La sempre utile storia del debito pubblico italiano, per ricordare quando, come e perché il nostro debito è diventato ciò che è. Tratto da Il Manifesto del 10 agosto 2016.
Nel 2015, secondo l’Istat, le famiglie che in Italia vivevano in povertà assoluta sono diventate 1 milione e 582 mila, pari a 4 milioni e 598 mila persone, il numero più alto dal 2005. Sempre nel 2015, una ricerca Censis-Rbm calcola in oltre 11 milioni (coinvolto il 43% delle famiglie italiane) le persone che hanno dovuto rinviare o rinunciare a cure mediche adeguate, a causa delle difficoltà economiche. Nel medesimo anno, come in tutti gli anni precedenti, lo Stato ha pagato 85 miliardi di euro solo per gli interessi sul debito pubblico.
C’è connessione fra queste cifre? Chi dice di no non ha mai fatto parte né della categoria della povertà assoluta, né di quella che fatica a curarsi adeguatamente. E’ per questo che considera il debito pubblico italiano come essenzialmente dovuto alla dissennatezza collettiva dell’aver vissuto per anni «al di sopra delle proprie possibilità» e trova ora normale doverne pagare lo scotto (interessi compresi), sapendo che ricadrà su ben precise fasce di popolazione. Ma è andata davvero così? Naturalmente no e pochi dati bastano a dimostrarlo.
Uno stralcio de L’ordoliberalismo 2.0, articolo molto utile per introdurre alla storia, ai protagonisti e ai concetti chiave di una filosofia economica originale, distinta (ma intrecciata) da quella neoliberale di Mises, Hayek e Friedman. De Michelis parte dalla lettura foucaultiana del liberalismo (Nascita della biopolitica, 1978), illustrando in modo convincente la natura pedagogica dell’ideologia ordoliberale e il funzionamento dei suoi meccanismi totalizzanti. Dal Rasoio di Occam.
Di ordoliberalismo si parla spesso anche se – più spesso ancora – si usa il termine generico di neoliberismo per definire le politiche economiche di questi ultimi trent’anni, dimenticando la stretta connessione e convergenza (al di là di alcune pur importanti differenze) tra queste due ideologie – tra queste due biopolitiche. Mario Monti si autodefinisce ordoliberale. Draghi lo ha detto di se stesso e della Bce («La costituzione monetaria della Banca centrale europea è saldamente ancorata ai principi dell’ordoliberalismo»). Renzi lo è con il JobsAct (e Hollande con la sua legge sul lavoro) e con la preferenza per il governo delle élite (anche se non lo è quando nega il decentramento del potere). Lo è ovviamente la Germania di ieri e soprattutto di oggi e quindi l’Europa dell’austerità, del pareggio di bilancio, delle riforme strutturali – che sono strutturali e strutturanti (funzionali) per l’espansione incessante del capitalismo, ma de-strutturanti per la società, la democrazia e per i diritti civili, politici e sociali.
In questa intervista al fisico Francesco Sylos Labini, i redattori de La Mela di Newton discutono della scientificità dell’economia neoclassica e dell’egemonia culturale che l’ha imposta senza essere scalfita dalle smentite della realtà, a partire dalla grande crisi del 2008.
La riflessione si conclude con una interessante riflessione sull’applicazione dei principi dell’economia neoclassica al finanziamento della ricerca e alla valutazione che massimizza il conformismo e insterilisce la capacità di produrre innovazione – proprio perché cambiamento e progresso sono portati dalla diversità, non dalla conformità – ottenendo stagnazione economica, contrazione delle opportunità per i giovani e impoverimento delle aree periferiche.
Un modello teorico che ambisca a diventare una spiegazione scientifica della realtà dovrebbe produrre predizioni su fatti nuovi che permettano di controllarne l’affidabilità ed eventualmente confutarlo. Il successo empirico è un buon indicatore, non certo infallibile, dell’alta probabilità che una teoria possa aver colto una qualche regolarità della realtà, e possa conseguentemente divenire utile per pianificare azioni sulla stessa realtà.
Nel discorso di insediamento del nuovo presidente di Confindustria un’idea ingegneristica, semplice e intuitiva (dunque inautentica), della produttività. Nell’articolo sottostante Bagnai mostra invece come la produttività non sia l’aumento di unità di prodotti per ora lavorata, ma una misura dipendente da variabili macroeconomiche.
Quale produttività?
Intanto vi ricordo che in economia il termine “produttività” ha tante accezioni, e che la produttività della quale si parla nel dibattito corrente è precisamente la produttività media del lavoro, definita come valore aggiunto per addetto, cioè: L’idea è quella di misurare quale sia il “rendimento” medio, in termini di produzione, dell’input di lavoro, con l’idea di per sé condivisibile che più è e meglio è.
Traggo dal blogAlloradillo! un breve commento alla decisione presa nel 2012 dall’Ecuador – l’orgoglioso paese sudamericano che si è sottratto al ricatto del debito e ha dato asilo a Julian Assange – di non trivellare il suolo di un’area protetta ricca di greggio e salvaguardarne la biodiversità. Un anno fa il presidente Correa aveva chiesto all’ONU di contribuire ad un progetto di valorizzazione e protezione dello Yasuni. Oggi, con i primi fondi raccolti, l’avvio dell’iniziativa in difesa della foresta pluviale.
L’Ecuador, uno degli stati che chiamiamo ‘non sviluppati’ o del ‘terzo mondo’, ha appena dimostrato di essere molto più sviluppato di tante nazioni. Mentre nel resto del mondo si abbattono dittatori e si sacrificano popoli interi all’oro nero, per l’ Ecuador l’ambiente e la natura sono più importanti del petrolio.
Mentre il resto del mondo fa a gara per accaparrarsi le ultime riserve di greggio, infatti, la repubblica sudamericana non le vuole più toccare. Soprattutto se queste si trovano in aree protette. Come il Parco Yasuní, la zona più ricca di biodiversità dell’intero pianeta. Un paradiso per insetti, uccelli, mammiferi e anfibi, che in un solo ettaro ospita fino a 655 specie di alberi, lo stesso numero di quelle in Usa e Canada messi insieme.
Più del 97% degli intervistati di un sondaggio ufficiale dell’Unione Europea ha respinto l’accordo TTIP dopo che Barack Obama e 29 capi di governo dell’Unione europea l’avevano sostenuto lo scorso anno. TTIP under pressure from protesters as Brussels promises extra safeguards, titola il Guardian del 19 febbraio 2015. Tratto da Wazars.
I profitti della crescita economica vengono sempre più spesso captati da un ristrettissimo numero di persone – nel 2016 l’1% della popolazione mondiale possiederà più del restante 99% – in grado di manipolare a proprio vantaggio i processi decisionali sempre meno trasparenti delle istituzioni internazionali.
In Italia, il sistema pensionistico pubblico è strutturato, seppur solo formalmente, secondo il criterio della ripartizione. Ciò significa che i contributi che i lavoratori e le aziende versano agli enti di previdenza vengono utilizzati per pagare le pensioni di coloro che hanno lasciato l’attività lavorativa. Per far fronte al pagamento delle pensioni future, dunque, non è previsto alcun accumulo di riserve.
È evidente che in un sistema così organizzato, il flusso delle entrate (rappresentato dai contributi) deve essere in equilibrio con l’ammontare delle uscite (le pensioni pagate).
In Italia, da un lato, il progressivo aumento della vita media della popolazione (fatto di per sé positivo, a meno che non si voglia ripristinare un “Monte Taigeto” di spartana memoria o una “rupe Tarpea” di latina memoria) ha fatto sì che si debbano pagare le pensioni per un tempo più lungo, dall’altro, il rallentamento della crescita economica ha frenato le entrate contributive.
Guido Viale illustra uno dei principi cardine dell’economia neoclassica e delle politiche neoliberali, in relazione alla Carta di Milano e alla lotta alla denutrizione in chiave Expo.
Trickle-down (in italiano, sgocciolamento) è il nome di una teoria economica, ma anche di una filosofia, che molti hanno conosciuto attraverso la parabola di Lazzaro che si nutriva delle briciole che il ricco Epulone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19-31). Dopo la loro morte le parti si sono invertite perché Lazzaro è stato ammesso al banchetto di Dio, in Paradiso, mentre Epulone è finito all’inferno a soffrire fame e sete. La teoria e la filosofia del Trickle–down in realtà si fermano alla prima parte della parabola. La seconda parte è compito nostro realizzarla; e non in Paradiso, dopo la morte, ma su questa Terra, qui e ora.
La storia del presente nelle parole di Federico Caffè sulle politiche di appoggio all’austerity di Berlinguer e la retorica dei “sacrifici” di Amendola.
La lettera-accusa di Caffé [pubblicata sull’Espresso dell’11 aprile 1982] punta, infatti, l’indice sulla posizione assunta dai dirigenti del PCI di fronte alle politiche antipopolari del governo Andreotti (aumento del 25% del prezzo della benzina, del 20% del gas, blocco per due anni della scala mobile, abolizione di festività, aumento delle tariffe dell’energia elettrica, telefoniche, postali) che, nell’autunno 1976, aveva scatenato la rivolta operaia. In quel frangente, la CGIL di Lama appoggiò le misure, mentre i dirigenti del PCI (celebri i discorsi davanti ai cancelli delle fabbriche di Napolitano – che ci saremmo poi abituati a vedere “commosso” – e Berlinguer, appunto) diedero il contributo fondamentale a fermare gli scioperi.
Enrico Berlinguer (1922 – 1984)
In coda al testo, un incisivo intervento di Luciano Barra Caracciolo che spiega la continuità tra le posizioni ordoliberali assunte dal PCI di Berlinguer e le politiche di contrazione del reddito e della protezione sociale più recenti. Testi preziosi per capire cos’è, nella sostanza, il riformismo.
Mi sembra che la caratteristica di maggior rilievo della linea economica del Partito comunista italiano, durante l’ultimo decennio, sia stata quella di un adattamento alle circostanze, in una sostanziale continuità di ispirazione.
Se si prescinde, cioè, dalle polemiche contingenti, lo spirito che condusse Togliatti ad affermare, nell’immediato dopoguerra, che occorreva soprattutto occuparsi della ricostruzione persiste nelle numerose occasioni di appoggio a misure governative rivolte a fronteggiare le difficoltà complesse e continue di questo tormentato decennio.
Mentre i TG nazionali annunciano l’imminente ripresa, commentando dati istat sulla “crescita”, ieri Die Welt ha pubblicato il grafico del prossimo bubble burst, la cui rappresentazione spiega le ragioni della dichiarazione di Alan Greenspan, direttore della Federal Reserve fino al 2006 e protagonista delle massicce operazioni di quantitative easing del Tesoro USA, che alcuni giorni fa aveva avvertito in un’intervista che «qualcosa di grosso sta[va] per accadere».
Il grafico mostra il grado di finanziarizzazione dell’economia tedesca (il Dax è infatti uno dei maggiori indici della borsa di Francoforte, mentre il Baltic Dry si riferisce ai traffici marittimi). Notare la linea rossa in caduta (economia reale) in corrispondenza dei bubble burst del 1987, 2000 e (soprattutto) 2009, poi considerare l’enorme ampiezza della bolla attuale, con il Dax che decolla e l’economia reale che non si è ancora ripresa dall’ultimo scoppio del 2009 (la linea rossa è più bassa di quanto fosse nel 2009.
Qui sotto invece, la situazione fotografata domenica 1 marzo 2015 dal Corriere della Sera e commentata entusiasticamente, come di consueto, dal ministro Padoan. La differenza tra le due rappresentazioni è che il grafico tedesco è analitico e permette di comprendere perché il PIL tedesco è in crescita, mentre il caso italiano è assolutamente impenetrabile e il dato della crescita pretende di essere una buona notizia per sé. Si comprende così come, anche se l’oscillazione dello 0,1% non fosse (com’è) un semplice effetto di registrazione del tutto indipendente dalle variazioni di ciò che intende misurare (insomma, l’economia è in stagnazione con punte di recessione, non in crescita), la notizia dell’aumento del PIL non sarebbe necessariamente una buona notizia.
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