elmo di tipo corinzio, 500-490 a.c.ca, Staatliche Antikensammlungen-di Monaco
Da Studia Humanitatis, una rielaborazione della ricognizione di Frediani [Le grandi battaglie dell’Antica Grecia, Roma 2005 (pp. 37 sgg.)] della nascita della falange oplita e dell’arte occidentale della guerra.
Risulta difficile individuare il momento in cui gli atti di eroismo individuale e i duelli «a singolar tenzone» iniziarono ad essere visti non più come l’obiettivo primario di un’azione militare sul campo di battaglia, bensì come ciò che lo comprometteva, ovvero la potenza scaturita da un assalto compatto e coeso di ampie unità tattiche.
Il poeta spartano Tirteo afferma che ai suoi tempi, nel VII secolo a.C., si era compiuto il processo in base al quale ogni guerriero era tenuto a combattere spalla a spalla con il proprio commilitone e ad evitare qualunque gesto, per quanto valoroso, che potesse compromettere la coesione della formazione. Ed è a questo concetto che dobbiamo legare l’inizio dell’arte occidentale della guerra, con tutte le sue implicazioni etiche, politiche e sociali. L’invenzione, d’altronde, fu così devastante da suscitare l’interesse dei governi dell’intero bacino mediterraneo, che diedero allora avvio alla pratica, assai diffusa nei secoli successivi, di valersi di guerrieri greci come mercenari: «uomini di bronzo che provenivano dal mare», ad esempio, prestarono servizio sotto il faraone Psammetico I, nel corso del suo lungo regno, nella seconda metà del VII secolo a.C.
Doveva essersi trattato di un processo piuttosto lungo. Non bastava, infatti, che un clan agrario prima, una città-stato (pólis) poi, orientassero la loro tattica sul campo di battaglia verso azioni più coordinate tra uomini e tra unità, imbrigliando l’aggressività di guerrieri solitamente portati a partire all’attacco da soli o a piccoli gruppi; era anche necessario concepire delle formazioni che obbligassero i combattenti a contare l’uno sull’altro, ed equipaggiarli con armi diverse da quelle di cui avevano fruito fino ad allora, più maneggevoli e compatte. Possiamo asserire, pertanto, che la tattica precedette le nuove tecnologie, piuttosto che il contrario, e che le nuove armi resero più efficace e portarono a un maggior grado di evoluzione un consolidato modo di combattere. Probabilmente nel corso dell’VIII secolo a.C., dunque, fu istituzionalizzata la pratica di schierare le truppe in file; grazie ad essa, ciascun armato poteva prendere prontamente il posto di chi lo precedeva quando questi cadeva, o creare dei ranghi serrati con l’avanzamento negli interstizi tra i commilitoni schierati nella fila precedente, per imprimere una potente forza d’impatto nel momento dell’attacco e contenere qualsiasi spinta in difesa. Per ottenere la coesione auspicata, ci volevano uno scudo più maneggevole e nello stesso tempo sufficientemente grande da coprire il lato scoperto dell’uomo al proprio fianco sinistro, e una lancia con cui affondare i colpi al momento dell’impatto stesso, in luogo del leggero giavellotto da lanciare prima del cozzare degli schieramenti.
Nasceva così l’«oplita» (hoplítēs), ovvero l’«uomo corazzato» anche grazie alla collaborazione dei suoi commilitoni, tutti componenti di una formazione che doveva agire sempre all’unisono e combattere come una singola unità: la «falange» (phálagx), ovvero – nel significato attribuitole dai Greci antichi – la «formazione da battaglia»– anche se noi moderni tendiamo a riferirla solo alle formazioni di fanteria pesante. L’invenzione avrebbe profondamente influenzato l’arte della guerra nei secoli a venire, se si eccettua l’evoluzione manipolare e coortale delle legioni romane e l’avanzamento in ordine sparso delle orde barbariche all’alba del Medioevo: secoli e secoli dopo l’epoca della Grecia classica, i picchieri delle armate europee dal XIII ad almeno il XVII secolo avrebbero seguito i canoni adottati dagli antichi opliti.
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