Che le scuole siano i frutteti di un gaio sapere, come gli orti che i disoccupati e i più deboli non hanno ancora avuto l’immaginazione di piantare nelle grandi città sfondando il bitume e il cemento
Raoul Vaneigem
La scuola ricorda i penitenziari – osserva Vaneigem – la sua bruttezza e il suo degrado incitano al vandalismo. Bisogna allora distruggerla? Domanda doppiamente assurda. Prima di tutto perché è già distrutta. Sempre meno interessati da ciò che insegnano e studiano – e soprattutto dalla maniera di istruire e istruirsi – professori e allievi non sono forse indaffarati a far colare a picco insieme il vecchio piroscafo pedagogico che fa acqua da tutte le parti?
La noia genera la violenza, la bruttezza degli edifici incita al vandalismo, le costruzioni moderne, cementate dal disprezzo degli impresari immobiliari, si screpolano, crollano, prendono fuoco, secondo l’usura programmata dei loro materiali di paccottiglia. Alle stupide pretese del maestro di regnare tirannicamente sulla classe rispondono con eguale stupidità il baccano e il chiasso che servono da sfogo alle energie represse.
Un articolo da leggere fino in fondo e attaccare alle pareti delle derelitte scuole italiane, il cui fantasma (vale a dire la scuola che fu) è stato definito nella vulgata giornalistica di un rapporto OCSE «un modello inclusivo». Uscito su Lavoro culturale.
Di recente l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha reso pubblico un rapporto sul confronto dei dati relativi alle indagini del passato sulle competenze scolastiche e sulle competenze di base e di cittadinanza degli adulti di oggi. Il rapporto OCSE, di cui è disponibile anche una sintesi in inglese per la stampa, ha sollevato critiche e polemiche. Ne ha parlato Girolamo De Michele su Lavoro culturale.
La scorsa settimana è andato in onda un format (o forse era la sua replica?) cui la scuola italiana è ormai abituata, e che infatti, al di là del primo impatto, non ha registrato particolari picchi di audience.
La trama, in effetti, era sin troppo consueta: un ente internazionale, l’OCSE, pubblica un rapporto; qualche giornalista lo commenta senza averlo letto, basandosi sulla sintesi predisposta per la stampa e facendosi aiutare da google traduttore (per cui “cohorts”, che in senso statistico significa “gruppo”, diventa “alcune coorti di studenti”, che ci si figura stretti – nelle classi-pollaio tuttora in vigore – e pronti alla morte laddove l’Italia chiamò), e alcuni politici a caso – Matteo Renzi, una signora dai capelli rossi casualmente di passaggio presso il ministero dell’istruzione, e la solita Francesca ma-che-te-lo-dico-a-fare? Puglisi – commentano entusiasti, come i loro predecessori dello scorso decennio, ovviamente senza aver letto il rapporto: commentano, dunque, un articolo di giornale, non i dati in questione, secondo il quale “l’OCSE ci promuove” (Renzi) come “scuola migliore d’Europa” (Intravaia) perché “i dati pubblicati dall’Ocse ci dicono che la scuola italiana è una scuola inclusiva, capace di supportare le studentesse e gli studenti che partono da condizioni più svantaggiate” (Fedeli), e dunque “l’Italia riesce ad offrire uguali opportunità a tutti recuperando gli svantaggi di partenza” (Puglisi).
Questo réportage di Luca Barbieri è stato condiviso su Facebook. Si tratta di una delle testimonianze che ho ascoltato in questi mesi, sulle “esperienze di alternanza” che le scuole si stanno inventando per assolvere l’obbligo di 400 ore di ASL negli Istituti Tecnici e Professionali e di 200 nei Licei.
Come ha detto una collega al nostro ultimo Convegno Cesp [Perugia, 9 marzo 2017] sulla Buona scuola due anni dopo:
«è un bene, paradossalmente, che la Buona scuola abbia esteso l’obbligo anche ai Licei, perché questo scandalo comincia ad essere visibile solo oggi, quando diventa chiaro a tutti cosa facciano realmente i ragazzi che avrebbero più bisogno di studiare».
Incollo in coda gli screenshot del thread che ne è seguito, ricognizione pressoché completa delle retoriche dell’alternanza.
In viaggio verso Roma ci siamo fermati ad un Autogrill per una breve sosta.
Avvicinandomi al bancone ho notato che la ragazza che mi stava per servire un caffè aveva sulla divisa il logo dell’alternanza scuola-lavoro.
Per un nuovo 89, 77, 68, 17, l’appello di Francesco Lizzani, professore di Filosofia e Storia al Plauto di Roma, al Terzo stato dell’istruzione:
con una classe cosiddetta dirigente di tale leva non è più il tempo per i cahiers de doléances; nulla potremo più ottenere per una vera buona scuola da questo ceto di governo parassitario e ignorante. È tempo ormai di riprendere in mano il nostro destino comune, di riunire in un fronte comune il nostro “ordine” nella sua interezza, dalla scuola primaria all’università, di riconoscere il nostro “Terzo Stato” come unico e legittimo rappresentante dell’istruzione italiana e dei suoi interessi comuni, contro gli altri due Ordini (quello dei politici-demagoghi e quello della burocrazia pervasiva) che hanno scippato le chiavi di casa nostra, e trasformato il nostro esercito in una massa di manovra per ordini sbagliati e contrari alle finalità per cui siamo (mal) retribuiti.
In coda altre lotte per le stesse ragioni: la battaglia persa dagli insegnanti messicani nel 2006 e quelle vinte dalla scuola canadese e dagli insegnanti di Chicago nel 2012.
Seicento docenti universitari si sono appellati al governo per denunciare la diffusione di lacune ormai ai limiti dell’analfabetismo nell’italiano degli studenti che approdano alle loro aule. La notizia sorprende non certo per il problema, con cui il mondo della scuola si confronta da anni, ma perché il grido di allarme si leva ora dal piano più alto del sistema formativo. Come’è possibile, in effetti, che il progresso secolare della scolarizzazione e poi dell’informazione globale producano un effetto simile?
Un prezioso studio sociologico dedicaro al significato del ranking scolastico e della falsa neutralità di strumenti come Eduscopio, la cui logica di funzionamento agisce da moltiplicatore delle diseguaglianze. Tratto da Lavoro culturale.org.
Entro la fine della giornata chiunque abbia un figlio o una figlia iscritti all’ultimo anno della scuola media, dovrà effettuare l’iscrizione a una scuola superiore. Si tratta di un momento nei percorsi scolastici di migliaia di ragazzi e ragazze spesso enfatizzato, caricato di significati fatali e fatalistici, del quale tuttavia non vengono quasi mai approfondite e indagate le motivazioni. Cosa sappiamo di come viene effettuata la scelta della scuola superiore?
Sappiamo che la scelta della scuola superiore condiziona la qualità dell’esperienza scolastica, culturale e relazionale dei ragazzi e delle ragazze, le probabilità di abbandono scolastico, le probabilità di accesso al mondo universitario, quelle di conseguire una laurea, il tipo di carriera occupazionale a cui si potrà avere accesso[1].
Per una giusta valutazione, tutti devono sostenere la stessa prova: salite sull’albero!
Nel cinquantennale della Lettera ad una professoressa, la riflessione di un maestro sull’isteria valutativa e sulla fabbrica di impotenze apprese che, per l’effetto, la scuola, non soltanto Primaria, sta inevitabilmente diventando. Tratto da Internazionale 10 febbraio 2017.
Alla fine i voti sono rimasti anche nella scuola primaria e media. Ministra e governo hanno avuto paura di andare contro l’opinione prevalente degli insegnanti, già abbondantemente irritati per alcune pessime conseguenze della legge della buona scuola, e contro diversi opinionisti di peso, che vedono nei voti e nelle bocciature i simboli di una scuola seria e rigorosa.
Insegno nella scuola elementare da 38 anni e continuo a domandarmi come sia concepibile affibbiare a un bambino un voto in geografia, italiano o matematica nei primi anni di scuola. A chi stiamo dando quel voto? Al grado di istruzione della sua famiglia? Al grado di ascolto che hanno avuto le sue prime parole a casa? Alle esperienze che ha avuto la fortuna di fare? Al destino che ha fatto giungere proprio qui la sua famiglia da campagne analfabete o dalle periferie di qualche megalopoli africana o asiatica?
Ho appena finito di leggere questo piccolo libro in cui Simone Bulleri ha inserito cento siparietti di dura quanto scanzonata vita scolastica. Ogni pagina mi ha fatto sorridere e un po’ sbuffare, perché dove Simone vede il grottesco, il buffo, l’ironico io trovo il tragico, l’eroico, il sorprendente.
Insegniamo la stessa disciplina, ma lui sprofondato in fluviali lezioni frontali, io al salto con l’asta tra testi, mappe, video e prove di realtà.
Lui, infine, pisano, io …… livornese (d’adozione).
Leggendolo mi sono tornate in mente le battute di Starnone e il tragicomico di Luchetti, a cui si aggiunge questo ultimo, surreale capitolo. Per appassionati del genere.
Andrea ha sette anni e un disturbo di lettoscrittura. Frequenta una scuola privata che deve formare «i migliori», dalle competenze di base al bilinguismo. Ci mette un anno a capire che gli si chiede di «produrre» gli stessi risultati degli altri: quando se ne rende conto lo rifiuta, la scuola lo espelle.
Un raccontino esemplare del percorso di involuzione (da “dolce e vivace” a protagonista di “comportamenti esplosivi, oppositivo-provocatori”) intrapreso da un bambino con disturbo d’apprendimento nella scuola decostituzionalizzata, oggi detta «Buona», una scuola che insegna a stare al passo senza capire davvero, che assume la conformità a valore, che carica di odio chi non ce la fa (patologizzandone, poi, ipocritamente il disagio). Tratto da La Repubblica.it.
Alla fine, dopo troppi libri dei compagni buttati a terra, diverse matite spezzate e le fughe del bambino lungo le scale, il preside ha scritto alla famiglia di Andrea, 7 anni, appellandosi a un regio decreto del 1928:
“I comportamenti di vostro figlio, ripetuti, costanti ed ingravescenti, esplosivi, oppositivo-provocatori, sono patologici, da gestire in adeguata sede di cura e non in contesto scolastico”.
Nove giorni di sospensione, a sette anni. Dopo due giorni precedentemente comunicati a voce. Undici in tutto. “Curatelo, non può restare in classe”, era il verdetto grossolano. L’ultima mattina a casa è scaduta martedì scorso, ma Andrea nella seconda elementare dell’istituto da cui era stato allontanato, scuola parificata a reggenza religiosa nel cuore di Parioli, Roma borghese, non è tornato. È già in una pubblica del centro. I suoi vecchi compagni non riescono a capire perché non sta più con loro.
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