Agamben, Elogio della profanazione
In questa potente indagine genealogica del sacro, Agamben demistifica il significato della religione, mostrando come essa non sia affatto ciò che lega l’umano e il divino (religio), ma al contrario, ciò che li tiene separarati (relego). Nella sua analisi, il frammento su capitalismo e religione di Walter Benjamin contenuto nelle Tesi sul concetto di storia, serve a precisare la natura del capitalismo, inteso non tanto – come voleva Max Weber – come un gigantesco processo di secolarizzazione del numinoso, ma come un fenomeno religioso esso stesso, nato all’interno del cristianesimo e divenutone poi il parassita.
Walter Benjamin, Capitalismo e religione
Due saggi, di Giorgio Agamben e Giorgio Fontana, sul frammento benjaminiano Capitalismo e religione.
Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di Benjamin.
Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre caratteri:
1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha signigicato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea.
2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto.
3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa.
Ugo Mattei, Cina, tra riti e legge
Che la Cina stia diventando potenza di primissimo piano in corsa per l’accaparramento di risorse globali per un futuro che promette ben poco di buono non è in discussione. Basta girare l’Africa e l’America Latina per cogliere l’impressionante portata della sua presenza, ma soprattutto la rispettosa accoglienza in generale riservatale dalle popolazioni locali. I cinesi, infatti, non presentano il volto arrogante dell’Occidente. Non impongono riforme strutturali o l’introduzione di una retorica dei diritti e della democrazia. La Cina condivide col Sud del mondo una lunga storia di vittimizzazione da parte dell’Occidente e una tale condivisione crea legami profondi. Che l’Occidente abbia imparato a considerare la Cina come un proprio pari, dimostrando il dovuto rispetto per un così importante «condomino globale» è assai più dubbio.
Il diritto offre un’eccellente finestra per osservare la dialettica CinaOccidente, indagando quell’assurdo atteggiamento di superiorità globale che abbiamo sviluppato auto-promuovendoci campioni della «legalità» e infliggendo la nostra retorica a tutte le periferie. L’ingresso sella Cina al Wto, avvenuta nel 2002, è stata preparata da parte cinese attraverso un incredibile numero di riforme del proprio sistema giuridico, non soltanto riforme legislative di tipo formale (abrogate centinaia di leggi contrarie allo spirito del libero commercio internazionale, sostituite con liberalizzazioni in diversi settori dell’economia; introdotte leggi che definiscono strutture proprietarie private, inclusa la proprietà intellettuale) ma anche riforme strutturali, come quelle relative alla formazione dei giudici e all’insegnamento accademico del diritto.
Lin Hai 林海. Lo Chia-Luen, Il punto di vista confuciano sull’integrazione oriente-occidente
In questi giorni ho ripreso in mano un vecchio libro di storia della filosofia orientale. Rileggendolo, ho sostato con sorpresa sulle parole con cui il prof. Lo Chia-Luen aveva concluso il capitolo dedicato al pensiero cinese, parole spiazzanti per chi è abituato a pensare in termini di identità e omologazione. Con finale confuciano.
Le componenti e le manifestazioni del pensiero che abbiamo ricordato costituiscono la materia di cui è sostanziata la civiltà cinese. Esse hanno meriti e demeriti, comportano vantaggi e svantaggi, produssero fortune e sventure, risultati ambiti e conseguenze spiacevoli.
Ma quel che più importa è che noi ci troviamo in una nuova èra di contatti, impulsi e integrazioni culturali. L’oriente non è più a oriente e l’occidente a occidente, poiché la diminuzione delle distanze e le sempre più ingegnose invenzioni per trasmettere il pensiero e diffondere le idee costringono continuamente i due titanici gemelli ad incontrarsi ad ogni momento.
La nascita di una nuova civiltà, forse di una civiltà mondiale, è già annunciata. Nulla dell’antico può conservare la sua antica forma o sostanza, perché è antico, e nulla del nuovo può sorgere e permanere scacciando completamente il passato, in quanto tale passato permane e continua a vivere in coloro che lo hanno ereditato.
Il che fa parte del grande schema dell’evoluzione, che significa semplicemente mutamento e non implica mai progresso. Il progresso presuppone uno scopo, un ideale posto davanti o dietro di noi. Nel gigantesco processo di formazione di una nuova cultura, è essenziale che gli intellettuali di tutto il mondo conservino un’ampia visione della vita e alti ideali. Solo così potranno essere accomunati alla nobile missione di accelerare l’evoluzione culturale verso la perfezione del genere umano.
Lo Chia-Luen, Caratteristiche generali del pensiero cinese, in Storia della filosofia orientale, a cura di Sarvepalli Radhakrishnan, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 702-703.
Su Zagrebelsky, Simboli al potere
Attraversando il segno simbolico, si dischiude una dimensione supra-sensibile e supra-razionale dove gli esseri umani incontrano un mondo che è per loro realtà, come il divino e il diabolico, l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo, l’infinitamente alto o l’infinitamente profondo, la giustizia e l’ingiustizia, l’ordine e il caos, il potere e l’arbitrio, l’amore e l’odio, l’unione e la divisione, il puro e l’impuro, la riscossa e la rassegnazione, la pace e la guerra: realtà anch’essere, per chi le percepisce, le desidera o le teme, pur se appartenenti ad un altro “ordine di realtà” rispetto a quelle empiriche e razionali
Gustavo Zagrebelsky, Simboli al potere
Nelle democrazie ci sono molti che vorrebbero vedere il sopravvento di un mito chiuso. Alcuni sono isterici, come i membri della John Birch Society che vorrebbero imporre a tutti il loro mito della “way of life” americana, o come il querulo teutonismo che una generazione fa accolse con entusiasmo la formulazione della mitologia chiusa nazista del “Mito del ventesimo secolo” di Alfred Rosenberg….Poi ci sono gli intellettuali nostalgici, generalmente con forti tendenze religiose, che sono abbagliati dall’unità delle cultura medievale e vorrebbero assistere a una sorta di “ritorno” ad essa. Poi vengono le persone che sarebbero ben felici di far parte di quella sorta di élite che un mito chiuso produrrebbe. E ancora, ci sono gli individui che credono sinceramente nella democrazia e sono dell’opinione che la democrazia sia svantaggiata dal fatto di non avere un programma chiaro e indiscusso delle proprie credenze. Ma la democrazia difficilmente funziona come un mito chiuso…Una mitologia aperta non può avere un canone.
Northrop Frye, Cultura e miti del nostro tempo
Il grande antropologo statunitense Eric R. Wolf (1923 – 1999) esortava i colleghi ad “esplorare il nesso tra idee e potere”, ad esaminare il modo in cui “le idee divengono monopolio dei gruppi di potere” e come “le vecchie idee sono riformulate alla luce della diversità di contesto, mentre le nuove idee sono presentate come verità ancestrali”. Per capire la storia ed il presente di una società, bisogna prima di tutto comprendere le conseguenze dell’esercizio del potere ed analizzare l’intersezione di cultura e potere nella storia del presente.
Elogio del dabao
PACCHETTO Il dabao è grosso modo l’equivalente dell’americano doggy bag. Ma la ‘busta per il cane’ è in Cina una rispettata e praticatissima usanza. Da, preparare, e bao, pacchetto: il termine non ha accezioni negative o ironiche; con un pragmatismo e un senso della sintesi tutti cinesi, l’espressione descrive un gesto normale e civile. Il cibo che si è regolarmente pagato al ristorante ti appartiene e sprecarlo è ritenuto, se non immorale, almeno inopportuno, o non bello. Sembra quasi che emergano, in una Cina che nelle città conosce una prosperità che mai ha sperimentato prima, le memorie della fame patita per secoli. Anche nel Novecento, quando i disastri che hanno accompagnato il Grande Balzo in Avanti (1958-1960) spinsero la Repubblica Popolare di Mao Zedong all’inedia di massa nelle campagne.
Cina
Quattordici minuti di pura poesia.
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Il dolore e la fatica
Zhou Yunpeng canta Oh, China Slow down.
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Immagini tratte da China Digital Times
Il prepuzio del buon cittadino
I maschi greci sopportavano anche dolorose operazioni chirurgiche pur di ostentare un prepuzio conveniente a un uomo libero.
E’ un tratto biologico dell’homo sapiens il fatto che, in gioventù, quella parte del pene che chiamiamo prepuzio assuma una notevole lunghezza, sino a più di tre quarti di quella del pene. Questo fatto anatomico non è privo di conseguenze culturali o artistiche. Nella sua ricerca sulle immagini genitali nella pittura vascolare greca, Kenneth Dover nota come le rappresentazioni di soggetti interessanti, virtuosi, eroici o divini mostrino sempre un prepuzio di lunghezza impressionante. Potrebbe trattarsi di un preciso riferimento a una norma etica, un tratto culturale fortemente radicato, centrato su un’idealizzazione del pene; oppure, in altre immagini, la rappresentazione realistica di un prepuzio deliberatamente allungato. In ogni caso, un prepuzio ben proporzionato, per i greci, era molto lungo, con una caratteristica forma conica o tubolare.
David Harvey, Rebel cities: From the Right to the City to the Urban Revolution
Dalla Parigi del 1871 alla Praga del 1968 al Cairo nel 2011, per finire con le vie di New York, le città sono da lungo tempo il terreno di coltura dei movimenti radicali. Nel corso del tempo le proteste urbane nascono da una infinità di spunti diversi, dalla disoccupazione alla fame, alla privatizzazione alla corruzione. Ma c’entra forse anche la stessa geografia delle città? Una questione particolarmente accesa questa settimana, mentre il movimento Occupy si prepara a una serie di grandi manifestazioni in tante città del paese per il Primo Maggio.
Il geografo e sociologo David Harvey, professore di antropologia al Graduate Center della City University di New York, uno dei venti studiosi in campo umanistico più citati di tutti i tempi, ha passato un’intera vita a studiare il modo in cui si organizzano le città, e poi cosa vi accade. Il suo nuovo libro Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution, esamina in profondità gli effetti delle politiche finanziarie liberiste sulla vita urbana, il paralizzante debito dei ceti medi e a basso reddito d’America, la devastazione dello spazio pubblico per tutti i cittadini operata da uno sviluppo sfuggito al controllo.
A partire dalla domanda: Come organizziamo una città? Harvey esplora l’attuale crisi del credito e le sue radici nella crescita urbana, e come questo processo abbia di fatto reso praticamente impossibile qualunque azione politica nelle città per gli ultimi vent’anni. Harvey si propone come esponente di punta del movimento per il “diritto alla città”, l’idea secondo la quale il cittadino deve poter intervenire sui modi in cui le città crescono e sono strutturate. A partire dalla Comune di Parigi del 1871, quando la cittadinanza rovesciò l’aristocrazia prendendo il potere, Harvey ricostruisce i modi in cui le città si sono riorganizzate, e come potrebbero farlo, per diventare più inclusive e giuste. Abbiamo incontrato Harvey per parlare di Occupy Wall Street, della distruzione operata da Bloomberg nelle trasformazioni di New York City, su come si possa ripensare la città più vicina a come la vorremmo.
Mike Wesch, An anthropological introduction to YouTube
Per questa lezione il professor Wesch ha ottenuto nel 2008 il riconoscimento di “miglior professore dell’anno”. La lezione dura circa 55 minuti, è in inglese e sottotitolata in inglese. Se non volete seguirla tutta, guardatevi almeno l’imperdibile finale (53:00) in cui il prof e i suoi studenti della Kansas University ballano la Numa dance.
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