Archive for ‘Economia’

2 Gennaio, 2012

Flexicurity

by gabriella

Due articoli sulla flexicurity, uno dedicato al modello danese, preso come riferimento da Pietro Ichino; l’altro a quello tedesco, di Monti e Fornero.

Senzasoste, Danimarca e flexicurity: quello che Ichino ed altri non dicono

In questo periodo Ichino ed altri stanno tornando a parlare di Flexsecurity e sembra che l’obiettivo principale sia l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Molte critiche a questo sono state scritte, sostanzialmente condivisibili. Ichino ed altri dichiarano di prendere a modello la Danimarca. E scrivono cose che con la Danimarca non hanno niente a che fare.  In Italia il danese non è molto conosciuto, tantomeno la realtà economica e sociale danese, quindi Ichino e a suo tempo Damiano, ma anche esponenti della Lega e del PdL possono dire cosa vogliono […].

La Danimarca è nell’Unione Europea ma non ha l’euro, e non è obbligata ad adottarlo. Nell’articolo non si parla di questo, ma quasi nessuna delle soluzioni danesi sarebbe possibile con l’euro. Prima di arrivare alle fandonie di Ichino, Damiano & c., una breve descrizione della Danimarca per chi non la conosce. La Danimarca è, dopo il Lussemburgo che è un caso a sé, il paese più ricco come reddito pro capite dell’Unione Europea.  Supera ampiamente la Germania.

I salari minimi danesi sono i più alti al mondo. In Danimarca non esiste una legge sul salario minimo, ma nei fatti, il 50% dei salari USA sono inferiori al salario minimo danese. In Danimarca questi salari minimi sono di immigrati che non parlano danese che scaricano le balle al mercato. In Italia a guadagnare meno dell’ultimo danese sono più del 70% dei lavoratori.

La Danimarca ha l’indice di Gini più basso a mondo. Circa 0,23. L’indice di Gini misura le disuguaglianze sociali. Un indice di Gini di 1 vorrebbe dire che tutte e risorse di un paese sono in mano a una persona. Uno di 0 vorrebbe dire che i redditi di tutti sono uguali. La Danimarca ha una distribuzione dei redditi più equa della Cina di Mao, dell’Unione Sovietica di Stalin, e dl Venezuela di Chavez. Ma non è socialista.

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31 Dicembre, 2011

Domenico Moro, Le ragioni del declino italiano. Andrea Baranes, Una breve storia della crisi che è quasi un educational, chiaro e completo

by gabriella

Tagliare le spese e aumentare le tasse può aumentare il deficit, se manca la crescita. Delocalizzazioni, acquisizioni, joint venture. Gli investimenti delle imprese all’estero sono alla base della riduzione dello sviluppo negli ultimi 10 anni. Con la complicità della politica.  Banche, speculazione finanziaria e sistema euro non sono le cause della crisi.

La questione del debito pubblico è presentata, in Italia e in Europa, essenzialmente come una questione di disciplina di bilancio, da risolvere tagliando le spese e aumentando le imposte. In realtà, la crescita del debito pubblico e la difficoltà a rifinanziarlo è connessa molto di più alla scarsa crescita economica. Debito e deficit pubblici vengono calcolati in percentuale sul Pil. Dunque, una stagnazione o un decremento di quest’ultimo possono peggiorare i due indicatori, indipendentemente dalle spese. Di più: la scarsa crescita è collegata alla riduzione della competitività e al peggioramento del debito commerciale e della bilancia dei conti con l’estero. La minore capacità di pagare le importazioni con le esportazioni è uno dei fattori che rende critica la capacità di finanziare il debito pubblico sui mercati dei capitali.

Se il Giappone – debito pubblico oltre il 200% e deficit/Pil all’8,3% – paga un interesse sui titoli a dieci anni di poco superiore all’1%, non è solo perché ha il pieno controllo della sua valuta, ma anche perché ha il terzo attivo dei conti correnti al mondo, 150 miliardi di dollari, e la migliore posizione patrimoniale con l’estero, tremila miliardi. Al contrario, l’Italia ha una bilancia dei conti correnti negativa per 79 miliardi (3,7% sul Pil), e una posizione debitoria con l’estero di 549 miliardi. Infine, la riduzione della crescita e delle esportazioni viene tipicamente compensata con l’aumento della spesa pubblica, come prova il suo rigonfiamento in Italia a partire dalla prima vera crisi post-bellica nel ’74-’75.

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27 Dicembre, 2011

François Chesnais, Il debito è tre volte illegittimo. Francesco Indovina, Il debito italiano

by gabriella

E’ uscito quest’anno [2011], per Raison d’Agir, Les dettes illégitimes. Quand les banques font main basse sur les politiques publiques» (Debiti illegittimi. Quando le banche fanno man bassa delle politiche pubbliche) – Paris, Ed. Raison d’agir, 2011, pp. 153, 8 euros – di François Chesnais, professore all’Università di Paris 13. In una recente intervista Chesnais ha spiegato perchè il debito è tre volte illegittimo.

Il primo obiettivo di un audit è di fare chiarezza sul passato (…). Cosa n’è stato del denaro di tale prestito, a quali condizioni questo prestito è stato concluso? Quanti interessi sono stati pagati, a che tasso, quale proporzione del principale è già stata rimborsata? Come è stato gonfiato il debito, senza che esso fosse utile alla popolazione? Quali strade hanno seguito i capitali? A chi sono serviti? Quale proporzione è stata indebitamente appropriata, da chi e come? Come ha fatto lo Stato a trovarsi impegnato, su quale decisione, presa a che titolo? Come sono diventati pubblici i debiti privati? Chi si è impegnato in progetti inadatti, chi ha spinto in questa direzione, chi ne ha approfittato? Sono stati commessi delitti, o crimini, con questo denaro? Perché non vengono stabilite le responsabilità civili, penali e amministrative?

Comitato greco contro il debito

Et si on refusait de payer? E se ci si rifiutasse di pagare?

Pour François Chesnais, l’injonction faite aux Etats de rembourser leur dette repose sur l’idée que si on ne rembourse pas, on lèse le créancier, c’est-à-dire l’épargnant qui a confi é ses économies aux banques. La comparaison avec le budget des ménages vertueux renforce cette idée: on ne doit pas dépenser plus que ce que l’on gagne…

Per François Chesnais, l’ingiunzione fatta agli stati di rimborsare il debito riposa sull’idea che se non lo si rimborsa si lede il creditore, cioè il risparmiatore che ha affidato le sue economie alle banche. La comparazione con il bilancio delle famiglie virtuose rinforza questa idea: non si deve spendere più di quanto si guadagna ..

Comparaison n’est pas raison Comparazione non è ragione

Mais comparaison n’est pas raison, dit F. Chesnais: «l’Etat a les moyens de déterminer les conditions générales de l’activité économique. Le ménage par contre subit les conditions économiques et est poussé par la publicité à consommer». Soit. L’Etat est-il pour autant autorisé à dépenser sans compter et à ne pas rembourser ses dettes? Il faut voir comment s’est constituée cette dette publique, dit l’économiste. Selon lui, il y a un parallélisme entre le gonflement de l’endettement et les allègements fiscaux consentis depuis les années 1980 par les Etats, généralement en faveur des revenus élevés (les fameuses niches fi scales en France), les revenus des entreprises et du capital.

Ma comparazione non è ragione, dice Chesnais: “lo stato ha i mezzi per determinare le condizioni generali dell’attività economica. Le famiglie invece subiscono le condizioni economiche e sono spinte dalla pubblicità a consumare”. In altri termini, lo stato è quindi autorizzato a spendere senza calcolare e a non rimborsare i suoi debiti? Bisogna vedere come si è costituito questo debito pubblico, risponde l’economista. Secondo lui, c’è un parallelismo tra l’aumento dell’indebitamento e gli sgravi fiscali concessi dopo gli anni ’80 dagli stati, generalmente in favore dei redditi elevati (le famose nicchie fiscali in Francia), i redditi d’impresa e da capitale.

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26 Dicembre, 2011

Carlo M. Cipolla, Chi ha inventato il debito pubblico. Luigi Longo, Filippo II dissanguato dai banchieri genovesi

by gabriella

Tratto da Carlo M. Cipolla, Piccole cronache, Bologna, Il Mulino, 2010, pp.35-38 e pp.39-42.

L’antichità classica non conobbe il debito pubblico. Il debito pubblico fu un’invenzione dei Comuni medievali italiani. Il primo esempio di debito pubblico di cui abbiamo notizia risale al 1167 e si trattò di un prestito forzoso imposto dalla Repubblica di Venezia ai suoi cittadini abbienti. Venezia, Genova e Firenze furono i centri che più precocemente svilupparono ed affinarono le tecniche del debito pubblico. A Genova nel 1274 si decretò il consolidamento del debito pubblico che aveva raggiunto la somma di 305 mila lire genovesi del tempo. Sempre a Genova nel 1407 quando il debito pubblico aveva raggiunto la somma di circa 3 milioni di lire genovesi i creditori dello Stato si consorziarono in un ente chiamato Casa di San Giorgio che divenne praticamente il padrone dello Stato.

A Firenze nel 1303 il debito pubblico ammontava a circa 50 mila fiorini d’oro: una cifra ragionevole. Ma a partire da quella data il Comune di Firenze si trovò impelagato in una serie di conflitti proprio nel momento in cui per l’introduzione dell’artiglieria e la sostituzione delle milizie civiche con le bande mercenarie le guerre si facevano tremendamente più costose.

Lo Stato ha tre modi per sopperire alle sue spese: tassare i cittadini, svilire la moneta, ricorrere al credito. Firenze rispettò gelosamente l’integrità della sua moneta, andò cauta nell’imporre tasse e pertanto ricorse abbondantemente al credito. Il debito pubblico fiorentino che era come s’è detto di circa 50 mila fiorini d’oro nel 1303 passò a circa 600 mila fiorini nel 1343, a circa un milione cinquecentomila fiorini nel 1364, a circa 3 milioni di fiorini nel 1400.

Il crescente bisogno di denaro da parte dello Stato spingeva al rialzo il tasso d’interesse.

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22 Dicembre, 2011

Carlo Galli, Licenziamento

by gabriella

La Parola

Licenziamento

(dall’it. licenza, a sua volta dal lat. licet, è lecito). L’atto con cui si dà licenza  –  ovvero la facoltà e il permesso  –  a qualcuno di andarsene, o lo si rimuove d’autorità da un incarico. Negli ambiti economico-giuridico e politico-sociale il licenziamento è l’atto con cui il datore di lavoro allontana un dipendente dall’impiego, rescindendo unilateralmente il contratto di lavoro.

Nel licenziamento si scontrano due diritti, due libertà: la libertà di mettere in libertà, di  allontanare, e la libertà di lavorare in serenità e senza minacce. Ovvero, da una parte c’è il diritto al lavoro del cittadino, sancito dagli articoli 1 e 4 della Costituzione, che implica anche il diritto alla stabilità del reddito da lavoro, come fonte di sostentamento del lavoratore e della sua famiglia; dall’altro c’è il diritto del datore di lavoro e della sua impresa di impiegare al meglio la forza lavoro, dal punto di vista sia qualitativo sia quantitativo.  Fra questi due diritti  –  che, portati all’estremo, prevederebbero il primo la piena e totale garanzia pubblica della intangibilità del posto di lavoro come diritto soggettivo, e il secondo la insindacabile licenziabilità del dipendente  in qualsivoglia circostanza, sulla base del diritto privato che tutela la proprietà del datore di lavoro  –  gli ordinamenti giuridici istituiscono mediazioni e compromessi, che individuano punti di equilibrio a loro volta collegati alle circostanze storiche, ai cicli economici, ai rapporti di forza che attraversano la società, nonché alla qualità specifica del datore di lavoro (ad esempio, lo Stato tradizionalmente tutela i propri dipendenti dal licenziamento molto più dei datori di lavoro privati).

In Italia si è così passati dall’articolo 18 dello “Statuto dei Lavoratori” (1970), che vieta il licenziamento se non per giusta causa e che conferisce centralità e discrezionalità al giudice del lavoro, il quale in caso di licenziamento ingiustificato può disporre la reintegrazione del lavoratore, al “Collegato lavoro” (2010) che tra l’altro riforma la disciplina del licenziamento individuale, in modalità meno favorevoli ai  lavoratori. Fra le due norme sono passati quarant’anni, durante i quali le ragioni dell’economia di mercato capitalistica hanno progressivamente prevalso su quelle del lavoro dipendente e della sicurezza sociale. Oggi si cerca di contemperare le esigenze di flessibilità del lavoro con quelle della sicurezza individuale e collettiva, combinandole variamente (ad esempio, garantendo la sicurezza del lavoro ma non di uno specifico posto di lavoro), ma la crisi sistemica del capitalismo e la recessione europea generano il diffuso timore che rendere più facili i licenziamenti eliminando il concetto di giusta causa non serva a  favorire il dinamismo delle imprese e la ripresa economica, ma solo a dare un segnale anche simbolico dell’impotenza attuale del lavoro rispetto al capitale.

http://www.repubblica.it/rubriche/la-parola/2011/12/22/news/licenziamento-27071556/?ref=HREA-1

23 Novembre, 2011

Maurizio Pallante, Meno è meglio. Alberto Bagnai, La decrescita secondo la goofynomics. Badiale e Tringali, Decrescita si, ma del capitale

by gabriella

Il podcast dell’interessante intervista concessa a Loredana Lipparini (Fahrenheit, mercoledi 23 novembre 2011) dall’autore di Meno e meglio, il saggio sulla decrescita edito da Bruno Mondadori. Di seguito, la voce critica di Alberto Bagnai (goofynomics) per la quale la decrescita perde di vista che nell’economia contemporanea non è il consumo o il risparmio individuale a costituire un attentato alla sostenibilità ambientale, ma gli usi finanziari di quel consumo e di quel risparmio. Ancora una volta, se si vuole capire qualcosa del mondo, dobbiamo togliere lo sguardo dagli individui e volgerlo al sistema.

Alberto Bagnai, Decrescita… de che?

BagnaiNei momenti di crisi globale ricorre un atteggiamento descritto da un’efficacissima parola europea: Schadenfreude. Da Schaden (danno) e Freude (gioia), che poi sarebbe appunto quella della Nona di Beethoven che tanto piaceva a Alex (DeLarge). La Schadenfreude è il piacere maligno che si trae dallo spettacolo dell’altrui male (quindi ha poco a che vedere con il “suave mari magno” di Lucrezio, che maligno non era, e infatti al secondo esametro aggiunge “non quia vexari quemquamst iucunda voluptas”). Questa “voluptas”, una delle poche che la natura matrigna riserva a quelle strane bestie che sono gli economisti, le suocere, e il beghiname vario, è in grandissima parte motivata dal poter dire “io l’avevo detto”, cioè dal trovare nell’Armageddon un valido, anzi, il più valido, alleato per l’affermazione delle proprie teorie. Se poi nell’Armageddon ci finisce anche lo Schadenfroh, meglio pure: a “voluptas” si aggiunge “voluptas” (il masochismo).

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2 Novembre, 2011

Naomi Klein, The Shock Economy Doctrine. The Rise of Disaster Capitalism

by gabriella

Naomi KleinShock DoctrineChe cos’hanno in comune l’Iraq dopo l’invasione americana, lo Sri-Lanka post-tsunami, New Orleans dopo l’uragano Katrina, le dottrine ultraliberiste della Scuola di Chicago e alcuni esperimenti a base di elettroshock finanziati negli anni Cinquanta dal governo americano?

Secondo Naomi Klein, l’idea che sia utile cancellare un intero tessuto sociale per costruire da zero un’utopia, quella dell’ultraliberismo. L’autrice denuncia un capitalismo di conquista che sfrutta cinicamente i disastri o li produce direttamente per imporre le trasformazioni corrispondenti a questa nuova visione del mondo.

 

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1 Novembre, 2011

Alessio Rastani, “Personally, I go bed every night I dream another recession, another moment like this”.

by gabriella

Difficile è la lotta contro il desiderio, perchè ciò che esso vuole
lo compera a prezzo dell’anima.

Eraclito di Efeso

Leggendo Repubblica, che titola “Milano crolla, perdite pesanti, sospensione per i bancari, bruciati 22 miliardi”, verrebbe da pensare che siamo di fronte a un’immensa distruzione di ricchezza che ci condannerà per decenni alla povertà. Se ci soffermiamo poi sulle immagini dei broker con le mani nei capelli, potremmo quasi credere di non essere i soli a rischiare l’indigenza. In realtà, è bene non dimenticare che è proprio durante le grandi catastrofi che la ricchezza passa di mano e che dunque, la nostra miseria è simplicter l’arricchimento di qualcun’altro (è questa la ragione per cui chi nota questo particolare non è particolarmente contento, mentre chi non lo vede si rassegna e dà la colpa alla crisi, al fato, al maltempo …).

Ogni tanto qualche cinico trader si incarica di spiegarlo al colto e all’inclita. In Wall Street, di Oliver Stone, era Gordon Gekko a farlo. Nel video seguente, un misterioso agente della city londinese, intervistato in diretta dalla BBC, ha fatto scandalo qualche settimana fa.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=_KsbJgytJeM]

 

Alessio Rastani e la verità di un broker: l’Europa è spacciata, shock in diretta alla BBC

 Martedì 27 Settembre 2011, 16:30 rastani.JPG

Alessio Rastani è un trader che è stato intervistato ieri dalla BBC e ha sconvolto anche i conduttori in studio. Quello che sentirete sotto è una delle previsioni più oneste che abbia sentito finora sulla crisi. Altro che le decisioni dei governi, spiega Rastani, è la Goldman Sachs che domina il mondo. Rastani spiega che le persone come lui, la cui unica mission è fare soldi, vanno a letto ogni notte sognando una recessione. Perché porta altri soldi.

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22 Ottobre, 2011

Vladimiro Giacché, La crisi spiegata da Karl Marx

by gabriella

Un mondo spiegato a partire dalla centralità del capitale finanziario che stringe nella sua morsa l’economia. È questa la lettura dominante della crisi, relegata a incidente di percorso del capitalismo. Spiegazione che può essere smontata a partire dagli scritti di Marx dedicati al tema e che sono stati raccolti in un volume da oggi in libreria di cui pubblichiamo brani dell’introduzione.

La spiegazione della crisi attuale come una crisi finanziaria che ha contagiato l’economia reale è oggi largamente prevalente. Si tratta della versione contemporanea della concezione, ben nota a Marx, secondo cui la crisi sarebbe dovuta «all’eccesso di speculazioni e all’abuso del credito». Precisamente questa spiegazione della crisi era stata sostenuta dalla commissione incaricata dalla Camera dei Comuni inglese di redigere un rapporto sulla crisi del 1857. Marx contestava questo punto di vista: «la speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi».

Oltre ogni limite

Per Marx i motivi per cui le crisi si presentano come crisi creditizie e monetarie sono senz’altro radicati in alcune caratteristiche di fondo del funzionamento dell’economia capitalistica. Ma le crisi non sono in primo luogo creditizie e monetarie: alla loro base si trova la sovrapproduzione di capitale e di merci. Il fatto è che per Marx il credito è uno dei principali strumenti attraverso cui il capitale tenta di superare i propri limiti. Infatti, grazie al credito i «limiti del consumo vengono allargati dalla intensificazione del processo di riproduzione, che da un lato accresce il consumo di reddito da parte degli operai e dei capitalisti, d’altro lato si identifica con l’intensificazione del consumo produttivo». Inoltre il credito «spinge la produzione capitalistica al di là dei suoi limiti» anche nel senso di porre a disposizione della produzione «tutto il capitale disponibile e anche potenziale della società, nella misura in cui esso non è stato già attivamente investito».

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16 Ottobre, 2011

Capitale e vizi capitali

by gabriella

Una delle cose che colpisce chi legge della protesta degli Occupy Wall Street è che questi giovani americani dicono di essere stanchi dell‘”avidità” dei banchieri. Ora, l'”avidità” è un vizio, una qualità umana della quale sarebbe portatrice l’1% ricco degli esseri umani. Ma come fanno le azioni di questa infima minoranza a condizionare la vita del 99%? E’ qualche secolo che i ricchi hanno inventato un sistema di regole che lavora per produrre questi risultati. Marx lo chiamò “capitale”, oggi lo chiamiamo “sistema di mercato” o di “libero scambio”.

Nell’interpretazione di Gordon Gekko (Wall Street, 1987): “è tutta questione di soldi ragazzo, il resto è conversazione”. “Il più ricco 1% del paese possiede la metà della ricchezza del paese: 5 trilioni di dollari […] C’è il 90% degli americani che non possiede niente o quasi, io non creo niente, io posseggo e noi facciamo le regole, le notizie, le guerre, la pace, le carestie, le sommosse, il prezzo di uno spillo, tiriamo fuori conigli dal cilindro mentre gli altri seduti si domandano come accidenti abbiamo fatto, non sarai tanto ingenuo da credere che noi viviamo in una democrazia, è vero Buddy? E’ il libero mercato”.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=zQyQpMQeC2U]

Forse è questo “capitale” a impoverire il mondo, non i “vizi capitali“. Scambiare il Leviathano con un gruppetto di cattivi soggetti è un errore da matita rossa.


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