Luciano Barra Caracciolo, Sindacato costituzionale sulla normativa in materia economica
Nel video sottostante, Caracciolo sembra quasi rispondere a simili obiezioni esaltando il valore della critica e citando Giuliano l’apostata e Spinoza, esegeti del corpus giuridico medievale e del Talmud, le “scritture del nemico” o comunque di “ciò che opprimeva un’intera comunità”.
Breve storia del denaro
Nel 2013, Passioni di Radiorai3, ha dedicato dieci puntate alla storia del denaro e all’evoluzione della finanza. Nel post le puntate e qualche approfondimento per un prossimo utilizzo didattico.
Quand balayez-vous tout ça, d’un coup de pied?
– À quoi bon? vous vous démolissez bien vous-mêmes.
Quando spazzerete via tutto?
A quale scopo? Vi distruggerete da soli.
Émile Zola, L’argent [frammento del colloquio tra il banchiere Saccard e il rivoluzionario “pantofolaio” Sigismond]
Il programma è iniziato con una citazione dal romanzo di Émile Zola, Il denaro [L’argent], storia di una grande speculazione nella Parigi di fine 800, che per la sua modernità si presta a spiegare il funzionamento dell’economia e delle sue disfunzioni ieri e oggi.
Sempre nella prima puntata, il film del 76′, Quinto potere di Sidney Lumet racconta il dominio del mondo della finanza sulla politica e sull’economia tradizionale.
Nelle puntate successive sono stati citati altri film, da Wall street a The bank, il nemico pubblico n.1, che già nel 2001 affrontava il tema dei derivati; e romanzi, da Furore di John Steinbek a Libertà di Jonathan Franzen, per raccontare l’economia americana fino nella crisi dei mutui subprime.
Il caso Irlanda, ovvero una crescita che crea miseria
Traggo da Voci dall’estero, la traduzione di un articolo di John Weeks – pubblicato su Social Europe – sulla ripresa economica dell’Irlanda che contiene un’analisi di esemplare chiarezza delle politiche mercantiliste attivate anche in Italia e dei loro esiti.
Vladimiro Giacché, Sulla privatizzazione disastrosa del Monte dei Paschi
Come spesso accade in Italia, dallo scandalo che ha investito il Monte dei Paschi di Siena si stanno traendo le conclusioni sbagliate. Ed è un vero peccato, perché si tratta di una vicenda emblematica, che ci racconta un pezzo importante della storia di questo paese negli ultimi 20 anni. Proviamo quindi a mettere un po’ in fila i fatti.
Nei primi anni Novanta il Mps viene privatizzato, come l’intero sistema bancario italiano, attraverso le Fondazioni bancarie (società miste pubblico-private senza fini di lucro, secondo la Sentenza n. 300/2003 della Consulta), che ne assumono il controllo azionario. A fine decennio, non vi sarà praticamente più alcuna banca pubblica (mentre ancora all’inizio degli anni Novanta il 73% del sistema bancario italiano era in mano pubblica).
Allora si disse che quelle privatizzazioni erano necessarie non soltanto per fare cassa e comprarsi il biglietto per l’Europa e la moneta unica, ma anche per ammodernare il nostro sistema bancario e renderlo più efficiente. Furono così privatizzate tutte le grandi banche commerciali, tutte le banche a medio-lungo termine (che facevano credito per gli investimenti delle imprese), e addirittura banche di sviluppo come il Mediocredito Centrale (mentre nel resto d’Europa gli Stati si guardavano bene dall’alienare le banche di sviluppo: si veda ad esempio il KfW tedesco).
Luigi Pandolfi, La logica del debito spiegata ai bambini
L’articolo di Luigi Pandolfi torna su meccanismi che chiunque abbia letto i giornali nell’ultimo anno conosce già. Ciò che aggiunge è la geniale chiarezza di una sintesi che permette di cogliere la logica circolare dei flussi finanziari che dalle nostre tasse vanno alle banche e dalle banche tornano al debito sovrano addizionati di forti interessi.
Pandolfi mostra, infatti, come l’ideologia del risanamento ponga l’accento sulla riduzione della spesa pubblica, occultando accuratamente il meccanismo di nuovo indebitamento introdotto (MES) per orientare i flussi di denaro dai cittadini europei alla speculazione finanziaria.
Il FMI e i governi europei, insomma, non stanno sbagliando le loro previsioni (come qualche commentatore suggerisce), ma stanno consapevolmente alimentando un aumento dei debiti sovrani che sostituisce il denaro buono che abbiamo in tasca ai titoli tossici detenuti dalle banche (Monte dei Paschi docet).
La campagna elettorale sta entrando nel vivo, ma, com’era facile prevedere, visti gli attori in campo, i temi veri, quelli che afferiscono al futuro del paese ed alla sua capacità di vincere le sfide che ha davanti, rimangono inspiegabilmente sullo sfondo.
E tra i temi veri, vale la pena ricordarlo, c’è quello che riguarda i nostri impegni con l’Unione europea e le sue strutture tecnico-finanziarie. Insieme a quello, correlato, della compatibilità del nostro diritto al futuro con le scelte finora compiute sul terreno della costruzione dell’Europa monetaria.
Nel luglio del 2012 il nostro Parlamento ha ratificato, in un clima che potremmo definire inerziale, due importanti trattati, quello sul Fiscal compact e quello sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES).
Il primo impegna il nostro paese a ridurre il debito pubblico nei prossimi venti anni, fino a portarlo entro la soglia stabilita dal Trattato di Maastricht (60% del PIL). Considerato che il debito italiano ammonta ormai a circa 2000 miliardi di Euro, che in rapporto al prodotto interno fa il 127%, per raggiungere l’obiettivo del trattato bisognerà rastrellare circa 900 miliardi di Euro in venti anni, 50 ogni anno, 150 milioni ogni giorno.
Giacomo Gabbuti, Furore, o del problema della scelta nella teoria sociale del cacciatore paleolitico
[…] il problema è, c’è posto per tutti sulla macchina? E siamo in grado di nutrire una bocca in più?” Senza voltare la testa, ripeté la domanda: “Mamma, siamo in grado?”
La mamma si schiarì la gola. “Quanto a ‘essere in grado’, siamo in grado di niente; né partire per la California, né niente. La questione è di sapere se ‘vogliamo’ prenderlo con noi, o no. […]
In quello che dovrebbe essere considerato un testo cardine dell’Economia Politica, John Steinbeck spiega – nel modo più rigoroso con cui si possano descrivere le passioni alla base dei comportamenti, umani prima che economici – la scelta razionale degli individui, quanto agiscano non da atomi (come li descrive la “moderna” microeconomia) ma da esseri sociali.
È una lezione importante, quella di Furore: perché da mesi, quotidianamente, siamo bombardati da un altro tipo di messaggio.
Quando si parla dello Stato come di una famiglia, in cui “non bisogna spendere più di quanto si guadagna”, in virtù di una presunta moralità del debita sunt servanda, in realtà si allude a una diversa idea dei rapporti che fondano le società umane: si rappresenta la comunità come una barca che sta per affondare, in cui i naviganti debbano razionalmente scegliere chi sacrificare per il bene comune. Una di quelle scelte assurde e paradossali su cui, come ben spiega l’antropologo David Graeber, si basa la moderna economia neoclassica: eppure, anche se posti in una situazione così estrema, in un contesto così alienante, siamo davvero sicuri che risponderemmo tutti, inequivocabilmente, come la teoria ci imporrebbe? Siamo tutti sicuri che selezioneremmo gli individui più deboli – pardon, meno meritevoli –, chi meno è in grado di contribuire alla causa comune, per gettarli – o convincerli con argomenti moderati a tuffarsi giù, virtuosamente – fuori dalla barca?
Capite bene che, così in astratto, questa domanda sembri priva di senso.
In primo luogo, dovremmo chiarire chi sono gli altri membri dell’equipaggio. Siamo sicuri che la risposta sia infatti la stessa, se per il ruolo di vittima sacrificale assoldassimo, uno alla volta, l’amore della nostra vita, nostro nonno, una sorella piccola? Siamo sicuri che li lasceremmo in mare? O che tutti i nostri simili lo farebbero? Siamo sicuri di credere, come sintetizza un lettore di Sylos Labini, di doverci procurare da soli la bistecca di mammut?
Eppure, quella del cacciatore paleolitico è esattamente la teoria sociale che ci propone chi – con la presunzione di sancire verità incontrovertibili – pontifica illustrandoci la propria, personale interpretazione di “insostenibile”. Quella di chi continua a spiegarci come non possiamo più permetterci la spesa sanitaria (sia essa in Italia o negli Stati Uniti) senza curarsi di informarci del fatto che la sua entità sia perfettamente paragonabile, per fare un esempio a caso, alla spesa per armamenti, o ancora peggio, nettamente inferiore a quella per gli interessi sul debito (è il caso della Spagna).
Lo stato dell’economia mondo. Disoccupati, sottooccupati e inattivi
A metà 2012 la Banca mondiale ha reso note le stime di crescita dell’economia mondiale. Il risultato atteso è di una crescita del 2,5%, trainata quasi esclusivamente dalle economie emergenti. Si potebbe dunque credere che la recessione mondiale stia finendo e che, seppure a fatica, le economie BRICS continuano ad alimentare il ciclo espansivo su cui si basa l’economia di mercato, tenendo in vita le asfittiche realtà dei paesi sviluppati. In un saggio pubblicato su Connessioni, Antonio Carlo dà una lettura diversa dei dati forniti dalle fonti ufficiali, mostrando che:
i paesi ricchi sono fermi in tendenziale ristagno, e per stare fermi devono continuare ad indebitarsi a ritmo crescente […], se fossero imprese private sarebbero fallite da tempo. Quanto ai paesi emergenti, che sono in netta flessione di crescita, per essi un ritmo del 5% o poco più, rapportato alla modestissima base di partenza (l’India ha un PIL procapite di poco superiore ai 1000 dollari, quello della Cina è più elevato ma enormemente inferiore a quello delle province più povere del sud Italia) è irrisorio; la Cina, il colosso tra gli emergenti, dovrebbe crescere quest’anno del 7,5% (obiettivo del governo cinese fissato in marzo 2012), ma come vedremo l’indice PMI , che misura l’attività manifatturiera centrale per quel paese, si è collocato spesso sotto livello 50 che segna lo spartiacque tra sviluppo e ristagno o recessione4, in altre parole con 7,5% di crescita del PIL la Cina è in ristagno, ma gli altri paesi emergenti stanno peggio, l’India crescerà quest’anno sotto il 5% e l’anno prossimo rimbalzerà (si fa per dire) al 6%. Il mondo [insomma] è fermo e non sa come ripartire […].
La sovraproduzione di forza lavoro (disoccupazione)
Nel corso dell’anno vengono diffusi i dati dell’OCSE e dell’ILO sulla disoccupazione: 205 milioni a livello mondiale (75 milioni giovani), 50 milioni in più rispetto alla fase pre-crisi, nell’OCSE siamo a 48 milioni, 15 in più rispetto al periodo pre-crisi. Rispetto al picco della crisi (2009) solo una lieve limatura (allora era a 212 milioni), più formale che reale perché è cresciuto il numero degli scoraggiati che non cercano più lavoro e che formalmente non sono considerati disoccupati; solo in USA sono una cifra maggiore della lieve “limatura” realizzata. A questi poi bisognerebbe aggiungere quelli che il lavoro non lo hanno mai cercato, pur essendo in età da lavoro: il tasso di attività media a livello mondiale si colloca intorno al 60%7 (così anche in USA e Giappone), nella UE siamo al 63,9%, in Italia al 56,9% (Eurostat): in sostanza a livello mondiale su 5 persone in età da lavoro ne sono occupate solo 3.
Post-human Trade, i mercati sono macchine (e fisici)
Diffusi i risultati di un rapporto della Commodities and Future Trading Commission che analizza il mercato dei futures (strumenti finanziari che speculano sul prezzo delle materie prime) e il funzionamento della speculazione borsistica: la maggioranza delle operazioni di borsa è ormai automatica, gli operatori ad alta frequenza (high frequency trading) fanno profitti danneggiando il resto del mondo.
Nell’articolo successivo, Sylos Labini riflette sulla matematizzazione della finanza, osservando come i fisici che lavorano a Wall Street (significativamente, in aumento rispetto agli economisti) siano perlopiù inconsapevoli degli effetti (economici) delle equazioni che implementano in quanto dimentichi delle radici teoriche della propria disciplina. L’economista pone così l’accento sul problema fondamentale quanto trascurato delle cause ideologiche, cioè legate ad errori epistemologici, della recessione mondiale.
I dettagli non sono ancora noti, ma le conclusioni, rivelate in esclusiva dal New York Times bastano e avanzano per riaccendere il dibattito su uno degli aspetti più discussi delle transazioni finanziarie. Il high frequency trading, il sistema di scambio ad alta velocità basato sui modelli algoritmici e responsabile ormai della maggioranza delle operazioni di borsa, non si limita a garantire significativi profitti ai suoi protagonisti. Ma finisce, al tempo stesso, per produrre un danno sistemico scaricato in primo luogo sulle spalle dei trader tradizionali e dei piccoli operatori. Lo sostiene un rapporto a cura del capo economista della Commodities and Futures Trading Commission (Cftc) degli Stati Uniti Andrei Kirilenko i cui contenuti sono stati anticipati nei giorni scorsi.
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