Traggo dal suo blog su Micromega, questa recensione di Formenti a Suicidi, di Anna Simone, che è anche una ripresa del dibattito sul suicidio anomico di Durkheim.
Pur essendo stato un cavallo di battaglia di uno dei padri fondatori della sociologia, Émile Durkheim, il tema del suicidio non è fra quelli affrontati più di frequente dai suoi colleghi e successori. A occuparsene, ricorda infatti Anna Simone nella raccolta di saggi intitolata “Suicidi. Studio della condizione umana nella crisi”, che ha curato per l’editrice Mimesis, sono soprattutto psichiatri e psicologi, come se il problema potesse essere trattato solo scandagliando la psiche individuale e collettiva.
Per allargare, se non per rovesciare, tale prospettiva, Anna Simone – ricercatrice di sociologia giuridica presso l’università di Roma 3 – prende le mosse proprio dalla lezione di Durkheim, il quale proponeva di assumere il tasso suicidario di una società come indicatore della sua capacità o meno di generare integrazione sociale (quanto più debole il legame sociale tanto più elevato il numero dei suicidi). Analizzando il suicidio come fatto sociale, Durkheim ne classificava diverse tipologie, fra cui quella che definiva “suicidio anomico”, mettendola in relazione con il venir meno di un complesso di norme e valori condivisi, fenomeno tipico dei periodi di transizione e di crisi.
Non a caso Durkheim pubblicò il suo libro sul suicidio negli ultimi anni dell’Ottocento, vale a dire nella fase culminante di quella Belle Époque in cui globalizzazione economica e seconda rivoluzione industriale stavano innescando trasformazioni radicali: trasformazioni che, di lì a non molto, avrebbero provocato la Prima Guerra Mondiale a e la Grande Crisi degli anni Venti.
Anna Simone difende la tesi secondo cui anche oggi, in una fase storica che vede all’opera fattori di trasformazione altrettanto, se non più, radicali, ha senso interrogarsi sugli effetti che tali processi provocano anche sul terreno delle pratiche suicidarie. In pratica, si tratta di interrogarsi in merito alla possibilità che esista qualcosa come un “suicidio economico”, non nel senso di un rapporto immediato di causa ad affetto fra crisi e suicidi, bensì nel senso che il crescere di insicurezze, nevrosi, paure, sensi di colpa e fallimento associati alla crisi rappresentano il terreno sul quale, per una serie di soggetti, la scelta del suicidio diventa l’esito inevitabile di un “deragliamento” esistenziale.
La differenza rispetto alla diagnosi di Durkheim è che oggi il suicidio anomico non è più solo sintomo di “dismisura”, cioè dello sfaldamento di quelle norme morali condivise che garantiscono la tenuta del legame sociale, ma rispecchia anche e soprattutto altri processi: la negazione di molti diritti fondamentali, che la “società del rischio” sta spazzando via assieme al welfare; la perdita delle solidarietà garantite dalle appartenenze di classe e dalle loro proiezioni associative, annientate dal processo di individualizzazione che ci trasforma in atomi sociali; la progressiva cancellazione del confine fra tempo di lavoro e tempo di vita (tipica della condizione dei lavoratori autonomi) che fa sì che i fallimenti nella sfera lavorativa si trasformino quasi automaticamente in fallimenti dei progetti di vita; infine la precarizzazione diffusa, nel senso che la precarietà non è più caratteristica di alcune tipologie professionali bensì una condizione che tende ad abbracciare una pluralità di figure sociali, tutte esposte – sia pure in misura diversa – a livelli di rischio crescenti.
È soprattutto a quest’ultima dimensione che Anna Simone fa riferimento per spiegare il motivo per cui i protagonisti dei casi di “suicidio economico” non sono esclusivamente disoccupati e cassaintegrati, ma anche lavoratori autonomi, professionisti, manager, piccoli e medi imprenditori. Ciò avviene perché la catena simbolica lavoro/dignità/identità viene rimpiazzata sempre più spesso da una nuova trinità: debito/colpa/fallimento; una condanna che sembrerebbe riguardare solo i piccoli e medi imprenditori falcidiati dalla crisi e che invece, attraverso l’interiorizzazione di un’etica del lavoro individualizzata che fa di tutti, anche dell’ultimo dei lavoratori precari, un “imprenditore di se stesso” finisce per interessare molti altri soggetti.
Oltre al saggio introduttivo di Anna Simone, il libro raccoglie quattro contributi dedicati ad altrettanti contesti che si sono rivelati vere e proprie “fabbriche del suicidio”: la città di Taranto, avvelenata dall’Ilva; il Nord Est, piegato da una crisi che ha affossato il modello produttivo basato sull’autosfruttamento dei piccoli padroni; la condizione carceraria e, infine, le aree meridionali penalizzate da marginalità e precariato.
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