Goriziano, poeta e straordinario disegnatore, Carlo Michelstaedter si iscrisse alla facoltà di filosofia di Firenze, dopo aver scartato gli studi di matematica verso i quali si era orientato in un primo momento. Là preparò la tesi di laurea sui concetti platonici di persuasione e rettorica, senza trovare il coraggio di discuterla, immaginando che una discussione autentica, priva dei riferimenti di circostanza – sebbene il testo si confrontasse in greco con i classici – non avrebbe potuto essere accettata. Si uccise a ventitré anni, dopo aver completato La persuasione e la rettorica [Milano, Adelphi, 1982].
Al suo lavoro ho dedicato la tesi di laurea. Durante la preparazione passai alcuni giorni alla Biblioteca Statale Isontina di Gorizia per consultare i suoi inediti e dopo la laurea presi il passaporto per passare il confine sloveno e andare a trovare la sua tomba, ora a Nova Goriza. Là, nessuno sapeva indicarmi dove fosse il cimitero Rožna dolina finché, gettando lo sguardo giù dal ponte che stavo attraversando vidi delle pietre bianche spezzate tra due alti cipressi. Mi ricordai allora che il padre di Carlo aveva piantato quei due alberi sulle tombe dei figli, morti a breve distanza l’uno dall’altro, ad indicare le vette spirituali raggiunte da loro in vita.
Scesi di corsa e saltato il muro, entrai nel cimitero ebraico abbandonato. Trovai la tomba, con la lapide inclinata, in uno spazio libero dalle erbe selvatiche e dai rovi, sotto il cipresso. Non so se, da allora, qualcosa è stato fatto per ridare alla sua memoria lo spazio che merita.
Il peso [il testo introduttivo de La persuasione e la rettorica]
Un peso pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio; poiché quant’è peso pende, e quanto pende dipende. Lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua dipendenza. Lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del più basso, e scenda indipendente fino a che sia contento di scendere. Ma in nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta, e vuole pur scendere, ché il prossimo punto supera in bassezza quello che essa ogni volta tenga.
E nessuno dei punti futuri sarà tale da accontentarlo, che necessario sarà alla sua vita, fintanto che lo aspetti (óphra án méne autón) più in basso; ma ogni volta fatto presente, ogni punto gli sarà fatto vuoto d’ogni attrattiva non più essendo più basso; così che in ogni punto esso manca dei punti più bassi e vieppiù questi lo attraggono; sempre lo tiene un’ugual fame del più basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere. Che se in un punto gli fosse finita, e in un punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro, in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso.
La sua vita è questa mancanza della sua vita; quando esso non mancasse più di niente, ma fosse finito, perfetto: possedesse se stesso, esso avrebbe finito d’esistere. Il peso è a se stesso impedimento a posseder la sua vita, e non dipende più da altro che da se stesso in ciò che non gli è dato di soddisfarsi. Il peso non può mai esser persuaso.
Né alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, ché tanto è vita quanto si continua, e si continua nel futuro quanto manca del vivere. Che se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l’aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe d’esser vita.
Tante cose ci attirano nel futuro, ma nel presente invano vogliamo possederle. – Io salirò sulla montagna; l’altezza mi chiama, voglio averla; l’ascendo, la domino; ma la montagna come la posseggo? Ben son alto sulla pianura e sul mare; e vedo il largo orizzonte che è della montagna; ma tutto ciò non è mio, non è in me quanto vedo, e per più vedere non mai “ho visto”: la vista non la posseggo. – Il mare brilla lontano; in altro modo esso sarà mio; io scenderò alla costa; io sentirò la sua voce; navigherò sul suo dorso… e sarò contento. Ma ora che sono sul mare, “l’orecchio non è pieno d’udire”, e la nave cavalca sempre nuove onde, “un’ugual sete mi tiene”. Se mi tuffo nel mare, se sento l’onda sul mio corpo – ma dove sono io non è il mare; se voglio andare dove è l’acqua e averla, le onde si fendono davanti all’uomo che nuota, se bevo il salso, se esulto come un delfino, se m’annego – ma ancora il mare non lo posseggo; sono solo e diverso in mezzo al mare.
Né se l’uomo cerchi rifugio presso alla persona ch’egli ama, egli potrà saziar la sua fame; non baci, non amplessi, o quante altre dimostrazioni l’amore inventi, li potranno compenetrare l’uno dell’altro: ma saranno sempre due, e ognuno solo e diverso di fronte all’altro.
Gli uomini lamentano questa loro solitudine. ma se essa è loro lamentevole è perché essendo con se stessi, si sentono soli; si sentono con nessuno e mancano di tutto.
Dialogo della salute
Carlo Michelstaedter scrisse questo dialogo durante la stesura della tesi di laurea. Lo concluse il 7 ottobre 1910, dieci giorni prima di togliersi la vita.
Prima parte. L’intero testo è accessibile qui.
1. “Dio vi dia la salute”, augurò il custode del cimitero ai due amici che uscivano.
Nino protestò:
– Perché irridi vecchio al nostro stato mortale? ben sai tu che a nulla ci giova la salute.
Il vecchio taceva e guardava le sue tombe.
– Pure – disse poi crollando il capo – pure Dio vi dia la salute.
I due amici uscirono e s’incamminarono in silenzio per la via deserta.
Nino ruppe il silenzio quasi continuando.
– Parlava in buona fede, eppure il suo augurio suona irrisorio.
Rico. Tale in fatti suona a noi che non l’abbiamo la salute.
Nino. Ma l’avessimo anche, non essa ci salverebbe dall’estremo passo che il vecchio ha in sua balia.
Rico. No certo. Ma è diverso per chi è sano e per chi è ammalato.
Nino. E che importa a me più esser sano o ammalato se devo morire? O se pur c’è una differenza più mi sarà doloroso abbandonare questo mondo che a me sano sarà lieto, che abbandonare un luogo di tormento per cessare nell’incoscienza il dolore del male. Ché se la morte è il supremo dei mali è per la via degli altri mali ch’io potrò prepararmi a sopportarlo.
Rico. Dici bene, ma dimmi: come si fa a sopportare il male? Forse che perché io lo sopporti esso diventa meno male di quanto fosse prima o come avviene?
Nino. Certamente esso resta quale è, ma io non lo sento più come prima lo sentivo.
Rico. Così dunque come il freddo è male quando il tuo corpo s’irrigidisce e il sangue non circola più e tu senti dolore a ogni estremità, ma se tu con la ginnastica e l’abitudine indurisci il corpo prima e quando ogni volta nel freddo tu non cerchi riparo, ma cerchi col movimento di far circolare il sangue, tu potrai sopportar quello senza dolore e non ti sarà più un male.
Nino. Così appunto.
Rico. E lo stesso si può dire del caldo, e delle privazioni, e della fatica, e dell’insonnia, e di tutte le altre cose simili.
Nino. Certo.
Rico. Ma dimmi se ciò che può esser male e può non esser male, può esser male per me e non esser male per te, e per me può esser male talvolta e talvolta no, lo possiamo chiamare male (per sé stesso) – così da esser male sempre e per ognuno, e da ammalare chi ne sia affetto?
Nino. No certo.
Rico. Ma chiameremo invece tristo e (in sé) ammalato colui cui è male ciò che per gli altri non è male, poiché con la sua presenza fa diventar male ciò che non è male.
Nino. Così sembra anche a me.
Rico. Vedi ora se come per il corpo sano le cose delle quali parlavamo non sono mali, ma per l’ammalato, non siano così anche tutte le altre cose per le quali gli uomini si dolgono come la solitudine, l’oscurità, la povertà, la cattiva opinione del prossimo e tutti i mali del corpo e il supremo male infine, la morte per l’uomo tristo bensì mali, per l’uomo sano cose indifferenti?
Nino. Io sono con te finché tu fai il parallelo fra le cose che il corpo sano sopporta e ii corpo invalido fugge come a lui perniciose, e quelle cose del mondo esterno che se affliggono l’animo debole non toccano l’animo forte; e fin qui ben credo che la salvezza dell’uomo sia in quella “salute” che il vecchio ci augurava.
2. Ma ci son cose che distruggono la salute stessa e del corpo e dell’anima, contro le quali né forza fisica vale né animo libero, cose che ti tolgono appunto questa libertà e questa forza e ti tengono debole e miserabile in lor balìa. Che ti valgono le membra pronte e sicure con lungo studio a ogni lavoro esercitate e indurite a sopportar gli insulti delle intemperie, se un accidente qualsiasi, se una malattia può rendertele per sempre e deboli e dolorose, e in brev’ora toglierti del tutto la vista e il godimento di questo caro mondo? Quale forza fisica o quale virtù ti potrà mai salvare dalla morte?
No: val meglio coglier l’attimo che fugge, sani o malati, e fuggire con lui, quando che voglia il caso.
Rico. Bene! io ammiro come ciò che dici tu assomigli così a ciò ch’io vedo, che mentre parli parmi quasi parlar io per tua bocca. E come uno per ciò che con le mani o con l’orecchio avverte si fa più sicuro di ciò che appare all’occhio, così io trovo nelle tue parole la riprova di ciò ch’io ho sempre creduto capire pur non essendo sicuro del mio possesso. – Ma, per Dio, ora che ho assaporato questa gioia io non ti lascerò finché non avrò vuota la coppa. Poiché che mi giova ch’esso sia in parte sicuro il mio possesso se non è in tutto? Per piccola che sia l’apertura ci sfugge il nostro possesso, ed io mi sento nuovamente vuoto ora, e mi pare che quanto io t’ho detto, e quanto tu m’hai detto sia tutto inutile perché non è tutto. Non pensi anche tu questo?
Nino. Sì anch’io lo sento.
Rico. In ciò che tu hai detto c’è pur sempre qualche cosa di diverso da quant’io dicevo; e io non posso a meno di sentir tutto quanto hai detto come contrario a me per quanto tu abbia detto cose simili a quanto io penso. Via! poniamo qui insieme tutto ciò che ci par giusto e cerchiamo di renderlo tutto identico, ché né io avrei più pace senza questo, ma mi sembrerebbe d’esser diverso da me stesso, anzi a me stesso contrario – né tu, com’io credo.
Nino. No di certo. Ma io ho detto or ora ciò che mi sembra giusto così che non ho che dire. Va tu innanzi.
3. Rico. Bene: tu hai parlato di accidenti, di malattie, come di mali reali, che per la loro presenza ammalano chi li ha per sano che fosse prima, e della morte come di male supremo che ci toglie non pur la salute ma insieme toglie ogni valore alla distinzione fra salute e malattia. – È così?
Nino. Appunto.
Rico. Ora dimmi: sai tu indicarmi la malattia cosa sia? Poiché se son mali bisogna bene che siano qualche cosa.
Nino. Certamente: quali la tisi o la polmonite o il tifo…
Rico. Bene – ma ognuna di queste che cos’è?
Nino. Dicono che siano bacilli.
Rico. Ma questi bacilli come sono essi dei “mali”, che cos’è il loro esser mali?
Nino. Perché sono perniciosi all’uomo.
Rico. Allora sono mali quando l’uomo li ha addosso?
Nino. Certo.
Rico. Ma quando non sono addosso all’uomo non sono né mali né beni.
Nino. Di necessità.
Rico. Allora nuovamente abbiamo bensì uomini ammalati, ma non abbiamo il male. Ma dimmi, gli accidenti cosa sono?
Nino. Sono dei mali.
Rico. Ma è forse l’accidente una cosa che sta per sé, o è una qualità di qualche cosa?
Nino. No, ma è quando due cose si toccano così che una riesca perniciosa all’altra o il contatto pernicioso ad ambedue.
Rico. Anche qui dunque abbiamo una o due vite guastate in modo da non poter più vivere così come prima vivevano, ma il male non l’abbiamo.
E la morte infine, t’è mai accaduto d’imbatterti nella morte?
Nino. Perché vuoi essere ingeneroso con me, e infierire contro il mio errore mentre io non v’insisto?
Rico. Perdonami, non era questo nelle mie intenzioni; ma combattevo – forse con troppa acrimonia – contro l’errore appunto perché lo sentivo ormai staccato da te e vedevo invece come tu procedevi con me e a volte mi precorrevi nella direzione presa.
Nino. Lo credo, volentieri. Ma prosegui.
Rico. La morte dunque a sua volta ci si dissolve in mano, e crediamo parlar della Morte, quando parliamo di questa o quella cosa alla quale è tolto di continuare nel futuro così come era prima. Non mali che colpiscono uomini sani, ma uomini tristi e mortali, che secondo la loro natura s’ammalano e muoiono.
4. Nino. E sia pure! lasciamo la morte e il male, fantasmi inconsistenti. Ma, per Dio, chi si sente gelare mani e piedi, non può mettere in dubbio che il freddo non sa un male certo; e per l’uomo che ha mezzi polmoni consunti, la buona tisi è la perfida invitta nemica; e colui che le persone amate e le sue cose care si sente per sempre strappare, e questi monti luminosi, e questo azzurro del cielo, e questi verdi piani, e questo mare scintillante vede impallidire e spegnersi nel tramonto che non ha aurora quegli non si chiede la morte che sia, e se sia un male anche per gli altri o un bene; ma questo solo sa che niente gli vale più della vita, perché niente può dargli ciò che il cessar della vita gli toglie.
Rico. Tutto ciò è ben così come dici; ma da ciò quale massima trai per la vita?
Nino. Quale massima? Nessuna massima! quando ogni argomento è impotente davanti alla sorte che ci oltraggia – ma vivete e godete, che il tempo stringe, e l’ora s’avvicina che ogni cosa vi sarà tolta!
Rico. Dunque pur sempre una massima! Ti ricordi come hai combattuto l’augurio del buon vecchio prima giù nella valle fredda del cimitero? Tu parlasti allora d’una vita visitata da tutti i mali che ci insegnasse a sopportar l’estremo male, la morte ineluttabile.
Nino. E vero mi sono contraddetto, ma…
Rico. Più a parole che in realtà. Difatti come prima così ancora ti ribelli all’inconcepibile passaggio dalla vita alla morte; ed è questa la giusta ribellione dell’uomo che vive. Soltanto che nella valle senza sole adattavi secondo la tua fantasia la vita alla morte; ora che questa luminosa natura ha riaffermato in te i suoi diritti vitali, vuoi quasi col godimento esaurire la vita prima di morire.
Nino. Può ben esser così.
5. Rico. Bene: è più giusta questa posizione per l’uomo. Noi abbiamo parlato del male e della morte, e non siamo giunti a dire cosa sono e perché siano da maledire, ma soltanto che ci tolgono il godimento delle cose della vita. Per saper dunque il male temuto dagli uomini che sia, bisogna ben che vediamo che cos’è questo bene, che l’esserne privi è un male sì grave. Dice il poeta che ogni uomo cerca morendo la fuggente luce. Così tu prima girando lo sguardo amoroso intorno, hai parlato del dolore d’abbandonare tutto ciò. Abbandonare? è forse tuo tutto ciò?
Nino. Mio no, secondo il diritto, ma mio più veramente.
Rico. Come questo? forse che s’io ne tolgo un pezzo tu non sei più quello che eri?
Nino. No certamente. E mio perché lo vedo e mi rallegro.
Rico. Se l’hai visto e ti sei rallegrato, che ti toglie più lo spegnersi della luce?
Nino. Mi toglie di vederlo ancora.
Rico. Allora quanto vedesti in passato non t’è mai bastato.
Nino. No certamente, ma è sempre come fosse una cosa nuova.
Rico. Né quanto ora vedi ti basta?
Nino. No. Ma ho sempre desiderio di vederlo ancora.
Rico. E credi che in futuro lo potrai mai contemplare a sazietà?
Nino. Credo che la cosa non potrà mai esser diversa da qual è ora.
Rico. Bene dunque dice l’Ecclesiaste: l’ “occhio non s’è mai stanco di vedere”. Che hai dal più guardare se per quanto guardi non puoi mai dire: “ho” visto? E similmente le cose che tu dici tue come sono tue?
Nino. Sono mie perché nessuno me le può prendere.
Rico. Tue allora come sarebbe tuo un campo se lo avessi?
Nino. Così.
Rico. Pure il campo è tuo anche quando tu non lo tieni.
Nino. Ma lo tengo di diritto, lo tengo perché posso farne quello che voglio mentre gli altri non lo possono fare.
Rico. Allora tuo non è il campo, ma tuo è il diritto di fare di lui quello che più ti piace, cioè la sicurezza che altri non può farlo in vece tua e impedire te dal farlo. Ma tu solo puoi coltivano e trarne i frutti che ti sono utili! Il campo ti rappresenta la sicurezza di questi frutti nel futuro.
Nino. Appunto. E i frutti sono miei.
Rico. Tuoi come ogni altra cosa che altri non ti possa prendere: la sicurezza che altri non ti torrà d’usarne.
Nino. Certo.
Rico. Ma ora ammettiamo che tu viva nel paese dell’abbondanza, dove il peso delle frutta schianta i rami degli alberi, dove, purché tu allunghi le braccia, ed il pasto delizioso è pronto; e la terra è così ricca e il sole così generoso, che ogni cosa germoglia da sé senza la fatica dell’uomo; dove le bestie s’adagiano ai piedi dell’uomo perché questi ne faccia quanto più gli aggrada; dove gli uomini vivono in continuo riposo godendo l’uno dell’altro e godendo ognuno della natura, senza leggi che limitino a ognuno il suo diritto, poiché la terra largisce a ognuno più di quanto gli occorra senza chieder niente – dimmi non prenderesti ogni tua cosa con lo stesso piacere dalle mani prodighe della natura che dalle avare mani della legge umana?
Nino. Certo con più piacere.
Rico. Poiché la ricchezza della natura ti darebbe ben più valida sicurezza pel futuro che la legge degli uomini.
Nino. Certamente.
Rico. Epperò in quel beato paese ti diresti più ricco che qui, e più cose sarebbero tue.
Nino. Senza dubbio.
Rico. Dunque la questione del diritto non ci determina la proprietà che in riguardo alla sicurezza verso gli altri uomini. Quando di questa non abbiamo più bisogno anche il diritto perde ogni significato. Come è dunque tua una cosa tua, se prescindiamo da ciò? Che ti serve che essa sia tua? che te ne fai?
Nino. E mia perché essa stessa mi rappresenta in sé la sicurezza di poter o mangiandone soddisfar la mia fame, o usandone in altro modo provvedere in futuro ai miei bisogni.
Rico. E se usatone una volta la cosa non ti serve più, ci tieni ancora a dir che è tua?
Nino. No certamente.
Rico. Dunque è tuo ciò che t’è caro e t’è caro ciò che potrà in futuro soddisfare un tuo bisogno.
Nino. Precisamente.
Rico. Tuo è ciò di cui non puoi fare a meno. Ma se tu non ne puoi fare a meno, non tu le “hai” in tua potestà, ma esse “hanno” te, e tu dipendi da loro che non puoi sussister senza di loro. E le persone care non forse allo stesso modo ti sono necessarie e tu sei necessario a loro, ma il vostro amore non c’è chi lo possa saziare – né baci, né amplessi, né quante altre dimostrazioni l’amore inventi vi possono compenetrare più l’uno dell’altro? Ma sempre vi tiene un eguale bisogno vicendevole.
Così ogni cosa è nostra solo perché ne abbiamo bisogno, solo perché ne usiamo; e mai “abbiamo” usato così delle cose della vita, da non desiderare alcuna cosa, ma d’ “aver la nostra vita in noi”.
Perché non possediamo mai la nostra vita, l’aspettiamo dal futuro, la cerchiamo dalle cose che ci sono care perché “contengono per noi il futuro”, per essere anche in futuro vuoti in ogni presente e volgerci ancora avidamente alle cose care per soddisfar la fame insaziabile e mancare sempre di tutto. Finché la morte togliendoci da questo gioco crudele, non so cosa ci tolga, se nulla abbiamo. Per noi la morte è come un ladro che spogli un uomo ignudo.
6. Nino. La vita ci toglie, questo che tu dici crudele gioco. Questo è la cara, la dolce vita: mancar di tutto sì, e tutto desiderare – questa è la vita. Che se non ci volgessimo al futuro, ma avessimo tutto nel
presente, appunto non vivremmo più. La vita sotto qualunque forma, come anche sia, a prezzo di qualunque dolore “si vive volentieri”.
Rico. Si vive volentieri, cioè si vuoi viverla; come l’acqua vuole il basso, e senza alcuna forma casca, scorre, filtra, purché scenda. E dove s’arresta, e quando, così che senza impedimento abbia abbastanza della discesa?
Nino. Ma purché scenda gode.
Rico. Ma in ogni punto della sua discesa tu la puoi immaginare ferma con un infinito desiderio del più basso. – Dove allora la soddisfazione?
Nino. Ma lo scendere stesso è dolce in ogni istante, come m’è dolce veder la natura, anche se non mi so mai saziar di vederla, e m’è dolce il cibo, anche se in breve riavrò fame. E questo è la soddisfazione.
Rico. Hai mai visto un bue beccar grano o un gallo ruminar fieno?
Nino. No davvero.
Rico. E come mai?
Nino. Ma nemmeno lo potrebbero.
Rico. E se lo potessero?
Nino. Non lo farebbero in ogni modo, perché al gallo piace il grano, al bue il fieno.
Rico. Hai mai visto un bue fare un’indigestione di fieno?
Nino. No.
Rico. E come lo sa?
Nino. Ma ne prende tanto quanto non gli possa far male.
Rico. Resta sempre quello che hai detto: vuol dire che lo prende perché gli piace.
Nino. Sì.
Rico. Allora è forza dire che gli “piace” fin tanto che non gli fa male.
Nino. Sì.
Rico. E se ne va via con la fame?
Nino. No.
Rico. Dunque gli piace quello appunto che è fatto pel suo corpo e tanto quanto. E quando corre, salta, va a bere al ruscello, insegue un altro animale o dorme, si prende la femmina e ne usa, credi che tutto ciò gli sia dolce, piacevole, o che gli sia di peso?
Nino. Credo che se non gli fosse piacevole non lo farebbe.
Rico. Ma anche ognuna di queste cose gli è un piacere”?
Nino. Appunto.
Rico. Ed è perciò che una bestia libera non corre mai fino a perder le forze, né s’indebolisce nella pigrizia, né scoppia per troppo bere, né muore di sete, né si riduce all’impotenza per l’astensione dal giacere, né s’esaurisce nell’abuso, né insegue e ammazza tutti gli animali che incontra, né si lascia venire a mancar il cibo; ma il “piacere” le insegna ogni cosa eon mirabile esattezza e quando e fin dove sia da fare.
Nino. E ben per questo ch’io dicevo le lodi del piacere.
Commenti recenti