Con l’evoluzione della «società dello spettacolo» sta maturando il passaggio da una forma di dominio sui corpi a una sulle menti. L’individuo, sotto attacco nella sua sfera intellettiva, rischia di perdere la capacità di agire consapevolmente e di essere soggetto della storia. Tratto da filosofiainmovimento.
Se uno degli ambiti di studio e azione più importanti della filosofia marxista è consistito nell’analisi delle forme di dominio del più forte sul più debole, la grande intuizione di Antonio Gramsci, e quindi uno dei suoi lasciti più fecondi, risiede nell’aver compreso come, con il Novecento, il terreno su cui si svolgevano – e si sarebbero svolte – le nuove forme di dominio non era più dato dal solo contesto strutturale, ma avrebbe interessato la sovrastruttura ideologica2. In forme e con modalità certamente non osservabili (e quindi prevedibili) in tutta la loro potenzialità ai tempi del pensatore sardo, ma che sono sotto gli occhi di tutti nei giorni nostri in piena epoca di trionfo della società dello spettacolo, con i suoi meccanismi tecnologici annessi3.
Un caso di falso virale e di pervertimento dell’open access a danno degli internauti meno informati. Wired Italia commenta il comunicato stampa di Speackdolphin.com e del business della no-profit Global Earth inc..
L’immagine virale che mostrerebbe come vedono i delfini è priva di qualsiasi base scientifica.
Nei giorni scorsi è circolato un comunicato stampa con allegata un’immagine che è rapidamente diventata virale: mostrerebbe infatti un esempio di come ci vedono i delfini.
L’immagine sarebbe il risultato di uno studio nel quale i ricercatori hanno registrato gli impulsi di ecolocalizzazione emessi da un esemplare di delfino e poi, grazie a uno strumento chiamato Cymascope, sarebbe stato possibile ottenere una grezza immagine che, una volta elaborata al computer, mostrerebbe la sagoma di un essere umano che si trovava nella vasca con l’esemplare al momento dell’esperimento.
La nuova folla senza animo e spirito è lo sciame digitale. Così la pensa Byung-Chul Han, il filosofo coreano che insegna filosofia e teoria dei media a Berlino. Negli ultimi anni Han ha pubblicato alcuni saggi sulla globalizzazione e sugli effetti delle nuove tecnologie sugli esseri umani e sulle loro società. Nello sciame. Visioni del digitale (ed. Nottetempo) è l’ultimo suo breve libro pubblicato in Italia. Le riflessioni di Han stavolta sono dedicate al nuovo popolo che vive nel mondo dei media digitali e che lui ha definito, appunto, “sciame digitale”. Una comunità composta da individui anonimi che solo apparentemente condividono pensieri e azioni, ma che spesso si perdono nella conta dei “mi piace” e dei preferiti e non riescono a trovare modalità efficaci per esprimere le loro energie collettive. Tratto da La Nazione Indiana.
Una caratteristica della manifestazione dello stato di eccitazione dello sciame digitale è rappresentata dalle forme di scrittura più emotiva e informale che la comunicazione digitale favorisce:
“La comunicazione digitale rende possibile un istantaneo manifestarsi dello stato di eccitazione.”
Sono comunicazioni rapide e imperfette, vicine al parlato anche se sono scritte. Quella digitale, a differenza di quella del potere (La comunicazione del potere non è dialogica😉 e di gran parte dei mezzi di comunicazione tradizionali (stampa, radio, televisione), è una comunicazione dialogica. Eppure la simmetria comunicativa potenziale non implica necessariamente una simmetria fattuale. Infatti, la comunicazione digitale può modificare i rapporti tra persone, gruppi e organizzazioni, renderli diretti e bypassare i ruoli e le gerarchie, ma spesso questa disintermediazione si realizza soltanto in apparenza, perché i rapporti di potere e di relazione consolidati non si fanno cortocircuitare facilmente dall’informalità e dalla velocità della comunicazione digitale. Anzi, i possessori di poteri (comunicativi) usano con attenzione la comunicazione per trasmettere il proprio messaggio usando le modalità pervasive facilitate dal mezzo digitale.
Sveglie che suonano prima in caso di traffico, piante che comunicano all’annaffiatoio quando è ora di bagnarle, sono utilità che stabiliscono un controllo pervasivo e interessato sulle vite dei cittadini. Americani e cinesi temono reciprocamente le rispettive cimici. Un ordinario cittadino dovrebbe fidarsi solo perché hardware e software dichiarano la propria trasparenza e innocuità? Non solo l’Internet delle Cose, ma anche le Cose di Internet possono essere pericolose. L’istruttivo corsivo del commentatore di PuntoInformatico su come le Cose di Internet prendano possesso di noi.
Roma – L’altro giorno, vittima di un momento di sbandamento, ho provato ad installare su mio smartphone la mia prima app commerciale, quella di Twitter, da un repository che sapevo pericoloso come Play Store, invece che da un più sicuro F-Droid. Infatti, come molti dei 24 implacabili lettori già sanno, il dumbphone di Cassandra è defunto per cadute e consunzione, e la sua tasca è stata nuovamente occupata da un normale smartphone di generazione n-2 (quindi molto economico), debitamente ed accuratamente (per quanto possibile) disinfestato da qualsiasi cosa non fosse indispensabile e con tutte le autorizzazioni accuratamente negate.
Lo so, è stato un momento di debolezza, ma la schermata di richiesta di autorizzazioni che mi è comparsa davanti mi ha traumaticamente riportato alla realtà, alla necessità di non cedere alle comodità. e mi ha fatto tornare sui miei passi. Non succederà più.
Nei giorni scorsi Facebook ha reso noti i risultati di un esperimento di ingegneria sociale condotto all’insaputa dei suoi utenti. Carlo Formenti è andato a leggere i commenti degli studiosi americani per fotografare lo stato dei paradigmi psicologici impiegati nelle ricerche sul campo e i termini della legittimazione delle pratiche di manipolazione sociale a fini commerciali.
L’ultimo “scandalo” in tema di sfruttamento degli utenti da parte delle Internet Company riguarda la notizia relativa a una ricerca che Facebook, assieme ad alcune università, ha condotto sulle reazioni emotive di mezzo milione di utenti (scelti a caso) del social network – reazioni innescate da una serie di manipolazioni effettuate sui post del News Feed.
Un’utile ricognizione di Pellizzetti sul nucleo conflittuale e la cattiva coscienza della democrazia liberale e i meccanismi di dominio attraverso cui le oligarchie mantengono i propri privilegi al costo di dilaganti diseguaglianze. Tratto da Micromega.
«La democrazia origina da, mobilita e ri-dà forma al conflitto popolare. Eppure c’è una caratteristica fondamentale di questa interdipendenza […] limita in modo consistente le forme di rivendicazioni collettive e pubbliche tali da minacciare la vita e la proprietà, sostituendole
con una varietà di interazioni altrettanto visibili ma molto meno distruttive»
«In generale, qualsiasi potere, di qualunque natura esso sia, quali che siano le mani in cui è riposto e in qualunque maniera esso è stato conferito, è naturalmente nemico dei lumi»[2].
Marie Jean Antoine Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet
Plutodemocrazia: Dr. Jekyll e Mr. Hyde
Lo scandalo Datagate, l’immenso apparato coperto per il controllo di qualsivoglia comunicazione veicolata dalle reti mondiali telefoniche e internet, predisposto dalla National Security Agency americana con il programma informatico PRISM (e ora smascherato dall’ex tecnico della CIA Edward Snowden, l’ultimo di quelli che Ignacio Ramonet chiama i “paladini della libertà di espressione”[3]), stupisce per le dimensioni quantitative del fenomeno (svariati miliardi di intercettazioni); non sorprende certo per le logiche che sottende. Saremmo forse in presenza – secondo lo stereotipo marxiano rivisitato – del solito governo “comitato d’affari”, strumento del quartier generale legge e ordine?
La faccenda è ben più complicata (e introversa) del semplice quanto consapevole camuffamento di interessi dominanti. Sebbene saldature tra élites politiche ed economiche siano perennemente all’ordine del giorno nella fisiologia del potere e i governi tengano sempre in estrema considerazione quelli che sono i concreti rapporti di forza in campo. Non di questo si parla.
Internet è un formidabile universo comunicativo, già maturo, intessuto di forme banali e degradate e di device immaginati non per rispondere a dei bisogni, ma per crearne. Per navigare questi mondi, trarne vantaggio ed evitarne le insidie – e non sto parlando di adescamento o aggressione online, ma della loro seduttività – è necessaria una piena maturità, esperienza, equilibrio. In sintesi, nella speranza che la nostra società riesca ancora a produrre dei maggiorenni, i media digitali andrebbero vietati ai minori. Ecco perché:
Bruxelles. Un gruppo di passanti viene scelto a caso per partecipare a una seduta di lettura della mente: un simpatico espediente per mostrare l’inconsapevolezza dei più circa la comunicazione di informazioni personali via Internet.
Venticinque anni dopo, il web è sempre meno libero e stupido (stupid network) – la regola è che se resta stupido ci rende intelligenti, mentre se diventa “intelligente” abilita comportamenti stupidi. Tim Berners Lee lancia un appello per la Net Neutrality, ma suona debole e senza interlocutori, anche considerando la sorte di Julian Assange ed Edward Snowden perseguitati da quel nobel per la pace che è anche stato il primo Presidente “eletto dal web“.
Lascia poi abbastanza perplessi che in un appello per la salvaguardia del più grande bene pubblico mai creato, oggi sfidato da governi e mercati, ci si chieda di cosa il web abbia bisogno per sostenere attività educative, di commercio (sic), d’intrattenimento e interazione sociale, come se fossero pratiche equivalenti ecome se queste aggressioni non avessero dei responsabili e una storia.
Nel 2002, in occasione di un congresso giuridico – XXIII Congresso nazionale della Società Italiana di filosofia giuridica e politica, Macerata 2-5/10/2002 – Giovanni Sartor propose una lettura del nuovo tipo di dirittoche la digitalizzazione sta sovrapponendo ai sistemi normativi tradizionali. La tesi esposta da Sartor ne Il diritto della rete globale, evidenzia come la prevenzione e l’esecuzione automatica della norma, propri della governance digitale affermatasi dall’inizio del millennio con gli accordi internazionali sul copyright, sopprimano il fondamento kantiano del diritto moderno, vale a dire i principi di autonomia e libertà del cittadino. Il giurista ci guida, in questo modo, ad osservare in che modo accada, sottolineando l’inadeguatezza dell’idea comune che la sorveglianza sia fondamentalmente innocua e che debba temerla solo chi delinque.
Ci si potrebbe chiedere se non dovremmo accogliere con entusiasmo questa tendenza, e accettare il fatto che il diritto venga sostituito da forme più evolute di controllo sociale. Il governo dell’attività umana mediante computer potrebbe rendere vera l’antica utopia del superamento del diritto. Anziché usare la normatività per coordinate il comportamento degli individui (che richiede la cooperazione attiva della mente dell’individuo stesso, ed esige che egli adotti la norma quale criterio del proprio comportamento, o almeno che egli tema la sanzione), la società potrebbe governare il comportamento umano (nel cyberspazio) introducendo processi computazionali che abilitino solo le azioni desiderate. Come abbiamo osservato circa i nuovi modi di proteggere la proprietà intellettuale, quando si fosse in grado di rendere impossibili le azioni indesiderate rimarrebbe la necessità di vietare e punire esclusivamente il comportamento di chi tenti di ricreare la possibilità di tenere tali azioni (il tentativo dell’hacker di rimuovere le protezioni software). Tenendo conto della pervasività del cyberspazio e di come esso si vada compenetrando allo spazio fisico, diventerebbe in questo modo possibile governare in modo articolato e complesso i comportamenti del singolo, liberando la sua mente dell’onere di farsi carico del problema della normatività.
Giovanni Sartor, Il diritto della rete globale, 2002
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