Célestin Freinet, maestro elementare per quarant’anni nel sud della Francia, proveniva da una famiglia contadina, ma dopo la prima guerra mondiale, nella quale era rimasto gravemente ferito, aveva potuto laurearsi in lettere.
Internato e partigiano durante la seconda, Freinet concepiva la pedagogia come «scienza del condurre una classe», attività concreta di maestri e insegnanti non necessariamente dotati di spiccate qualità naturali, ma capaci di osservazione e di volontà di miglioramento.
La scuola deve essere laica, basata su un metodo naturale, fatto di strumenti ed esperienze della vita reale e vicina ai meccanismi d’apprendimento che i ragazzi sviluppano naturalmente. Deve essere, inoltre, un luogo in cui i bambini imparino ad essere liberi, non soggetti all’autorità dei maestri.
L’École Freinet aveva una struttura cooperativa che coinvolgeva i ragazzi nelle gestione e nella soluzione dei problemi, era una scuola attiva, nella quale gli allievi perfezionavano l’uso della lingua scrivendo un giornalino di classe che veniva poi stampato, per realizzare un prodotto che fosse tecnicamente perfetto e fonte di soddisfazione per gli autori.
La altre tecniche di Freinet erano il testo libero, composizione in cui i bambini si esercitavano a scrivere ciò che più gli interessava, invece di comporre un tema suggerito dal maestro, e il calcolo vivente che proponeva esercizi matematici quali soluzione di problemi concreti.
In Le tecniche e la loro nascita, il maestro spiega come e per quali scopi ha sviluppato la propria didattica; nello scritto del del 1924 Verso la scuola del proletariato, Freinet si confronta invece con i pedagogisti dell’ottocento, concependo la scuola come un’attività rivoluzionaria, capace di costruire l’uomo, sottraendosi così alle esigenze strumentali di una società diseguale, quale quella borghese.
«Insegnare è l’arte di fare emergere le domande e accompagnare gli alunni nella ricerca delle risposte».
Célestin Freinet
Indice
1. Le “tecniche” e la loro nascita
2. Verso la scuola del proletariato
1. Le “tecniche” e la loro nascita
L’idea della stampa a scuola non nasce dal nulla. Al contrario, nasce da un’altra esperienza didattica precedente: le uscite nella campagna del maestro con la classe, con la conseguente attività di osservazione a esse collegata. Il maestro riflette sul fatto che c’era una distanza abissale fra l’attenzione vera e reale che i ragazzi ponevano nei confronti della natura, delle persone, dei mestieri osservati durante la passeggiata e le letture che dovevano leggere sul libro di testo, lontane dalla loro esperienza di vita.
La lezione-passeggiata fu la mia salvezza. Invece di sonnecchiare davanti a un cartellone di lettura, alla ripresa della lezione del pomeriggio, partivamo per i campi circostanti il villaggio. Lungo le strade ci fermavamo ad ammirare il fabbro, il falegname o il tessitore, i cui gesti metodici e sicuri ci facevano venire voglia di imitarli. Osservavamo la campagna nelle diverse stagioni, quando d’inverno sotto gli olivi erano distesi i grandi teli per ricevere le olive bacchiate, o quando i fiori d’arancio sbocciati alla primavera pareva si offrissero per la raccolta.
La nostra osservazione delle cose che ci circondavano, il fiore o l’insetto, la pietra o il ruscello, non era più scolastica, era qualcosa di vivo, cui partecipavamo non soltanto obiettivamente, ma con tutta la nostra naturale sensibilità. E tornavamo carichi di ricchezze: fossili, amenti di nocciolo, un po’ di argilla o un uccello morto… Nulla di strano che in questa nuova atmosfera, in questo clima non scolastico, ci accostassimo spontaneamente a forme di rapporti che non erano più quelle, troppo convenzionali, della scuola. Ci parlavamo, ci scambiavamo e comunicavamo, in tono familiare, gli elementi di cultura che ci erano naturali, ricavandone un evidente profitto per tutti, maestro e scolari [emerge il rispetto per la soggettività di ciascun allievo che Freinet considera portatore di esperienze e saperi, non una tabula rasa da riempire]. Al ritorno in classe, scrivevamo alla lavagna il resoconto della “passeggiata”.
In mancanza di nuovi strumenti e tecniche adeguate, le mie sole risorse, per insegnare la lettura di un testo stampato, consistevano nel dire in tono rassegnato: – E ora, prendete il vostro libro di lettura, a pagina 38: La Golosa (o qualunque altra pagina, parimenti estranea all’interesse del maestro e degli scolari). E mentre leggevamo La Golosa, avevamo ancora in testa, vive e parlanti, le immagini della passeggiata. Le parole stesse si rivestivano in funzione dei momenti esaltanti che avevamo vissuto. Vi era divorzio totale, e inevitabile, fra la vita e la scuola.
Il lavoro al quale eravamo così costretti perdeva quindi tutti i vantaggi del lavoro vivo, per divenire un compito fastidioso e senza significato. Andavo dicendomi allora:
“Se potessi, con un’attrezzatura tipografica adatta alla mia classe, tradurre il testo vivente, espressione della “passeggiata”, in una pagina scolastica che sostituisse quelle del libro di testo, saremmo in grado di riprovare, per la lettura a stampa, lo stesso interesse profondo e funzionale che sentivamo nel preparare il testo medesimo”.
Nulla di più semplice e logico, tanto semplice che mi meravigliai perfino che nessuno ci avesse pensato prima di me.
Mi detti allora da fare per realizzare il mio sogno. Trovai per fortuna, presso un vecchio artigiano stampatore, un piccolo materiale di tipografia, con compositoi speciali e pressa in legno che doveva permetterci, in teoria almeno, la stampa dei nostri testi. In realtà, giungemmo con fatica a stampare 5,6,7 righe, con le quali ricoprire i fogli di formato 10,5×13,5 che allora adoperavamo. Non mi aspettavo certo, in quei frangenti, che gli alunni potessero appassionarsi un po’ durevolmente a un lavoro di cui potevo misurare a un tempo la complessità e la minuziosità. Ero talmente abituato al lavoro da imporre e che esige lo sforzo, che non immaginavo neanche potesse esistere effettivamente un’altra forma di attività più leggera e più gradevole.
Mi ingannavo. Gli scolari si appassionarono alla composizione e alla stampa, faccenda, comunque, per niente semplice col nostro materiale ancora rudimentale.Vi si appassionarono non soltanto perché ordinare i caratteri nei compositoi poteva risultare un gioco attraente, ma perché avevamo ritrovato un processo normale e naturale della cultura: l’osservazione, il pensiero, l’espressione naturale diventavano un testo perfetto. Questo testo lo si era fuso nel metallo, poi stampato. E tutti gli spettatori, cominciando dall’autore, si sentivano quasi emozionati all’apparire della pagina impressa, di fronte allo spettacolo del testo magnificato, che ormai assumeva valore di testimonianza.
Questa fu la prima scoperta fondamentale che doveva condurci a riconsiderare progressivamente tutto il nostro insegnamento. Il pensiero e la vita del fanciullo potevano ormai divenire elementi massimi della cultura. […] Fin da principio, per intuizione e buon senso, fui spinto a dar fiducia ai ragazzi ed ebbi ragione. Se avessi cominciato col chiedergli di stampare testi estranei alla loro propria vita, si sarebbero ben presto stancati della novità che gli offrivo, come si stancano del bel manuale tutto nuovo che gli diamo in ottobre. Così il nostro esperimento sarebbe abortito in partenza, e forse definitivamente. Il seme lo avevo gettato. Curai la sua germinazione per dimostrare che il bisogno di creazione e di espressione è una delle idee-forza su cui sarà possibile edificare un impareggiabile rinnovamento pedagogico. L’avvenire mi avrebbe dato ragione.
Tuttavia capivo che nonostante i primi successi della tipografia scolastica nella mia classe di Bar-sur-Loup, il cerchio non era ancora del tutto chiuso. Questi testi prodotti dalle nostre classi erano ben letti nel villaggio, apprezzati di solito dai genitori, ma ciò ancora non bastava. I nostri ragazzi chiedevano e meritavano un più largo ascolto.
Fu a tale scopo che iniziai la corrispondenza interscolastica. Dal 1926 il mio amico Daniel, di Saint-Philibert-deTrégunc (Finisterre) acquistò il nostro materiale e, spontaneamente, si impegnò a sua volta nell’espressione libera. Si iniziò così una corrispondenza il cui completo successo è all’origine del crescente sviluppo delle corrispondenze interscolastiche, con o senza giornale scolastico, e dei viaggi-scambio che ne costituiscono il felice completamento. Di ciascun testo stampavamo venticinque copie supplementari, che spedivamo ogni due giorni a Saint-Philibert, ricevendone in cambio, con la stessa regolarità, le venticinque copie stampate della loro classe. Si svolse così, durante due anni, fra due classi estremamente povere, una corrispondenza interscolastica che, come prima prova, era un colpo maestro di rado poi superato. Ormai noi vivevamo la vita dei nostri piccoli compagni di Trégunc. Li seguivamo col pensiero nella loro caccia alle talpe o nelle loro pesche straordinarie, poiché il mare era venuto fino a noi e noi paventavamo con loro nei giorni di tempesta. Da parte nostra gli raccontavamo la raccolta dei fiori di arancio e delle olive, le feste di Carnevale, la fabbricazione dei profumi, e tutta la nostra Provenza se ne andava così verso Trégunc.
E un giorno, grande avvenimento, arrivò il primo pacco postale, come lo descrive L’École buissonnière in una delle più emozionanti sequenze del film. Oltre le alghe e le conchiglie conteneva un bel pacchetto di deliziose frittelle dolci. Ne mangiammo, ne facemmo assaggiare anche alla prima classe e ogni allievo, venuto mezzogiorno, ritornò a casa provvisto di frittelle destinate con gran cura ai genitori. Inutile dire il successo e l’entusiasmo suscitato da questi prestigiosi pacchi. Poiché la risposta dei genitori non tardò. Anche voi dovete mandargli un pacco… delle arance, dei dolci, delle olive, delle focacce… E il pacco per Trégunc fu preparato febbrilmente.
Una nuova vita penetrava nelle nostre classi. Avevamo ristabilito il circuito: il testo libero diventava pagina di vita, che era comunicata ai genitori e trasmessa ai corrispondenti. Avevamo così quella potente motivazione che avrebbe stimo¬lato nei nostri scolari la libera espressione. Perveniamo così ai fondamenti sicuri e definitivi della nostra pedagogia. Ristabilendo i circuiti di vita e motivando il lavoro, superiamo la scolastica per raggiungere un’altra ideale forma di attività, che arricchisce e ridona equilibrio, così da preparare la vera cultura [C. Freinet, Le mie tecniche, La Nuova Italia, Firenze, 1973 (ed. or. 1967), pp. 14-21].
2. Verso la scuola del proletariato
Il testo è stato scritto da Freinet per il numero di “Clairté” del giugno 1924.
L’attuale scuola capitalista, come del resto l’economia borghese, è il risultato degli sforzi compiuti nel passato. In un determinato periodo storico essa costituì un passo avanti, una tappa necessaria: che è anche l’ultima. Oggi, nella misura in cui noi la subiremo passivamente o ne usciremo trionfalmente, la scuola avrà una involuzione o si apriranno per essa nuove prospettive.
Qual è stato, da una parte, lo sforzo che la società ha compiuto per darsi il tipo di formazione più confacente ai suoi bisogni, e, dall’altra, qual’è stata l’azione che singole persone, o gruppi, hanno svolto per modificare e sviluppare questo tipo di formazione? Che forma ha assunto questa azione nell’attuale società e in quale misura potremo orientarla in direzione di una scuola del proletariato? Ecco i problemi di maggiore interesse che intendiamo esaminare.
La società del Medio Evo non s’occupava affatto della educazione dei figli del popolo, i quali imparavano empiricamente il mestiere paterno. Anche per i ricchi la istruzione era per lo più di tipo professionale: aveva più lo scopo di abituare il futuro nobile e signore alla sua vita di guerre e di mondanità che di far maturare in lui l’uomo.
Anche l’educazione era di tipo tradizionale. Solo quando i principi, per governare, cominciarono a servirsi della religione si incominciò a parlare di educazione. Pochi rudimenti di istruzione accompagnavano questo tipo di educazione. Risalgono a questo periodo le prime scuole per il popolo, come quella di Ch. Demia, a Lione, istituita verso la fine dei XVII secolo. Ma anche in queste scuole l’istruzione è nulla: si tende solo alla “cristianizzazione” degli allievi.
La scuola borghese
La Rivoluzione francese, per reazione, volle scuotere il popolo dalla sua apparente apatia. E, mentre distruggeva la religione, tentava di diffondere l’istruzione. Un’idea sacrosanta, questa dell’istruzione, per i nostri antenati dell’89. Non v’era ancora ombra di meschina mercatura nella loro azione. Ispirati da grandi ingegni, erano sinceramente convinti che dai lumi della ragione sarebbe derivato necessariamente lo sviluppo della moralità e del bene sociale.
Victor Hugo, molto tempo dopo, avrebbe detto: «Per ogni bambino che apprende si guadagna un uomo».
I risultati si sarebbero fatti attendere a lungo, ma, in compenso, lo Stato aveva scoperto un nuovo strumento di potere: la Scuola, con l’aiuto della Chiesa, inculca nei giovani intelletti il culto della Patria. La concezione napoleonica dell’Università appare allora come l’inatteso risultato degli sforzi rivoluzionari in favore dell’educazione del popolo.
A partire dal XIX secolo, però, l’economia subisce una profonda trasformazione: da tradizionale ed empirica diventa scientifica. L’industrializzazione si va sviluppando e, con essa, il capitalismo e la concorrenza. Da questo momento in poi parole nobili come giustizia, fraternità, patria, oppure umanità, nascondono i veri incentivi: gli interessi del capitale. Se la scuola si perfeziona, è sicuramente per sviluppare l’essere umano, per favorire il progresso, affermare, tatticamente o in buona fede, i bravi borghesi. In realtà il capitalismo nascente ha bisogno di materiale umano appositamente educato a servire i suoi interessi. E questo genere di educazione gliela garantisce la Scuola borghese.
La scuola borghese si porterà dietro per sempre il marchio capitalista. Verrà data scarsa importanza alla formazione dell’uomo. L’educazione sarà sommaria o del tutto inesistente. Al contrario, si cercherà di istruire molto, in misura sempre maggiore, man mano che aumenteranno i bisogni della concorrenza capitalistica. Alla sete di possesso, – saccheggiando all’occorrenza -, al desiderio di dominio con la forza, che caratterizzano oggi l’azione sociale, corrisponde una situazione analoga nella scuola: il capitalismo della cultura. Estendere incessantemente il campo della conoscenza, ipertrofizzare il sapere pretendendo, in tal modo, di sviluppare il potere vitale dell’uomo; ignorare, quindi, le forze spirituali dell’uomo e l’armonia sociale, che potrebbero, invece, garantire la felicità umana; offrire una cultura che produce profitto capitalista: ecco le caratteristiche dell’attuale scuola capitalista. “L’errore fondamentale dell’attuale sistema formativo – dichiara un personaggio di Ibsen – è dare importanza solo a ciò che si “sa”, invece di darla a ciò che si “è”, e ne vediamo bene le conseguenze. Possiamo verificarle su quelle centinaia di uomini ricchi di capacità che mancano di equilibrio: esiste un vero abisso tra quelle che sono le loro azioni e quelli che sono i loro sentimenti e le loro attitudini“.
Le scoperte scientifiche, mentre sono servite alla società nella misura in cui hanno dato un più ampio respiro al capitalismo, hanno ipnotizzato la Scuola con la crescente massa di nozioni da imparare. Il capitalismo, nel processo di sviluppo del suo macchinismo, badava assai poco al benessere del popolo, mettendo in primo piano solo gli interessi dei padroni. La stessa Pedagogia, invece di essere la scienza della formazione dell’uomo, è stata per molto tempo lo studio dei metodi più idonei a consentire e facilitare l’acquisizione del maggior numero possibile di nozioni. Frutto di questa mostruosa concezione della scuola è stato, nel periodo bellico e postbellico, l’«imbottimento dei crani».
Eppure non ci sono mancati pedagoghi di alta ispirazione. Forse che tutti i pedagoghi degni di questo nome non si sono fieramente scagliati, in termini rivoluzionari, contro una concezione grossolana e interessata della scuola e della società? (1) Basta citare Rousseau, – il padre, assieme a Pestalozzi, della nuova pedagogia -, il quale ha detto: «Ricco o povero, potente o debole, ogni cittadino indolente è un farabutto» (2); e Pestalozzi: «Abbiamo solo scuole di compitazione, di scrittura e di catechismo, mentre abbiamo bisogno di scuole di uomini» (3), perché ci si possa rendere conto dell’abisso che separa la loro vera pedagogia dalle nostre scadenti realizzazioni.
Per quale miracolo, quindi, la scuola borghese e capitalista è riuscita ad assimilare prima, e deviare poi, le idee di questi grandi innovatosi per metterle al servizio degli interessi di una casta? E’ questo un argomento sul quale è opportuno soffermarsi.
Rousseau era rimasto essenzialmente un teorico. Della sua vasta opera ci si è limitati a isolare quel che serviva, definendo utopistico tutto ciò che non si riusciva a comprendere o che era troppo umano. Pestalozzi invece era passato dalla teoria alla prassi. Aveva, con l’esempio, mostrato come impiegare la lezione delle cose e del linguaggio con cui pensava di rigenerare l’umanità. I suoi discepoli e i suoi seguaci hanno applicato il metodo ma poco alla volta ne hanno tradito lo spirito. E quel metodo che secondo il Maestro doveva sviluppare l’uomo nel bambino serve oggi per favorire la memoria e la capacità di apprendimento.
Pestalozzi, il cui sogno era educare i figli del popolo, aveva introdotto nelle sue scuole il lavoro manuale vero e proprio. Vedeva in questo la salvezza attraverso il lavoro per i suoi piccoli poveri. La Scuola del Lavoro è nata in Germania, ma non corrisponde affatto allo spirito umanitario di Pestalozzi.
Fröbel subì la stessa sorte. Trovò immediatamente grossi ostacoli alla realizzazione della sua eccellente opera, proprio perché era troppo bella e troppo grande (il governo prussiano e il Consiglio federale ordinarono, nel 1826, la chiusura dell’Istituto tedesco di Wielhau, da lui fondato e diretto). L’idea froebeliana, però – come accade oggi per il metodo Montessori -, ha subìto minori deformazioni; forse perché si riferisce soprattutto ai bambini più piccoli, che interessano poco al capitalismo.
Misconosciuti sono stati anche tutti gli umili artigiani della Scuola tedesca del Lavoro. Se questi ritenevano opportuno che nella scuola vi fosse un giardino, un laboratorio – quasi un’officina -, una tipografia, intendevano servirsene per preparare i ragazzi alla nobiltà del lavoro – di ogni forma di lavoro, sia manuale che intellettuale -, più che per inculcare nei bambini, con questi strumenti le caratteristiche delle varie discipline e il loro impiego. A vigilare, però, c’erano i programmi, gli esami e la società intera, che costringevano ad occuparsi specificamente dell’apprendimento, la sola cosa necessaria all’ordine capita1ista. I fondatori della genuina Scuola del Lavoro dovettero stabilire un compromesso con le idee dei padroni. E fu necessario provare che il lavoro manuale nei campi e nelle officine facilita, anziché impedire, l’acquisizione delle nozioni; che l’alunno apprende di più realizzando nella pratica ciò che fino allora gli era stato spiegato a parole: in breve, che il lavoro, per come è introdotto in questa scuola, è un aiuto prezioso, la necessaria “illustrazione” di tante belle lezioni. Solo dopo avere fornito queste prove di civismo, la Scuola del Lavoro, penosamente mutilata poté fare il suo ingresso nelle scuole pubbliche tedesche.
Come si può vedere, se i grandi pedagoghi sono stati per lo più degli ardenti rivoluzionari, preoccupati soprattutto di far maturare il bambino in senso sociale e umano, senza dare troppo peso alle contingenze, non si può dire la stessa cosa di quelli che, schiavi del sistema, hanno manipolato le loro dottrine per metterle meschinamente al servizio dell’attuale ordine sociale. D’altra parte, se qualcuno di questi educatori prezzolati avesse avuto intenzione di applicare coscienziosamente le lezioni e l’esempio dei maestri, lo Stato avrebbe immediatamente trovato il modo per ricondurli al “senso della realtà”.
Ma non è soltanto con il suo “esercito di educatori” che lo Stato influisce sull’educazione permeandola, come abbiamo visto, di spirito capitalista. Ragioni più nascoste, ma non per questo meno determinanti, si alleano contro una scuola del lavoro libera e umana. Si tratta, da un canto, del disamore generale nei confronti del lavoro in una società in cui il lavoro non sempre garantisce la vita e, dall’altra, dell’avarizia del capitalismo verso tutto ciò che è semplicemente umano, e, ancora, di un fatto assai più grave che sta già cominciando a manifestarsi: il disordine del capitalismo che, nei paesi vinti, – Austria e Germania – uccide la scuola, nell’attesa di condurre anche noi verso la decadenza, a meno che i lavoratori non decidano finalmente di ristabilire l’ordine sociale.
La decadenza e la morte della scuola sono la conseguenza del mastodontico sviluppo del capitalismo: ed è per finire in questo vicolo cieco che per mezzo secolo la scuola “gratuita e obbligatoria” ha istruito i lavoratori. Di fronte al fallimento si può facilmente comprendere quanto sia pericolosa una istruzione che ostacoli il progresso umano; si può capire che non è più sufficiente sviluppare, migliorare, “riformare” l’insegnamento. Bisogna “trasformarlo” (4), come afferma Ad. Ferrière che non è certo un comunista, bisogna rivoluzionarlo.
La scuola attuale è figlia e serva del capitalismo. All’ordine deve necessariamente corrispondere un orientamento nuovo della scuola del proletariato.
(1) “Tutti i pedagoghi sono rivoluzionari – sostiene J. H. Fabre – e quasi tutti i rivoluzionari sono pedagoghi; i migliori sono quelli che hanno abbastanza forza per sfuggire al condizionamento sociale che troppo spesso imbriglia l’individuo… Uomini del genere, ahimé, non sono numerosi… Meriterebbero di essere maledetti da una Società che persevera nell’ingiustizia”. L. MATHON, Mes intretiens avec J.-H. Fabre sur l’Education (Le mie conversazioni), Delagrave, 1918.
(2) Rousseau, L’Emile, Libro III.
(3) Cfr. il saggio su Pestalozzi educatore del popolo, comparso su “Clairté”, n. 42.
(4) Ad. Ferrière, Transformons l’école (Trasformiamo la scuola), Bâle, Azed.
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