facebook, ossia tra due figure che apparentemente hanno fini diversi e sembrano animati da motivazioni opposte, ma ciononostante collaborano strettamente, volontariamente e molto efficacemente nel produrre, sostenere ed espandere quello che tu hai felicemente chiamato social sorting? Io credo che la caratteristica più saliente della versione contemporanea della sorveglianza sia il fatto che è riuscita in qualche modo a costringere e persuadere gli opposti a lavorare all’unisono, a metterli tutti al servizio della stessa realtà. Da una parte, il vecchio stratagemma panottico («non saprai mai quando osservano il tuo corpo, e in tal modo la tua mente non smetterà mai di sentirsi osservata») viene implementato, gradualmente ma in modo coerente e apparentemente inarrestabile, su una scala pressoché universale. Dall’altra parte, ora che il vecchio incubo panottico di «non essere mai soli» ha ceduto il posto alla speranza di «non essere mai più soli» (abbandonati, ignorati e negletti, bocciati ed esclusi), la gioia di essere notati ha la meglio sulla paura di essere svelati.
Naturalmente questi due sviluppi, e soprattutto la loro riconciliazione e collaborazione per uno stesso compito, sono resi possibili dal fatto che all’incarcerazione e al confino è subentrata l’esclusione nel ruolo di minaccia numero uno alla sicurezza esistenziale e di principale fonte di ansia. La condizione di essere sorvegliati e visibili è stata derubricata da minaccia a tentazione. La promessa di accresciuta visibilità, la prospettiva di essere «allo scoperto» e di poter essere visti e notati da tutti, ben si collega all’ambita prova di essere socialmente riconosciuti e, dunque, di avere un’esistenza valorizzata, «significativa». Il fatto che tutta la nostra esistenza, nel bene e nel male, sia registrata in archivi pubblicamente accessibili appare l’antidoto più potente alla pericolosità dell’esclusione e un modo efficace per tenere a bada la minaccia dell’espulsione; anzi, è una tentazione cui pochi tra coloro che vivono una vita sociale dichiaratamente precaria si sentiranno abbastanza forti da resistere. La vicenda del recente, fenomenale successo dei «siti social» su Internet mi sembra un eccellente esempio di questa tendenza.
Effettivamente, il ventenne studente fuoricorso di Harvard Mark Zuckerberg, inventando Facebook (o, secondo alcuni, rubandone l’idea) e lanciandolo su Internet nel febbraio del 2004 a uso esclusivo degli studenti di Harvard, si era imbattuto in una specie di miniera d’oro: questo è evidente. Ma che cos’era quel minerale simile all’oro che «Lucky Mark» ha scoperto e continua a estrarre con profitti favolosi e in continuo aumento?
Così vengono descritti, sul sito ufficiale di Facebook, i vantaggi che avrebbero tentato, attratto e sedotto quel mezzo miliardo di persone, portandole a trascorrere nelle sue lande virtuali buona parte del loro tempo di veglia:
Gli utenti possono creare profili con foto, elenchi di interessi personali, dati di contatto utili e altre informazioni personali. Possono comunicare con amici e altri utenti tramite messaggi privati o pubblici e via chat. Possono inoltre creare o associarsi a gruppi d’interesse e pagine «mi piace» (quelle che fino al 19 aprile 2010 si chiamavano «pagine fan»), alcune delle quali sono gestite da organizzazioni che se ne servono come canale pubblicitario.
In altre parole, la prospettiva entusiasticamente abbracciata da vaste schiere di persone entrate a far parte degli «utenti attivi» di Facebook è la possibilità di avere due cose che sicuramente sognavano anche prima che Zuckerberg offrisse il servizio su Internet ai suoi colleghi di Harvard, ma che non sapevano dove cercare e trovare. Innanzitutto, quelle persone dovevano sentirsi molto sole, ma per un motivo o per l’altro trovavano troppo difficile sfuggire alla solitudine con i mezzi a loro disposizione. In secondo luogo, dovevano sentirsi penosamente trascurate, inosservate, ignorate e dirottate su un binario morto, esiliate ed escluse, ma anche in questo caso dovevano trovare difficile, se non impossibile, tirarsi fuori da quell’odioso anonimato con i mezzi a loro disposizione. Zuckerberg ha offerto loro gli strumenti per entrambi questi scopi, strumenti che fino ad allora avevano cercato invano e di cui sentivano terribilmente la mancanza. E loro hanno afferrato al volo l’occasione… Dovevano essere prontissimi, piedi ai blocchi di partenza, muscoli e orecchi tesi, in attesa dello sparo dello starter.
Come ha osservato di recente Josh Rose, direttore creativo digitale dell’agenzia pubblicitaria Deutsch LA:
«Internet non ci ruba la nostra umanità: la rispecchia. Internet non si insinua dentro di noi: ci mostra ciò che sta dentro di noi».
Rose ha perfettamente ragione. Mai incolpare il messaggero se il messaggio che ci consegna non ci piace, né elogiarlo se ci è gradito… In fin dei conti, se quel messaggio li rallegrerà o li getterà nella disperazione dipende dalle preferenze e dalle avversioni dei destinatari, dai loro sogni e incubi, dalle loro speranze e apprensioni. E ciò che vale per messaggi e messaggeri vale anche – in modo simile, anche se non proprio identico – per le offerte di Internet e per i loro «messaggeri», che le fanno apparire sui nostri schermi e le portano alla nostra attenzione. In questo caso a rendere buone o cattive, benefiche o nocive quelle offerte e il loro impatto sulla nostra vita, sono gli usi che di quelle offerte facciamo noi «utenti attivi» di Facebook, mezzo miliardo di persone. Tutto dipende da ciò che cerchiamo: i congegni tecnologici non fanno altro che rendere più o meno realistici i nostri desideri, più o meno rapida ed efficace la nostra ricerca…
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