Claude Lévy-Strauss, Razza e storia

by gabriella

Race et HistoireL’introduzione di Ugo Fabietti a Razza e storia, elaborato da Claude Lévy-Strauss per la Conferenza generale Unesco contro i pregiudizi razziali. Seguono le prime pagine del testo [cioè i paragrafi Razza e cultura, Diversità delle culture, L’etnocentrismo, Culture arcaiche e culture primitive] con mie annotazioni, segnalate in verde.

Non inclusi i paragrafi L’idea di progresso, p. 113, Storia stazionaria e storia cumulativa, p. 117, Il posto della civiltà occidentale, p. 123, Caso e civiltà, p. 126, La collaborazione delle culture, p. 134, Il doppio senso del progresso, p. 140]. Claude Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino, Einaudi, 1967, pp. 99-144.

 

Un manifesto antirazzista

Razza e storia nasce a seguito di una iniziativa dell’Unesco, organizzazione sorta nel 1945 all’interno delle Nazione unite con l’obiettivo principale di promuovere la collaborazione fra le nazioni nell’ambito dell’educazione, della scienza e della cultura. Nel 1949 l’Unesco prepara una Conferenza generale basata su tre risoluzioni relative alla lotta contro i pregiudizi razziali: 1) «Ricercare e riunire i dati scientifici riguardanti i pro­blemi razziali»; 2) «Dare ampia diffusione ai dati scientifici così raccolti»; 3) «Predisporre una campagna di educazione fondata su tali dati». All’iniziativa dell’Unesco vengono invitati rappresentanti di discipline diverse: dalle scienze umane e sociali alla genetica alla biologia.

Razza e storia costituisce il contributo di Lévi- Straus alle riunioni convocate dall’Unesco. Il saggio, pubblicato per la prima volta nel 1952 in una collana promossa dalla organizzazione stessa, ha avuto poi varie edizioni e un’ampia circolazione. A distanza di anni rimane un manifesto antirazzista attuale, importante, inoltre, per lo spirito divulgativo con cui l’autore tocca aspetti cruciali della ricerca antropologica. Lévi-Strauss precisa nozioni come “civiltà”, “cultura”, “società”e considera in modo critico quelle di “differenza razziale“, “etnocentrismo”, “progresso”.

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Claude Lévy-Strauss (1908-2009)

Né la nozione di razza né quella di storia, presenti nel titolo dello stu­dio, rientrano propriamente nel campo dell’antropologia strutturale, ma rappresentano piuttosto i confini entro cui le ricerche di questa si muovono. La nozione di “razza” è puramente biologica e indica un insieme di individui che ap­partengono a una stessa specie e presentano una serie di caratteri che li accomunano e li contraddistinguono rispetto agli altri membri di quella specie, caratteri che si tra­smettono ai loro discendenti. Quando si tratta degli uomini, però, non c’è nessun criterio scientifico in base al quale distinguere rigorosamente delle razze: i vari tentativi di classificazione ne hanno in­dividuate da tre a sessanta. Il concetto di razza umana, dunque, non è rigorosamente scientifico, anche se lo si continua a utilizzare nel linguaggio comune, sulla base di una constatazione, cioè che fra gli uomini esistono molte differenze di aspetto.

In ogni caso, ammesso che di razze umane si possa parlare, queste sono oggetto di studio non dell’antropologia culturale ma dell’antropologia fisica, che si occupa dell’uomo dal punto di vista fisico-morfologico (genetica, evoluzione biologica e adattamento degli esseri umani all’ambiente). La nozione di storia cui allude il titolo è invece la storia congetturale dei filosofi, cioè l’idea di una storia universale all’interno della quale l’umanità seguirebbe un percorso lineare e univoco in direzione del progresso. Questa nozione, dunque, pertiene al cam­po della filosofìa.

Il discorso di Lévi-Strauss muove dall’idea astrat­ta di una civiltà mondiale, concetto che compare già nelle prime righe del saggio. Con esso si fa riferimento alla meta ideale della storia congetturale di cui parlavamo sopra: il conseguimento, da parte di tutte le società esistenti, di un medesimo e massimo grado di progresso, in cui tutte si troverebbero unite in un’unica civiltà. Si tratta in ogni caso, come afferma lo stesso autore, di un’idea alquanto schematica, priva di contenuti precisi, rispetto alla quale viene generalmente definito il supposto grado di avanzamento e progresso di ciascuna razza, società e cultura.

Eppure, proprio in apertura, Lévi-Strauss dichiara che «par­lare di contributo delle razze umane alla civiltà mondiale» è quanto di più lontano dai suoi intenti. In primo luogo, egli precisa, perché bisogna distinguere il concetto puramente biolo­gico di razza umana – ammesso che tale concetto possa ambire a una qualche validità scientifica – da quello di cultura. L’originalità delle produzioni culturali delle varie società, e quindi dei contributi che queste hanno dato al preteso progresso della civiltà mondiale, si spiega non con il fatto che le società siano formate da individui con caratteristiche fisiche e attitudini diverse, ma con il fatto che diverse sono le circostanze storiche, geografiche e sociologiche in cui le culture sono sorte e si sono sviluppate.

La varietà delle culture, afferma l’autore, è un fatto normale e inevitabile, proprio perché queste si affermano in luoghi e tempi diversi. Anzi, anche quando si tratta di culture vici­ne nel tempo e nello spazio che entrano in contatto e stabiliscono tra loro degli scambi, agiscono sempre delle forze che spingono ciascuna cultura a mantenere una propria identità che la differenzia dalle altre. Nonostante sia un fenomeno naturale, però, la diversità tra culture continua a essere considerata come una sorta di “scandalo” che si deve in qualche modo giustificare. L’at­teggiamento più frequente e radicato è quello noto come etnocentrismo che consiste nel ritenere la propria cultura come superiore e nello squalificare le altre come espres­sioni di un’umanità imperfetta, quella dei cosiddetti “barbari” o “selvaggi”.

Le dichiarazioni dei diritti dell’uomo e i sistemi filosofici e religiosi hanno tentato di con­trastare questo atteggiamento e di affermare l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma tali affermazioni di principio si scontrano con una diversità che si verifica di fatto tra gli individui e le società cui questi danno vita. Per rendere conto di tale diversità, allora, l’uomo mo­derno ha dato vita a quello che Lévi-Strauss definisce un falso evoluzionismo: le cultu­re che hanno preceduto nel tempo quelle più avanzate, e che sono rimaste arretrate dal punto di vista tecnologico, sono tutte considerate tappe precedenti di un unico percorso, che va in direzione del progresso ed è destinato a condurle tutte alla stessa meta finale. Per questa ragione, nota criticamente Lévi-Strauss, si continua a parlare di culture “primitive”: tutti gli uomini sono uguali e tutti arriveranno allo stesso grado di evoluzione, idealmente rappresentato dalla cosiddetta civiltà, ma per alcuni il cam­mino è ancora piuttosto lungo. In sostanza, l’atteggiamento dell’etnocentrismo non risulta ancora superato.

Se si vogliono considerare certe società come tappe precedenti nel processo che ha prodotto la nostra società, bisogna supporre che le prime non abbiano una storia alle spalle. Ogni società, invece, ha un passato che ha una durata che è pressappoco la stes­sa per tutte le società e che ha condotto ognuna al punto in cui si trova ora. Più realisticamente, scrive Lévi-Strauss, si può supporre che le varie società abbiano fatto un uso diver­so del loro tempo. Egli giunge così a distinguere due tipi di storia: una storia cumulativa, che è in grado di sintetizzare le invenzioni e le acquisizioni con­seguite in un certo campo per compiere un balzo evolutivo in avanti (come è successo alla nostra società occidentale nell’ambito tecnologico, quando varie innovazioni hanno concorso a produrre la rivoluzione industriale), e una storia stazionaria, che, pur realizzando delle conquiste, non riesce a metterle insieme e a sfruttarle per produrre questo salto. In proposito, però, si rendono necessa­rie delle precisazioni.

In primo luogo, scrive Lévi-Strauss, «il “progresso” […] non è né necessario né continuo; procede a salti, a balzi, o, come direbbero i biologi, per mutazio­ni». Noi tendiamo a ordinare in una successione temporale, che le ordina Luna dopo l’altra, nel senso di uno sviluppo, tappe che in realtà sono state contemporanee tra loro: Homo sapiens, per esempio, è stato contemporaneo o addirittura ha preceduto l’uomo di Neanderthal.

In secondo luogo, noi siamo in grado di riconoscere che c’è storia cumulativa, e dunque progresso, solo laddove le conquiste di una certa società e di una certa cultura vanno in un senso analogo a quello della nostra. Se una cultura coltiva valori diversi dai no­stri, noi siamo incapaci di attribuire a questi un significato, non sappiamo riconoscere il cammino evolutivo proprio di quella cultura. Per chi appartiene alla società occidentale, dunque, rappresentano un progresso soltanto quelle acquisizioni che comportano un avanzamento tecnologico, perché è questo il valore cardine di quella che noi chiamia­mo “civiltà”.

Se poi, per sostenere che l’Occidente si trova di fatto a un più alto grado di evoluzione, si obietta che la società occidentale si sta imponendo in tutto il mondo come modello di civiltà e che diverse aree del pianeta stanno seguendo il suo esempio industrializzan­dosi e tecnologizzandosi, Lévi-Strauss ribatte in due modi. Anzitutto, questo processo è avvenuto spesso in maniera forzata, attraverso la colonizzazione, e dunque a scapito delle popolazioni coinvolte. Inoltre, se diverse aree del pianeta stanno compiendo lo stesso “balzo”, significa soltanto che in queste società si sono create le condizioni per favorire tale salto evolutivo. Tra qualche millennio, probabilmente, non ci si porrà nemmeno la questione di quale società abbia compiuto per prima certi passi, ma si riconoscerà che tutte hanno dato il loro contributo al processo. Il percorso evolutivo che si è aperto con la rivoluzione indu­striale, del resto, è ancora agli inizi. Sarà necessario attendere a lungo per valutare quale sia la sua portata effettiva e se sia destinato a trionfare su altre linee evolutive.

 

Claude Lévy-Strauss, Razza e storia

[Una dichiarazione di intenti: se si mostrasse che i gruppi etnici hanno contribuito al progresso umano grazie a caratteristiche specifiche che li distinguerebbero, si restituirebbe dignità alla nozione di razza: non è intenzione di Lévy-Strauss incamminarsi su questa via]

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Joseph Arthur de Gobineau (1816-1876)

Parlare di contributo delle razze umane alla civiltà mondiale potrebbe sorprendere, in una collana di opuscoli destinati a lottare contro il pregiudizio razzista. Sarebbe vano aver dedicato tanto talento e tanti sforzi a mostrare che nulla, allo stato attuale della scienza, permette di affermare la superiorità o l’inferiorità intellettuale di una razza rispetto a un’altra, se fosse stato solo per restituire surrettiziamente consistenza alla nozione di razza, con l’aria di dimostrare che i gran­di gruppi etnici che compongono l’umanità abbiano recato, in quanto tali, contributi specifici al patrimonio comune.  Ma nulla ci è più estraneo di un simile intento, che equivarrebbe solo a formulare la dottrina razzista alla rovescia.

[Un errore intellettuale: (1) individuare le proprietà psicologiche delle razze è stato l’errore fondamentale di Gobineau – la creazione di una gerarchia di gruppi umani ne è stata una conseguenza; (2) spiegare le diversità culturali con le qualità psicologche delle “razze” è stato l’errore fondamentale dell’antropologia ottocentesca]

Quando cerchiamo di caratterizzare le razze biologiche in base a proprietà psicologiche particolari, ci scostiamo dalla verità scientifica sia se le definiamo in modo positivo sia se le definiamo in modo negativo. Non bisogna di­menticare che Gobineau, storicamente considerato il padre delle teorie razziste, non intendeva comunque l’“ineguaglianza delle razze umane” in senso quantitativo, ma qualitativo: per lui, le grandi razze primitive che formavano l’umanità ai suoi inizi – la bianca, la gialla, la nera — non erano tanto ineguali per valore assoluto, quanto diver­se nelle loro particolari attitudini.

La tara della degenerazione si collegava per lui al fenomeno del meticciato più che alla posizione di ogni razza in una scala di valori comune a tutte; essa dunque era de­stinata a colpire l’umanità intera, condannata, senza distinzione di razza, a un me­ticciato sempre più spinto. Ma il peccato originale dell’antropologia consiste nella confusione fra il concetto puramente biologico di razza (dato e non concesso, d’al­tronde, che, anche su questo terreno circoscritto, tale concetto possa ambire all’oggettività, cosa che la genetica moderna contesta) e le produzioni sociologiche e psi­cologiche delle culture umane. È bastato a Gobineau averlo commesso per trovar­si rinchiuso in un cerchio infernale che conduce da un errore intellettuale che non esclude la buona fede, alla involontaria legittimazione di tutti i tentativi di discrimi­nazione e di sfruttamento.

[La diversità culturale ha origine storica, non biologica, non esistono tratti psicologici propri dei bianchi o dei neri]

Cosi, quando parliamo, in questo stu­dio, di contributo delle razze umane alla civiltà, non vogliamo dire che gli apporti cul­turali dell’Asia o dell’Europa, dell’Africa o dell’America, traggano una qualsiasi origi­nalità dal fatto che tali continenti siano, grosso modo, popolati da abitanti di ceppi razziali diversi. Se tale originalità esiste – e la cosa non è dubbia – essa dipende da circostanze geogra­fiche, storiche e sociologiche, non da attitudini distinte connesse alla costituzione ana­tomica o fisiologica dei negri, dei gialli o dei bianchi. Ma ci è sembrato che, proprio nella misura in cui questa serie di opuscoli si è sforzata di legittimare questo punto di vista negativo, essa rischiava, in pari tempo, di relegare in secondo piano un aspetto altrettanto importante della vita dell’umanità: vale a dire che quest’ultima non si svi­luppa a un regime di uniforme monotonia, bensì attraverso modi straordinariamente diversificati di società e di civiltà; tale diversità intellettuale, estetica, sociologica non è unita da nessuna relazione causale a quella che, sul piano biologico, esiste fra taluni aspetti osservabili dei raggruppamenti umani: gli è solo parallela su un altro terreno.

[Diversità culturale e diversità biologica (colore della pelle, degli occhi, ecc.): (1) le differenze culturali sono molto più numerose dei gruppi etnici; (2) all’interno dello stesso gruppo etnico si osservano differenziazioni culturali]

Nello stesso tempo, però, se ne di­stingue per due caratteri importanti. Anzitutto si colloca in un altro ordine di grandez­za. Le culture umane sono molto più numerose delle razze umane, dal momento che le prime si contano a migliaia, e le seconde a unità: due culture elaborate da uomini appartenenti alla stessa razza possono differire quanto, o più, di due culture apparte­nenti a gruppi razzialmente lontani. In secondo luogo, al contrario della diversità fra le razze, che presenta come principale interesse quello della loro origine storica e della loro distribuzione nello spazio, la di­versità fra le culture pone numerosi problemi, perché ci si può chiedere se costituisca per l’umanità un vantaggio o un inconveniente, problema d’insieme che, beninteso, si suddivide in molti altri.

[Non si può attribuire significato intellettuale o morale al colore della pelle, non esistono attitudini razziali innate. Come si spiega allora il progresso dell’uomo bianco e la presunta arretratezza degli altri popoli?]

Infine e soprattutto dobbiamo chiederci in che consista tale diversità, a rischio di vedere i pregiudizi razzisti, appena sradicati dalla loro base biologica, riformarsi su un nuovo terreno. Sarebbe infatti vano avere ottenuto dall’uomo della strada che rinunci ad attribuire un significato intellet­tuale o morale al fatto di aver la pelle nera o bianca, i capelli lisci o crespi, se poi non si affronta un altro problema, che, come l’esperienza prova, egli si pone immediata­mente: se non esistono attitudini razziali innate, come spiegare che la civiltà prodotta dall’uomo bianco abbia compiuto gli immensi progressi che sappiamo, mentre quelle dei popoli di colore sono rimaste indietro, le une a metà strada, le altre in ritardo va­lutabile di migliaia o di decine di migliaia di anni? Non si può dunque pretendere di avere risolto con una risposta negativa il proble­ma della disuguaglianza delle razze umane, se non ci si pone anche quello della disu­guaglianza – o della diversità — delle culture umane che, di fatto se non di diritto, gli è strettamente collegato nella mentalità pubblica.

 

La diversità delle culture [da riassumere]

[Ogni cultura umana si è evoluta nel tempo, ogni popolo ha una storia, benché quella dei popoli privi di scrittura sia difficilmente conoscibile]

Per capire come, e in che misura, le cultu­re umane differiscano tra loro, se tali differenze si annullino o si contraddicano, o se concorrano a formare un insieme armonioso, bisogna anzitutto cercare di stabilirne l’inventario. Ma proprio qui cominciano le difficoltà, poiché dobbiamo tener presente che le culture umane non differiscono fra loro allo stesso modo, né sullo stesso piano. Ci troviamo anzitutto di fronte a società giustapposte nello spazio, le une vicine, le al­tre lontane, ma, tutto sommato, contemporanee. Inoltre dobbiamo fare i conti con forme della vita sociale che si sono succedute nel tempo e che siamo impossibilitati a conoscere per esperienza diretta. Ogni uomo può trasformarsi in etnografo e recarsi sul campo a condividere l’esistenza di una società che gli interessa; per contro, anche se diventa storico o archeologo, con una civiltà scomparsa non entrerà mai in contat­to direttamente, ma solo attraverso i documenti scritti o i monumenti figurati che di tale società – o di altre – sono arrivati sino a noi.

Infine non bisogna dimenticare che le società contemporanee rimaste ignoranti della scrittura, come quelle che chiamiamo “selvagge” o “primitive”, furono, anch’esse, pre­cedute da altre forme, la cui conoscenza è praticamente impossibile, persino in ma­niera indiretta; un inventario coscienzioso ha il dovere di riservar loro caselle bianche, probabilmente in numero infinitamente più elevato di quello delle caselle dove ci sen­tiamo in grado di scrivere qualcosa.

Una prima constatazione si impone: la diversità delle culture umane è, di fatto nel pre­sente, di fatto e anche di diritto nel passato, molto più grande e più ricca di quanto siamo destinati a conoscerne prima o poi.

[In quale direzione evolvono le culture? Sia verso l’accentuazione che l’attenuazione delle differenze]

Ma, anche pervasi da un sentimento di umiltà e convinti di tale limitazione, incontriamo altri problemi. Che cosa bisogna intendere per culture diverse? Certune hanno tutta l’aria di esserlo, ma, siccome emer­gono da un tronco comune, non differiscono alla stessa stregua di due società che non abbiano avuto rapporti fra loro in nessuna fase del loro sviluppo. Così l’antico impero degli Incas in Perù e quello del Dahomey in Africa differiscono tra loro in modo più assoluto che, per esempio, l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’oggi, sebbene queste due so­cietà debbano anch’esse venir considerate come società distinte.

Viceversa, società entrate recentemente in strettissimo contatto sembrano offrire l’im­magine della stessa civiltà mentre vi sono accedute per vie diverse, che non abbiamo il diritto di trascurare. Nelle società umane agiscono simultaneamente forze orientate in direzioni opposte: le une tendenti al mantenimento e persino all’accentuazione dei particolarismi; le altre agenti nel senso della convergenza e dell’affinità. Lo studio del linguaggio offre straordinari esempi di tali fenomeni: così, mentre lingue della stessa origine tendono a differenziarsi a vicenda (ad esempio: il russo, il francese e l’inglese), lingue di origine diversa, ma parlate in territori contigui, sviluppano carat­teri comuni: per esempio, il russo si è, per taluni aspetti, differenziato da altre lingue slave per avvicinarsi, almeno in certe caratteristiche fonetiche, alle lingue ugro-finni­che e turche parlate nelle sue immediate adiacenze geografiche.

[La differenza culturale è feconda, una proliferazione eccessiva di differenze mina la coesione o produce per reazione il controllo di una parte sul tutto]

Quando studiamo fatti del genere – e altri campi della civiltà, come le istituzioni sociali, l’arte, la religione, ne fornirebbero facilmente di si­mili — finiamo per chiederci se le società umane non si definiscano, tenuto conto dei loro mutui rapporti, per un certo optimum di diversità al di là del quale non potrebbe­ro spingersi, ma al di qua del quale ‘non possono rimanere senza pericolo. Questo op­timum varierebbe in funzione del numero delle società, della loro importanza nume­rica, della loro lontananza geografica e dei mezzi di comunicazione (materiali e intel­lettuali) di cui dispongono.

In effetti, il problema della diversità non si pone solo a proposito delle culture consi­derate nei loro rapporti reciproci; esiste anche in seno a ogni società, in tutti i gruppi che la costituiscono: caste, classi, ambienti professionali o confessionali ecc. sviluppa­no certe differenze alle quali ognuno di essi attribuisce estrema importanza. Ci si può chiedere se tale diversificazione interna non tenda ad aumentare quando la società di­venta, su altri piani, più voluminosa e più omogenea; fu il caso, forse, dell’antica India, con il suo sistema di caste che fioriva in seguito allo stabilirsi della egemonia ariana.

[Le culture non sono mai isolate: anche quando lo sembrano si articolano e si differenziano al loro interno e stabiliscono reciproche relazioni]

È chiaro quindi che il concetto di diversità del­le culture umane non va inteso in maniera statica. Tale diversità non è quella di un campionario inerte oppure di un catalogo sezionato. Certo gli uomini hanno elabo­rato culture differenti in ragione della lontananza geografica, delle proprietà parti­colari dell’ambiente, e della loro ignoranza nei confronti del resto dell’umanità; ma ciò sarebbe rigorosamente vero solo se ogni cultura e ogni società fosse nata e si fosse sviluppata nell’isolamento da tutte le altre. Orbene, non è mai cosi, tranne forse in ca­si eccezionali come quello dei Tasmaniani (e anche qui, solo per un periodo limitato). Le società umane non sono mai sole; quando sembrano separatissime, è solo perché danno luogo a una forma di gruppi o di “pacchetti”. Per esempio, non è esagerato sup­porre che le culture nordamericane e sudamericane siano state tagliate fuori da quasi ogni contatto con il resto del mondo per un periodo la cui durata oscilla tra i dieci­mila e i venticinquemila anni. Ma questo grosso frammento di umanità distaccata era costituito da una moltitudine di società, grandi e piccole, che avevano fra loro contatti strettissimi. E, oltre alle differenze dovute all’isolamento, ci sono quelle, altrettanto im­portanti, dovute alla prossimità: desiderio di opporsi, di distinguersi, di essere se stessi. Molte usanze sono nate non da una necessità interna o da una contingenza favorevole, ma solo dalla volontà di non rimanere indietro rispetto a un gruppo vicino che sotto­poneva a regole precise un campo in cui non ci si sarebbe mai sognati, da soli, di pro­clamare regola alcuna. Di conseguenza, la diversità delle culture umane non deve in­vitarci a un’osservazione spezzettante o spezzettata. Essa è funzione non tanto dell’iso­lamento dei gruppi quanto delle relazioni che li uniscono.

 

L’etnocentrismo

Un atteggiamento psicologico errato [L’etnocentrismo è la repulsione immediata verso ciò che è più distante da noi]

Eppure, sembra che la diversità delle cul­ture sia raramente apparsa agli uomini per quello che è: un fenomeno naturale, risul­tante dai rapporti diretti o indiretti fra le società; si è visto piuttosto in esse una sorta di mostruosità o di scandalo; in tali materie, il progresso della conoscenza non è con­sistito tanto nel dissipare questa illusione a beneficio di una visione più esatta, quanto nell’accettarla o nel trovare il modo di rassegnarvisi. L’atteggiamento più antico, che probabilmente poggia su fondamenti psicologici so­lidi, poiché tende a riapparire in ognuno di noi quando siamo posti in una situazione inattesa, consiste nel ripudiare puramente e semplicemente le forme culturali – morali, religiose, sociali, estetiche – che sono più lontane da quelle con cui ci identifichiamo. «Abitudini di selvaggi», «da noi non si fa così», «non si dovrebbe permettere questo» ecc. sono altrettante reazioni grossolane che esprimono lo stesso fremito, la stessa re­pulsione, di fronte a modi di vivere, di pensare o di credere che ci sono estranei.

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