Nei giorni scorsi Facebook ha reso noti i risultati di un esperimento di ingegneria sociale condotto all’insaputa dei suoi utenti. Carlo Formenti è andato a leggere i commenti degli studiosi americani per fotografare lo stato dei paradigmi psicologici impiegati nelle ricerche sul campo e i termini della legittimazione delle pratiche di manipolazione sociale a fini commerciali.
L’ultimo “scandalo” in tema di sfruttamento degli utenti da parte delle Internet Company riguarda la notizia relativa a una ricerca che Facebook, assieme ad alcune università, ha condotto sulle reazioni emotive di mezzo milione di utenti (scelti a caso) del social network – reazioni innescate da una serie di manipolazioni effettuate sui post del News Feed.
In sostanza, come la stessa società di Zuckerberg e i ricercatori coinvolti hanno spiegato, si tratta di questo: le “cavie” dell’esperimento sono state esposte a foto, video e notizie “filtrate” in modo da selezionare solo i materiali di tenore positivo (o, al contrario, negativo) per verificare in che misura questo bombardamento influenzava l’umore dei bersagli umani. Risultato: si è ottenuta la conferma che chi aveva ricevuto solo notizie negative (o positive) tendeva a sua volta a pubblicare post dello stesso tenore.
Sul valore “scientifico” dell’esperimento, ispirato ai paradigmi riduzionisti della psicologia made in Usa, è il caso di stendere un velo di pietoso silenzio (nella migliore delle ipotesi si potrebbe dire che si tratta della scoperta dell’acqua calda). Ma ovviamente lo “scandalo” nasce da tutt’altri motivi, come il fatto che a nessuna delle cavie in questione è stato comunicato che sarebbero state oggetto di un esperimento psicologico, né, tanto meno, è stata loro chiesta una qualche forma di consenso informato.
Ma le critiche piovute addosso a Facebook da media, ricercatori, associazioni per la tutela della privacy e dei diritti dei consumatori riguardano anche altro: dalla violazione del diritto alla privacy delle vittime al fatto che oggetto dell’indagine non era, in questo caso, una misurazione quantitativa di comportamenti oggettivi bensì l’osservazione di reazioni emotive, di stati d’animo soggettivi artificialmente indotti. La giustificazione addotta di fronte a tali critiche suona risibile: Facebook ricorda che chi accede al servizio ha accettato regole d’uso che prevedono esplicitamente che la società possa condurre ricerche sui materiali postati (ma da nessuna parte sta scritto che tali ricerche possono comportare anche manipolazioni psicologiche; inoltre è noto che praticamente nessuno legge le regole d’uso e che, in ogni caso, queste sono formulate in modo tale da non poter essere considerate l’equivalente di un consenso informato).
A questo punto qualcuno si domanderà perché ho messo fra virgolette il termine scandalo, riferendomi alla vicenda in questione. Lo spiegherò citando un articolo apparso sull’Huffington Post firmato da un docente della George Washington University, tale Daniel Solove. L’interesse di tale articolo risiede nel fatto che l’autore, pur ribadendo le critiche relative all’assenza di consenso informato, alla violazione dell’aspettativa di privacy e alla forma particolarmente antipatica di una manipolazione che riguarda la sfera emozionale, concede a Facebook tre attenuanti quanto mai significative del “senso comune” che si è consolidato in merito ai diritti che spettano alle Internet Company nei rapporti con i propri utenti.
Il primo, il più ovvio, si riferisce al fatto che le società hanno il diritto di sfruttare le informazioni che estraggono dagli utenti per realizzare il massimo profitto possibile (ma una volta accettato tale principio, diventa di fatto impossibile fissare limiti etici alla ricerca del profitto). Il secondo è il plauso che l’autore dell’articolo concede a Facebook per avere reso pubblica la ricerca: un elogio della trasparenza tipicamente americano, espressione di un’etica in ragione della quale qualsiasi porcheria viene riscattata dalla confessione del colpevole. Infine, ed è il punto più interessante, si fa notare che la manipolazione non è pratica esclusiva di Facebook ma riguarda tutte le grandi società della Net Economy, da Amazon a Yahoo, da Apple a Google (tutti sanno, per esempio, che Google spia le nostre ricerche per darci risposte “personalizzate”, così che le risposte che otteniamo non sono le migliori ma quelle che vanno incontro alle nostre aspettative). Vi manipoliamo per offrirvi un servizio migliore: questo è lo slogan con cui tutto viene giustificato (ovviamente lo ha ripetuto anche Facebook nel caso in questione).
Ma il discorso può essere allargato: la manipolazione (a fini politici o commerciali) è la cifra di tutti i media elettrici, dalla radio (come ben sapevano i nazisti) a Internet, passando per la Tv. Certi seguaci di McLuhan lo negano, sostenendo che i media possono al massimo decidere l’agenda setting (cioè decidere per noi quali sono i temi degni di interesse) ma non manipolare le nostre opinioni. Viceversa McLuhan era molto più radicale, visto che pensava che l’esposizione ai media modificasse in profondità il nostro corpo e la nostra mente, “adescandoci” con la trappola dei contenuti (ben oltre la banale manipolazione, dunque).
Ciò detto, la morale di questa storia è che essa ci fa capire come il grado di manipolazione sia venuto costantemente crescendo, per cui Internet (o meglio le sue applicazioni 2.0, come i social media) sta in tal senso raggiungendo inediti vertici di sofisticazione.
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