Durkheim, Education et sociologie, 1922. Traduzione mia dall’originale francese (a cui si riferisce la numerazione di pagina). Qui l’edizione italiana.
La società si trova […] ad ogni nuova generazione, in presenza di una tavola pressoché rasa, sulla quale deve costruire con sforzi rinnovati. Occorre che, mediante gli accorgimenti più rapidi, all’essere egoista ed asociale che viene al mondo ne venga sovrapposto un altro, capace di condurre una vita morale e sociale. Ecco qual è l’opera dell’educazione: e se ne scorge tutta la grandezza. Essa non si limita a sviluppare l’organismo individuale nella direzione indicata dalla sua natura, a rendere apparenti dei poteri nascosti che non domandavano che di manifestarsi. Essa crea nell’uomo un essere nuovo.
Émile Durkheim, Corsi sull’educazione, 1902-1911
Con i suoi corsi alla Sorbona sull’educazione, Durkheim inaugura il peculiare sguardo sociologico sul fenomeno educativo.
La sua riflessione muove, in primo luogo, dalla critica alla concezione individualisticadell’educazione che, da Stuart Mill a Kant, la interpreta come l’azione di sviluppare il potenziale individuale e di portare l’individuo alla piena umanizzazione:
Come il sociologo ricorda,
«[per Stuart Mill l’educazione comprende] tutto ciò che facciamo per noi stessi e tutto quello che gli altri fanno per noi allo scopo di avvicinarci alla perfezione della nostra natura, [mentre per Kant] lo scopo dell’educazione è di sviluppare in ogni individuo tutta la perfezione di cui è capace» [p. 4]. «Fino a non molto tempo fa, i pedagogisti moderni erano pressoché unanimemente d’accordo nel vedere nell’educazione una cosa eminentemente individuale e per fare della pedagogia, di conseguenza, un corollario immediato e diretto della sola psicologia.
La nozione di violenza simbolica mi è parsa necessaria per designare una forma di violenza che possiamo chiamare “dolce” e quasi invisibile. E’ una violenza che svolge un ruolo importantissimo in molte situazioni e relazioni [umane]. Per esempio, nelle rappresentazioni ordinarie la relazione pedagogica è vista come un’azione di elevazione dove il mittente si mette, in qualche modo, alla portata del ricevente per portarlo ad elevarsi fino al sapere, di cui il mittente è il portatore. E’ una visione non falsa, ma che maschera [l’aspetto di violenza]. [La relazione pedagogica, per quanto possa] essere attenta alle attese del ricevente, implica un’imposizione arbitraria di un arbitrio culturale. Basti paragonare, per esempio – come si sta incominciando a fare oggi- gli insegnamenti della filosofia negli Stati Uniti, in Italia, in Germania, in Francia, ecc.: si vede allora che il Pantheon dei filosofi che ognuno di questi tipi [nazionali] di insegnamento impone [ai discenti] è estremamente diverso; e una parte dei malintesi nella comunicazione tra i filosofi dei diversi paesi consistono nel fatto che essi sono stati esposti, all’epoca della loro prima iniziazione, ad una certa arbitrarietà culturale. E’ a questo proposito che ho elaborato la nozione di “violenza simbolica”, la quale mi è apparsa importante…
D. A proposito della filosofia, può darci degli esempi di diversità da paese a paese? Evidentemente, il fatto che ogni paese abbia i suoi filosofi preferiti – come i suoi scrittori o musicisti preferiti – mi pare alquanto normale e banale. In che senso le particolarità culturali nazionali si traducono in una violenza sugli allievi?
[…] In Italia, vi sono stati anni (non molti purtroppo) in cui nelle università vi erano, insieme agli altri, i figli degli operai. Vi è stata una generazione (o forse più d’una) per la quale “mobilità sociale” ha significato poter rivendicare con orgoglio di essere la prima o il primo laureato o diplomato in famiglia. Ma questo non ha nulla a che fare con “l’essersi fatti da soli”. È stato fatto dalla scuola pubblica, dall’università pubblica.
Sulla funzione che altrimenti l’istruzione ha anche nei sistemi democratici varrebbe la pena rileggersi le pagine di Pierre Bourdieu che mostrano come la monopolizzazione del capitale culturale è funzionale alla costruzione di gerarchie invalicabili, alla istituzionalizzazione di modi di dominazione che pretendono che i dominati riconoscano come giusta la propria subordinazione. Certo, sembra difficile immaginare di trovare i volumi di Bourdieu nella biblioteca privata di chi accusa gli studenti fuori corso (lavoratori?) di essere degli “sfigati” o i precari che non riescono a pagarsi l’affitto dei “cocchi di mamma”. Sono probabilmente spariti anche dalle biblioteche di molti “progressisti”. Non è raro, infatti, trovare in giornali del centro-sinistra le storie di successo di “giovani ricercatori meritevoli” che sono riusciti ad affermarsi “nonostante tutto”, magari all’estero, sia pure utilizzate per denunciare l’inadeguatezza del sistema italiano nel comprenderne il talento. Merito e talento vengono trattati come qualità “naturali”, legittimando esplicitamente la meritocrazia come capacità del sistema di saper riconoscere e premiare nella giusta misura chi è stato baciato dalla sorte con tali doti.
Ma se bisogna riconoscere una ricchezza all’istruzione pubblica italiana, questa è proprio la sua inclusività. Merito e eccellenza non sono doti “naturali”, ma il prodotto di un sistema che consente a Franti e Garrone di avere Derossi come compagno di banco (e si spera che almeno il libro Cuore sia stato letto da Monti a Martone). Nell’alimentare i falsi miti, il governo dei professori sembra voler realizzare la terrificante utopia negativa descritta da Michael Dunlop Young nel suo The Rise of Meritocracy, dove sono i secchioni a governare il mondo, in quanto ultima e più perfetta espressione di un mondo diviso prima in caste e poi in classi. È questo l’unico significato che bisogna tornare ad attribuire al termine meritocrazia. Ed era anche quello che gli attribuiva il vecchio laburista Young, tranne dover poi registrare con rammarico che il New Labour di Tony Blair la considerava un valore positivo.
Vice-ministro del governo Monti, nel gennaio 2012 Michel Martone dà dello “sfigato a chi laurea a 28 anni
Le esternazioni di Martone non sono gravi perché urtano la sensibilità di qualcuno. I passaggi politicamente eloquenti, quasi ignorati dalla stampa, sono quelli dove il sottosegretario loda i giovani figli di immigrati che scelgono gli istituti tecnici invece dei licei. Ovvero, che scelgono di “stare al proprio posto”. Monti e Cancellieri sono ben consapevoli che il desiderio di un “posto fisso” può, in realtà, celare l’insidiosa aspirazione a uscire dalla subalternità a cui il precariato costringe in quanto condizione di vita. Il “posto fisso” contempla l’insidia del rifiuto e dell’indisponibilità al lavoro a ogni costo […].
Ma forse rimane un ultimo consiglio di lettura da dare ai professori e ai loro portaborse. Vi è un passaggio, nell’autobiografia di Malcom X, nel quale è descritta una conversazione tra il giovane Malcom e un suo professore di liceo. Interrogato su che lavoro vorrà fare, Malcom risponde senza rifletterci che vuole diventare avvocato. Il prof. Ostrowski, sorpreso, paterno e senza cattive intenzioni, lo esorta a essere realista. Gli spiega che “per il fatto di essere un negro” è meglio che pensi di fare il falegname. Certamente è in quel momento che il giovane Malcom diviene consapevole di cosa avrebbe fatto da grande.
Un’ottima ricognizione degli antefatti, delle mistificazioni e degli scopi inconfessabili di vent’anni di programmatico declino scolastico italiano. Bello anche il titolo che mi fa venire in mente la brechtiana “resistibile ascesa” di Hitler e la necessità che gli insegnanti italiani escano dal torpore inconsapevole che li ha avvinti e rifiutino di collaborare alla “soluzione finale”.
State pur tranquilli ci saranno sempre più poveri e più ricchi ma tutti più imbecilli
G. Gaber, La razza in estinzione
1. Società della conoscenza/società del controllo di SilviaDi Fresco
Sulle pagine della rivista «L’ospite ingrato» dedicata al tema della conoscenza, Sergio Bologna1, dopo aver sottolineato l’inefficacia dell’attuale sistema formativo, concludeva il suo articolo chiedendosi quale possa essere il futuro degli studi umanistici in un contesto in cui il lavoro, e il suo linguaggio, sono altamente dominati dalla tecnologia.
Il problema ovviamente non riguarda solo l’Italia e non coinvolge solo aspetti interni alla didattica, ma riguarda il modello di società che saremo in grado di immaginare per risolvere i giganteschi problemi ecologici e sociali che il pianeta si trova ad affrontare. È quella che recentemente Martha Nussbaumha definito come «crisi dei saperi socratici» [Internazionale, 870, pp. 36-42], cioè di quei saperi che sviluppano competenze non misurabili come la capacità di confrontarsi e mettersi in discussione, di assumere il punto di vista dell’altro, di produrre soluzioni innovative (e non esecutive) rispetto ai contesti in cui sorgono i nostri problemi.
Saperi che rappresentano le finalità di un’educazione rivolta alla costruzione di una comunità democratica, all’interno della quale l’insegnamento di materie letterarie e scientifiche va salvaguardato rispetto a un’educazione schiacciata sui saperi tecnici e specialistici. Sostiene la Nussbaum che tali insegnamenti hanno persino una finalità economicistica indiretta in quanto
l’innovazione richiede intelligenze flessibili, aperte, creative. La letteratura e le arti stimolano queste facoltà. Quando mancano, la cultura aziendale perde colpi in fretta2.
La documentata ricognizione di Gianfranco Marini su cos’è e come si realizza la qualità nella scuola.
Il Problema Quali indicazioni si possono trarre dal successo delle politiche di riforma scolastica che hanno portato avanti altri paesi? Non certo la dogmatica assunzione di forme da applicare meccanicamente alla realtà scolastica di un paese come l’Italia, ma possono certamente essere tratte indicazioni e linee guida generali su come si dovrebbe agire e anche criteri per valutare come si agisce.
In altre parole non si tratta di copiare i contenuti di qualche mirabolante e rivoluzionaria riforma scolastica realizzata da altri, ma di cercare di capire come essi abbiamo proceduto: non che cosa hanno fatto, ma come lo hanno fatto.
La riforma della Scuola in Finlandia
Interessanti spunti per riflettere su come sia possibile riformare un sistema scolastico, su quali siano le sfide politiche ed educative cui si va incontro e quali le modalità più opportune per pianificare e attuare le riforme in termini di tempi e risorse, ci è offerto da un interessante articolo comparso su Oxydiane, “La riforma che ha cambiato la scuola in Finlandia“, in cui non trovo nessuna indicazione precisa relativa alla data di pubblicazione e all’autore.
L’articolo è puntuale e preciso e costituisce un ottimo punto di partenza per chi voglia ulteriormente approfondire l’argomento, grazie all’apparato di note, documentazione allegata, precisi riferimenti, con cui viene supporta la descrizione del processo riformatore finlandese.
Alcune caratteristiche della scuola finlandese e del modo in cui è stata riformata
Consiglio la lettura dell’intero articolo e mi limito a sottolineare i punti che più mi interessano, anche in relazione alla attualità politica italiana e alla riforma nota come “La buona scuola” # scuola primaria comune fino a 16 anni articolata e della durata complessiva di nove anni, in cui si distinguono due segmenti: 6 + 3 anni (elementari e medie nostre) e scuola superiore di 3 anni # scuole di dimensioni piccole / medie con un massimo di 300/500 alunni, in cui tutti si conoscono e la scuola è una effettiva comunità di apprendimento caratterizzata da un forte senso di appartenenza, l’opposto di quanto si è fatto in Italia con la riforma Gelmini;
# gradualità del processo di riforma che è attuata a “piccoli passi” e in tempi lunghi in quanto prende le sue mosse nel 1972 e si può dire portata a termine nel 2002
# la riforma viene affrontata da un sistema politico e partitico che condivide gli obiettivi, è consapevole dell’importanza della formazione, gestisce in modo unitario il lungo processo di transizione, concordo sui tratti essenziali del processo di trasformazione della scuola ed è disposto a investire nell’istruzioneconsiderandola “strategica” per il paese;
# la riforma non viene “pensata” e “attuata” a prescindere dagli operatori della scuola e ponendo questi di fronte al fatto compiuta, ma assumendo la “politica scolastica” come punto essenziale della riforma.Riformare non vuol dire calare dall’alto modelli di “buona scuola” preconfezionati a tavolino, ma guidare un processo pluriennale di costruzione collaborativa di un nuovo sistema partendo dal basso # importanza che viene data alla scuola intesa come ambiente di apprendimento dotato di tutti gli strumenti, gli spazi e le risorse necessarie all’apprendimento e insegnamento.
GERM e ARM?
Questione capitale è il modello di sistema educativo che si intende realizzare attraverso il processo di riforma, occorre averne una chiara visione per poter procedere con efficacia nell’attuare una riforma di un sistema così complesso come quello scolastico. La totale assenza di una simile visione complessiva, ha sempre brillato per la sua assenza, in tutte le pseudo – riforme portate avanti in questi ultimi anni dai governi italiani che infatti sono state caratterizzate da: incoerenza, pressapochismo, contraddittorietà, inconcludenza, etc. Basti pensare che nel giro di pochi anni il sistema di reclutamento dei docenti è stato cambiato 4 volte per cui ora esistono contemporaneamente, 4 tipologie di “aspiranti docenti”, tutti divenuti tali in pieno rispetto delle leggi emanate in materia dal ministero e tutti incerti sul loro futuro perché non si riesce a comporre in un quadro unitario la loro situazione normativa. Si leggo questa testimonianza di Carlo Mazza Galanti sulla follia del sistema d reclutamento dei docenti in Italia dal titolo significativo “Come farsi passare la voglia di diventare insegnanti“
A livello internazionale si possono considerare prevalenti due diverse concezioni, radicalmente differenti, di cosa debba intendersi per “sistema educativo scolastico”. Si tratta dei Modelli GERM (Global Education Reform Movement) e ARM (Alternative Reform Movement), che cercherò di descrivere per sommi capi e che costituiscono il riferimento delle politiche educative dei paesi OCSE, con una netta prevalenza per la ricetta neoliberista del prescritta dal modello GERM.Il modello GERM
Il modello GERM è quello che equipara la scuola a un sistema produttivo e adotta le logiche dellagestione aziendale: valutazione docenti, studenti, accountability, test di misurazione, definizione di standard, adozione delle TIC, ecc. Sorge negli anni ’80 in U.S.A., Gran Bretagna, Australia, diviene ortodossia didattica nell’età di Reagan e della Thatcher, ispira la rifondazione delle scuole anglossassoni sulla base della competitività e della standardizzazione.
Il modello del mercato viene applicato alle istituzioni scolastiche che devono entrare in concorrenzatra loro, in questo modo sarebbero costrette a migliorare la loro offerta. Tassello fondamentale di questa concezione è la possibilità di misurare la qualità dell’istruzione offerta dalle singole scuole e perfino dai singoli docenti. Questo il contesto entro cui trovano collocazione le prassi valutative fondate sull’uso dei test.
Tale prassi viene fatta propria dalle agenzie internazionali di valutazione, che su tale fondamento ideologico neoliberista costruiscono un sistema di monitoraggio e comparazione dei sistemi formativi, come quello OCSE – PISA la cui attenzione si focalizza però solo su alcune competenze: Literacy e Numeracy, escludendone completamente altre.
La strategia messa in atto da Invalsi con le sue prove di “valutazione” del successo scolastico, si basa su una strategia di accountability fondata sui test, che è estranea al nostro sistema scolastico e agli obiettivi che, a partire dal dettato costituzionale, essa da sempre persegue. Insomma pretendere di valutare la nostra scuola con i test Invalsi sarebbe come pretendere di misurare la distanza tra Roma e Milano in Chilogrammi. A proposito della validità scientifica dei test Invalsi segnalo uno dei tanti articoli del matematico Giorgio Israel a proposito della situazione della scuola italiana e dei test Invalsi, dal titolo La scuola e il crollo del buon senso
Il modello ARM
Il modello ARM (Alternative Research Movement) è più umanistico ed è fondato sulla autonomia delle istituzioni scolastiche con pochi standard nazionali e punta sulla formazione del personale docente e la sua autonomia in qualità di professionisti. Nel modello ARM si punta sulla collaborazione e non sulla competizione tra studenti, docenti e scuole, anzi tale idea è del tutto assente. Il modello ARM è quello scelto dalla scuola finlandese, caratteristiche principali del modello ARM in Finlandia sono:
– fiducia nei docenti e dirigenti che sono considerati professionisti di alto livello e che sono formati secondo percorsi chiari e affidabili;
– vengono incoraggiate a tutti i livelli (dirigenti, docenti, studenti) il pensiero critico, la creatività, l’immaginazione, la proposta di nuove soluzioni e idee;
– Finalità ultima dell’apprendimento e dell’insegnamento sono il piacere di apprendere, infondere curiosità e sviluppare lo sviluppo complessivo di chi apprende.
Cosa si può imparare dalla riforma scolastica finlandese?
1. I tempi di una riforma scolastica
I tempi sono quelli lunghi e vanno gestiti da un ceto dirigente lungimirante, il contrario delle mille riforme che la scuola italiana ha dovuto subire e che si caratterizzano per i brevissimi tempi di incubazione e la totale incapacità di affrontare il problema in modo sistemico, limitandosi a intervenire solo in alcuni settori e senza curarsi della coerenza degli interventi con il sistema nel suo complesso. La riforma Gelmini è stata pensata in pochi mesi e attuata immediatamente con obiettivi prevalentemente finanziari (risparmiare). La Riforma Gelmini – Renzi, nota con quello che pare più uno slogan che un’idea per riformare la scuola (La Buona Scuola), viene considerata intoccabile e scodellata in pochi mesi all’opinione pubblica e ai soggetti che operano nella scuola, lasciati totalmente al di fuori del processo di elaborazione della riforma stessa, se si esclude la finzione di questionari online e siti web che somigliano più a brochure pubblicitarie che a luoghi di dibattito.
Prima Conclusione: per cambiare la scuola occorre una capacità progettuale sistemica e un lavoro pluridecennale graduale, coerente ma inesorabile che coinvolga attivamente tutti i soggetti in campo.
2. I luoghi della riforma della scuola
I luoghi della riforma della scuola sono le scuole intese come edifici, sono le aule intese come ambienti di apprendimento. L’opinione pubblica italiana, gli stessi docenti e studenti, non sono nemmeno lontanamente in grado di comprendere l’inadeguatezza dei luoghi in cui la comunità scolastica svolge il suo lavoro di apprendimento e insegnamento. Ricordo solo, per chi non lo sapesse, che circa la metàdelle scuole italiane non ha né il certificato di agibilità, né quello di prevenzione incendi e che il 40% degli edifici ha 40/50 anni di età. Il solo modo per avere un’idea precisa dell’arretratezza e del sottosviluppo italiani è quello di utilizzare video e immagini. Quindi lascio la parola a fotografie e filmati
2.1. Finlandia: Jyvaskyla, la capitale della scuola finlandese
Anche in Italia esiste qualche bella scuola, ma si tratta di rari casi, in Finlandia sono per la maggior parte come mostrano le fotografie. Si tratta di tre diverse scuole da me visitate durante un soggiorno ad Jyvaskyla nel 2009 in qualità di visitatore italiano del sistema scolastico finlandese, ho visitato tutte le scuole della cittadina.
Atrio della Scuola media Vaajakumpu
Scuola media Vaajakumpu: sala professori
Liceo Cygnaeus: sala professori
istituto Viitaniemi: una delle sale mensa
Un articolo (in inglese) in cui si approfondisce la concezione della scuola come progettazione di Ambienti di apprendimento e non di fatiscenti edifici di stanze vuote come in Italia, si può leggere sul sito dellaOECD: Conference in Finland on Tomorrow’s Learning Environment
2.2. La Scuola Danese: Hellerup
In questo filmato dell’Indire viene presentata una scuola tipo danese: la scuola di Hellerup:
2.3. La scuola Svedese Il polo creativo di Stoccolma in questo studio dell’Indire: la scuola di Vittra – Telefonplan.
2.4. La scuola Australiana
In Australia le scuole sono quasi tutte private, nelle scuole pubbliche ci va chi non può permettersi la scuola privata. Questo che vedete presentata nel filmato è l’edificio che ospita l’unico liceo pubblico diMelbourne. In Australia si sta passando al sistema “open classrooms” aule aperte, in pratica non esistono aule e tutti gli studenti ricevono, da una decina d’anni a questa parte, il laptop dalla scuola. La didattica è basata sull’online learning.
2.5. La Scuola Italiana?
Tutti noi abbiamo esperienza di quale sia la condizione disastrosa degli edifici scolastici in Italia, si consideri però che non si tratta solo di inadeguatezza dal punto di vista della sicurezza, semplicemente la maggioranza degli edifici scolastici italiani non sono scuole, non sono nemmeno ambienti di apprendimento, sono stanze delle stanze vuote del tutto inadeguate alle esigenze della didattica del XXI secolo. Nel mio istituto, per esempio, non si possono nemmeno spostare i banchi. devono restare disposti su tre colonne per motivi di sicurezza, in caso si debba evacuare velocemente la scuola.
3. Mercato versus Comunità
Mentre il modello anglosassone è fondato sull’idea di competitività e concorrenza declinate a tutti i livelli e assunte come principale garanzia della crescita della qualità della formazione, il modello ARM attuato in Finlandia è fondato sull’idea di comunità e della formazione come ricerca e costruzione collaborativa della conoscenza e del percorso didattico. L’aspetto più interessante di questa prospettiva, è che lastessa riforma è stata attuata come un processo collaborativo di costruzione del nuovo sistema scolastico, processo di cui i docenti e studenti sono stati protagonisti. Questi alcuni spunti interessanti propri di questo modo di procedere: # Consenso e fiducia della popolazione sul modo di operare dei governi e sugli effettivi obiettivi della riforma, finalizzata a trasformare il sistema economico del paese in una “economia della conoscenza“; # Estrema gradualità della riforma: pur prevedendo un mutamento drastico del sistema scolastico, l’attuazione della riforma si è sviluppata in un arco di 20/30 anni consentendo di assorbire gradualmente le novità
# Negoziazione di ogni passo della riforma con i soggetti chiamati in causa e condivisione degli obiettivi;
# Clima di fiducia reciproca tra famiglie, docenti, studenti, dirigenti e autorità politica, non esiste un sistema di valutazione esterno degli studenti, delle scuole, dei docenti;
# graduale ricambio del corpo docente con pensionamento degli insegnanti formati nel modo tradizionale e immissione di nuovi docenti formati diversamente e secondo un profilo differente da quello tradizionale
# Creazione attraverso la collaborazione tra i docenti di un nuovo curricolo per la scuola
La verità è un fatto di giustizia, non solo di forma logica.
[…] quando un filosofo si rivolge a un sovrano, a un tiranno, e gli dice che la sua tirannide è pericolosa e spiacevole, perché la tirannide è incompatibile con la giustizia, in quel caso il filosofo dice la verità, crede di stare dicendo la verità, e ancor più, corre un rischio (giacché il tiranno può adirarsi, può punirlo, può esiliarlo, può ucciderlo). Fu questa esattamente la situazione in cui si trovò Platone con Dionigi di Siracusa – sulla quale ci sono interessantissimi riferimenti nella Lettera settima di Platone, e anche nella Vita di Dionigi di Plutarco.
Quindi, come vedete, il parresiastes è qualcuno che corre un rischio. Naturalmente, non è sempre il rischio della vita. Quando, per esempio, qualcuno vede un amico che sta commettendo un errore e rischia di incorrere nelle sue ire dicendogli che sta sbagliando, costui sta agendo da parresiastes. In tal caso, certo, non rischia la vita, ma può irritare l’amico coi suoi rilievi, e conseguentemente l’amicizia può risentirne. Se, in una discussione politica, un oratore rischia di perdere la sua popolarità perché la sua opinione è contraria a quella della maggioranza, o perché può condurre ad uno scandalo politico, egli sta usando la parresia. La parresia dunque è legata al coraggio di fronte al pericolo: essa richiede propriamente il coraggio di dire la verità a dispetto di un qualche pericolo. E nella sua forma estrema, dire la verità diventa un «gioco» di vita o di morte». Michel Foucault, Discourse and Truth. The Problematization of Parresia, 1985; trad. it. Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 1996, p. 7.
Il diritto ad educare non esiste.
Non lo riconosco io, non lo ha riconosciuto
e non lo riconoscerà mai nessuna giovane generazione di educandi
che sempre e dovunque si ribellano contro l’educazione
loro imposta.
Come dimostrerete la legittimità di questo diritto?
Io non so e non suppongo nulla,
ma voi riconoscete e supponete che un uomo abbia il diritto
di plasmare altri uomini come egli stesso vuole.
Dimostratemi pure la legittimità di questo diritto,
ma non con l’argomentazione che l’abuso del potere esiste
ed è esistito da sempre. Non siete voi i querelanti,
ma noi, e voi dovete rispondere.
Lev Tolstoj
Esistono molte parole che non esprimono concetti ben definiti e spesso vengono usate in modo arbitrario; eppure si tratta di parole indispensabili, quali: educazione, formazione culturale, insegnamento[1].
Non sempre i pedagogisti ammettono la differenza che passa tra il concetto di formazione culturale e di educazione, ma non sono in grado di esprimere i propri pensieri altrimenti che usando le parole: cultura, educazione, insegnamento. Ad ognuno di questi termini deve corrispondere necessariamente un concetto ben preciso. Forse è giustificata la nostra avversione ad usare queste parole nella loro accezione attuale; tuttavia questi concetti esistono ed hanno il diritto di esistere distinti l’uno dall’altro. In Germania si fa una netta distinzione tra Erziehung (educazione) e Unterricht (insegnamento). Si riconosce che l’educazione sottintende l’insegnamento, che l’insegnamento è uno dei mezzi più significativi per raggiungere l’educazione, che ogni insegnamento reca in sé l’elemento educativo, erziehliges Element. Inoltre, il concetto di formazione culturale, Bildung, comprende sia l’educazione che l’insegnamento.
La distinzione tedesca più comune sarà la seguente: l’educazione è la formazione degli uomini migliori, secondo l’ideale di perfezione umana elaborato da una data epoca. L’insegnamento, sebbene implichi una maturazione morale, è un mezzo, non esclusivo, per raggiungere lo scopo; oltre ad esso, è importante che l’educando sia sottoposto a condizioni che i tedeschi ritengono favorevoli ai fini dell’educazione, e cioè la disciplina e l’imposizione, Zucht. Lo spirito umano, dicono essi, deve essere allenato, come lo è il corpo con la ginnastica.Der Geist muss gezuchtigt toerden.
Sappiamo che la nostra convinzione fondamentale, cioè che l’unico metodo educativo sia l’esperienza e l’unico criterio per educare sia la libertà, suonerà per alcuni come un trito luogo comune, per altri una oscura astrattezza, per altri ancora un sogno irrealizzabile.
Lev Tolstoj
L'”istruzione popolare”[1] ha rappresentato sempre e dovunque e continua a rappresentare un fatto per me incomprensibile. Il popolo vuole l’istruzione e ogni singolo individuo inconsciamente aspira ad essa. La classe di persone più istruita — della società, del governo — fa il possibile per trasmettere le proprie cognizioni ed istruire la classe del popolo meno colta.
Sembrava che tale coincidenza di esigenze avrebbe dovuto soddisfare sia la classe educatrice che la classe da educare. Ne deriva invece il contrario. Il popolo contrasta in continuazione gli sforzi che la società o il governo, come rappresentanti della classe istruita, compiono per la sua istruzione e questi sforzi rimangono per la maggior parte inefficaci. Senza parlare delle scuole dell’antichità dell’India, dell’Egitto, della Grecia e persino di Roma, la cui struttura ci è poco nota, come pure il punto di vista popolare su questi istituti, questo fatto stupisce noi, nelle scuole europee, dai tempi di Lutero ai nostri giorni.
Il terzo libro di Frank McCourt, uscito per Adelphi, si inserisce degnamente nella letteratura tragicomica dedicata alla scuola. Segnalo due passaggi che, anche fossero gli unici, meriterebbero la lettura: «Com’è che ci hai messo tanto?» (a pubblicare un libro, ndr) «Insegnavo. Ecco com’è!», e «i ragazzi bisogna tenerli occupati, sennò c’è il rischio che si mettano a pensare»: effettivamente, quando li terremo impegnati a prepararsi per i test INVALSI il rischio sarà pienamente scongiurato.
In Ehi, Prof, McCourt parla della sua vita da professore. Trentamila ore di insegnamento racchiuse in aneddoti, dialoghi, scontri. Un insieme di tanti episodi che riproducono il clima delle aule dove ha lavorato, con il coro di voci, quelle dei suoi dodicimila allievi sempre in sottofondo. Il protagonista è un docente davvero particolare, a tratti bizzarro, sempre indeciso sulla scelta del suo mestiere, allergico alla burocrazia, incapace di ingraziarsi i superiori. La paura di aver sbagliato tutto, di essere, alla fine, solo “un ciarlatano” [quanto ti capisco Frank, ndr.] è sempre dietro l’angolo. Intanto gli anni passano e McCourt continua a lavorare nelle scuole, tra alti e bassi, delusioni e gioie, non smette di cercare un rapporto diverso, diretto con i suoi studenti. Ma la passione che anima questo mick (come venivano chiamati gi irlandesi), anche se non viene mai direttamente dichiarata, appare in controluce quasi in ogni pagina. E, alla fine, sarà proprio uno de suoi ragazzi a dirgli “Ehi professore. Lei dovrebbe scrivere un libro, sa?” Esattamente quello che farà il suo vecchio insegnante.
Theodor Roethke, Il walzer di mio papà
[tratto dalla recensione del Sole24Ore] Le tragicomiche avventure del prof. vengono scandite dai racconti di piccoli avvenimenti, come se tre decenni fossero dipinti con pennellate veloci, vibranti, dai colori intensi. Sono pagine cariche di ironia, la vera cifra stilistica di questo narratore. Con una prosa concisa, semplice, efficacissima, conduce il lettore nel mondo della scuola americana, dove gli studenti sembrano già parti di una catena di montaggio e dove “i ragazzi bisogna tenerli occupati, sennò c’è il rischio che si mettano a pensare”. E allora, ecco le avventure e le disavventure del professore irlandese, da quando rischia di venire licenziato, al suo primo giorno di lavoro, perché raccoglie da terra il panino di uno studente e se lo mangia, a quando lo troviamo intento a far declamare ai suoi allievi una serie di ricette culinarie di ogni parte del mondo, mentre altri compagni, accompagnano la descrizione di ogni pietanza con gli strumenti musicali più adatti.
Nella quarta di copertina si legge:
«Frank McCourt racconta come si combatte il disastro scolastico – che non è, ahinoi, solo quello del presidente Ike Heisenhower – e come sul mutuo soccorso che c’è tra i due lati della cattedra si possa fondare il senso della vita […]».
Tra i molti episodi toccanti, scelgo la storia di Ken, ragazzo coreano che odiava suo padre. L’antefatto è la lettura in classe della poesia di Theodor Roethke, Il valzer di mio papà, il cui soggetto è il rientro a casa ubriaco di un padre lavoratore che prima di mettere a letto il figlioletto, lo coinvolge in una danza intorno al tavolo di cucina, mentre gli batte il tempo sulla fronte con una mano sporca e ferita. Anni dopo, dalla sua stanza di college, il ragazzo invia una lettera al vecchio prof.per raccontargli cosa gli resta di quella poesia:
Ken era un ragazzo coreano che odiava il padre. Raccontò alla classe che era stato costretto a prendere lezioni di pianoforte anche se a casa il piano non lo avevano. Il padre lo obbligava a esercitarsi sul tavolo di cucina e se gli veniva il sospetto che non facesse le scale a dovere, lo bacchettava sulle dita con una spatola. Stessa cosa per sua sorella di sei anni. Quando ebbero abbastanza soldi per comprarsi un pianoforte vero e la
Questo libro ha l’ambizione di inserirsi nella tradizione pedagogica antiautoritaria, da Neill a Illich. Sono dunque andata a sentire la presentazione … Qui l’introduzione del libro, qui un articolo di Irene Stella e, qui una parte del libro che tratta il tema dei voti.
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Eravamo una ventina e la minuscola libreria non ci conteneva tutti, così ci siamo spostati nella sala thé di un bar vicino. Introduzione della coautrice accattivante; il dibattito prende subito una piega: si tratta di capire se esperienze di pedagogia libertaria esistono o sono possibili nella scuola pubblica statale o se la scuola libertaria propugnata da Francesco Codello e Irene Stella sia un’altra scuola della retta per pochi e dei voucher, che auspica e si prefigge il ridimensionamento della scuola pubblica.
Anche alla luce della struttura del libro e delle interviste che contiene, credo che la coautrice non si aspettasse di dover rispondere a domande di questo genere, ma di dover convincere piuttosto il proprio pubblico che dell’autoritarismo, della valutazione e della rigida programmazione si può fare a meno. Irene Stella parte infatti dalla forte convinzione che la scuola pubblica non possa ospitare esperienze di libertà e che gli insegnanti che ci lavorano non siano spinti a rinnovare le proprie conoscenze, metodi e proposte didattiche (memorabile il suo “gli insegnanti che lavorano in queste scuole non stanno a scuola per più di 3 giorni a settimana, sono talmente impegnati a migliorare il proprio insegnamento che non potrebbero sopportare un carico di lavoro maggiore”. Già, è quella cosa che facciamo aggiungengendo alle 18 ore di cattedra un numero infinito di ore di studio di cui ormai non si ricorda nemmeno chi, per statuto, dovrebbe difendere la categoria).
Per quanto mi riguarda, credo che le migliori esperienze pedagogiche non valgano la perdita di una scuola democratica e genuinamente di massa, quale è stata quella statale fino a poco tempo fa. Scuole per pochi, di eccellente qualità, sono già presenti, soprattutto all’estero, dove la tradizione della pedagogia di classe, della scuola lockeana del gentleman contrapposta a quella del volgo (working school) ha già 3 secoli di storia (e l’home schooling indicato dalla scuola libertaria ne è la diretta continuazione).
La scuola italiana manca completamente di questa esperienza storica, mentre ha avuto i suoi momenti di gloria nell’alfabetizzazione popolare postunitaria e nella scolarizzazione di massa degli anni ’60, realtà che potevano essere duramente criticate da maestri come Dolci e don Milani proprio perchè erano opportunità reali che si volevano autentiche e accessibili a tutti (vale a dire che don Milani, in particolare, criticava lo scuola pubblica proprio perché si aspettava che facesse ciò che non faceva e che questa aspettativa era legittima perchè poggiava su principi e finalità codificati nella carta costituzionale).
Irene ha iniziato e concluso indicando nell’autostima e nella libertà i due cardini della scuola democratica. La scuola repubblicana in effetti ne ha altri due: cittadinanza e ugualianza. L’autostima e l’antiautoritarismo cerchiamo di ottenerli in questa scuola rattoppata mentre cerchiamo di insegnare a pensare a tutti quelli che entrano.
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