Claudio Magris, La speranza che ci rende umani

by gabriella

Tratto da Corriere.it.

La speranza — Elpìs — non gode buona stampa presso gli antichi greci e, in generale, nella cultura classica. È rimasta, secondo il mito, in fondo al vaso di Pandora, che lo scoperchia permettendo così ai mali che esso racchiudeva di riversarsi nel mondo. Pure in questa versione è una donna a introdurre il male; gli antichi greci non sono meno misogini degli antichi ebrei.

La speranza, Elpìs, rimane in fondo al vaso, modesta riserva in una cassetta di sicurezza nel caso di qualche guaio, ma inadeguata a fronteggiarlo quando esso arriva. È là in fondo, una rana che magari tenta invano di saltar fuori.

Come ricorda Giuseppe Visonà in un eccellente libro sulla speranza nei greci e nei Padri della Chiesa, l’uomo, per i greci, vive secondo la sua Moira, il suo destino e la sua misura già segnati; è sottoposto a Týche, il Fato; ad Anánke, la Necessità; e se cerca di ribellarsi commette quello che per i greci è il peccato più grave, la Hýbris, la dismisura.

Jan_Cossiers, Prometheus

La colpa di Prometeo, per Eschilo, è aver posto nel cuore degli uomini «le cieche speranze»; ameni inganni, illusioni, dirà tanti secoli più tardi Leopardi, il quale peraltro ha anche detto:

«Vivo, dunque spero».

Carezzevoli sogni, scrive Sofocle; illusioni vane, per Pindaro; «fatue» speranze per Solone.

Questo pessimismo non è solo greco ma caratterizza in generale la cultura classica e il suo ideale di fermezza e saggezza:

«Vivere senza speranza e senza paura», dice Seneca;

«lascia perdere le vuote speranze e occupati di te stesso», incalza Marco Aurelio.

L’unica accezione relativamente positiva di speranza è, come per Tucidide, quella di «previsione razionalmente fondata».

È Euripide, il più illuminista dei grandi tragici, a esortare in un frammento a vivere e a nutrirsi di speranza.

Sarà il cristianesimo, nota Giuseppe Visonà, a «togliere del tutto a Elpìs i caratteri di ambivalenza e incertezza».

L’Elpìs dei cristiani è sempre positiva e certa. Più tardi, è una nuova cultura greco-ebraico-cristiana — da Filone Alessandrino ai Padri della Chiesa — a formulare un diverso significato della speranza, qawah, dice il termine ebraico.

Ma l’irrimediabile pessimismo greco relativo alla speranza è presente nei secoli, sino ad uno dei più grandi poeti — filosofi contemporanei nutriti di pensiero greco, Carlo Michelstaedter.

Michelstaedter ha celebrato la persuasione ossia il possesso presente della propria vita che invece troppo spesso gli uomini, incalzati dalla rettorica, sacrificano e bruciano nell’attesa di qualcosa che deve sempre venire e che non è mai.

Si spera che la settimana prossima arrivi il più presto possibile, perché conosceremo il risultato delle analisi cliniche oppure delle elezioni politiche o qualcos’altro che aspettiamo con ansia e così non si vive per vivere ma per aver già vissuto ossia per essere un po’ più vicini alla morte.

Persuasi, capaci di vivere il presente, sono i bambini; quando corrono, non corrono per raggiungere qualche meta ossia per averla già raggiunta, per essere già arrivati, per aver smesso di correre, ma semplicemente e soltanto perché amano correre.

Nel suo capolavoro Michelstaedter cita una canzone popolare veneta contro la speranza:

«Se spera che i sassi/ deventa paneti,
perché i povareti
li possa magnar.
Se spera che l’acqua
diventi sciampagna,
perché no i se lagna
de sto giubilar.
Se spera sperando
che vegnerà l’ora
de andar in malora
per più no sperar».

La Speranza non ha a che vedere con questo piccolo futuro che nemmeno esiste perché si brucia di continuo ed è non certo il futuro pervaso di Speranza bensì il futuro logorato dalla fretta e dall’ansia.

È con l’ebraismo che la Speranza assume un valore centrale. Abramo è padre della fede e di lui San Paolo dirà:

«Ebbe fede sperando contro ogni speranza».

La Speranza non è un’ancella importante ma pur sempre minore della fede; è di pari rilievo e più tardi diventerà, con Péguy, la più importante delle tre virtù teologali.

E nasce in questo momento la drammaticità, anche la tragicità implicite nella Speranza, nelle sue inevitabili ma appunto perciò ancor più sacre anche se dolorose contraddizioni. La Speranza è una grande protagonista dei salmi, in cui ricorre di continuo, la Speranza è storia della salvezza.

Il vocabolario della Speranza nell’Antico Testamento include una vasta gamma di radici verbali che riguardano vari ambiti della Speranza; soprattutto l’attesa nelle sue varie sfumature; la tensione verso qualcosa e la fiducia. La Speranza, per l’uomo biblico, non si rivolge a qualcosa di incerto bensì a qualcosa che semplicemente non è ancora qui; non una mera ipotesi, una possibilità che potrebbe anche non realizzarsi mai, bensì una realtà che non è ancora in atto ma è in cammino.

Mosé conduce il suo popolo verso la Terra Promessa, sperando fortemente in essa pur sapendo che lui non vi porrà mai il piede; una speranza che è una certezza, ma non nel senso in cui si usa questo termine in un linguaggio meramente fattuale.

La Speranza diventa così una caratteristica, quasi una definizione dell’umano:

«L’uomo per eccellenza è colui che spera», scrive Filone Alessandrino.

La Speranza consiste nella convinzione che il «non ancora» è pure il già, perché questa pienezza verso cui ci si avvia è già presente nell’atto di avviarsi verso di essa.

Secoli più tardi, in uno dei più grandi romanzi della letteratura universale, La morte di Virgilio di Hermann Broch, questo «noch nicht und doch schon», non ancora eppure già, diventa l’essenza, la struttura, la tonalità di tutto il grande romanzo di salvezza e redenzione, il leitmotiv della sua struttura, del suo significato e della sua poesia. Non a caso, già per i primi Padri della Chiesa, ad esempio Giovanni Crisostomo e Agostino, a perdere l’uomo non è il peccato ma la disperazione del perdono, come ripete pure oggi il catechismo. La mancanza di Speranza ha un suo significato apocalittico più terribile della mancanza di fede.

La Speranza è attesa, attesa di ciò che non si fa ancora vedere e che allevia l’animo proprio in quanto si attende qualcosa che verrà. La Speranza ha un determinante potere salvifico non solo nella meta che essa propone ma soprattutto nel cammino per raggiungerla.

La Speranza è un cammino che fa sete, molta sete, ma è proprio questa sete che dà forza per continuare il cammino. E il salmo che parla di questa sete dell’anima (salmo 63 e 62) dice:

«Ha avuto sete di te (cioè di Dio) anche la mia carne».

La Speranza finisce per permeare tutta la persona, non solo le sue idee o i suoi valori morali ma tutta la sua complessità di desideri, nostalgie, paure, debolezze e soprattutto affetti e amori.

E proprio questo aiuta la Speranza a procedere nel suo cammino. Nella Speranza l’uomo si trasforma profondamente pur restando fedele a se stesso, come si era trasformato restando fedele a se stesso divenendo da bambino un giovane o da un giovane un vecchio. Queste continue morti del suo vecchio io danno forza, freschezza e giovinezza al suo stesso io. La Speranza è la vita. Agostino ha una frase formidabile, che sarà ripresa anche nella laicizzazione storica e rivoluzionaria della Speranza stessa: «Non siamo cristiani se non per il secolo venturo».

Questo potente lievito religioso confluirà, secoli e secoli dopo, nel pensiero rivoluzionario del Diciannovesimo e Ventesimo secolo, quando la Speranza biblica, il tenace cammino verso la Terra Promessa assumerà una profonda valenza di rinnovamento politico, cambiamento dell’assetto del mondo e dell’uomo nel suo rapporto con esso. Come dice ancora una volta Sant’Agostino, si tratta di sentirsi esuli in patria — ogni rivoluzionario è un esule in una patria che ama ma in cui non può riconoscersi e che quindi non è la sua —, «chi è esule, dice Sant’Agostino, e cammina nella fede non è ancora nella sua patria ma vi è già incamminato; chi invece non crede, non è né in patria né in cammino verso di essa».

Il passaggio dai Padri della Chiesa al Principio Speranza di Bloch è quasi diretto. Continuare a sperare fino a notte, prosegue Sant’Agostino, «cioè finché non abbia termine la tua vita, finché non giunga la notte di tutto il genere umano…». La Speranza che spinge a continuare il cammino conduce alla piena scoperta del mondo, e a quello stupore — davanti al cielo, all’immensità degli oceani, al numero delle stelle, alle svariate specie di animali — che è lo stupore della Poesia e la Speranza, essendo liberazione, è anche Poesia. Certo, la terra lungo la quale avanza la Speranza è una terra di morenti ma quel cammino dà senso anche alla morte.

Il Novecento è stato il secolo della Speranza con la maiuscola. La Speranza, virtù teologale dominante nel Novecento che ha conosciuto ben poco la Carità, ha un respiro e una portata universale, riguarda il destino dell’uomo, di tutti gli uomini, il senso e l’orizzonte della Storia.

Immanuel Kant

Was kann ich hoffen? Cosa posso sperare, si chiedeva già Kant nella Critica della ragion pura. La Speranza non nasce da desideri personali e tantomeno da una visione del mondo rassicurante e ottimista, bensì dalla lacerazione dell’esistenza umana, che crea un’insopprimibile necessità di riscatto, una «fame» — scrive Ernst Bloch nel suo libro Il Principio Speranza — di giustizia, di libertà, di dignità, anche di felicità.

Questa Speranza — in nome della quale tanti uomini moriranno e tanti uomini uccideranno — è lo spirito messianico dei profeti, l’attesa e la preparazione dell’avvento del Messia, quella Terra Promessa verso la quale Mosé non si è stancato di guidare il suo popolo pur sapendo che egli stesso non vi avrebbe mai messo piede.

Karl Marx ( 1818 – 1883)

Questo spirito religioso ebraico, questo guardare al futuro — che in qualche modo è già in atto nella traversata del deserto per raggiungerlo — assume una forma universalmente politica — pervasa di messianesimo — nel «sogno di una cosa» di cui parlava Marx, il sogno dell’umanità che rivendica la pienezza, la libertà, la vita vera o semplicemente la vita tout court, perché quella degli schiavi, degli oppressi, dei miserabili non è vita.

Questa cosa sognata non si trova nel passato, in un Eden originario da cui l’umanità è stata scacciata, ma nel futuro, nel «non ancora».

Come ci hanno insegnato a scuola, sperare è per definizione un verbo che vuole il futuro. E questo «non ancora», dice Virgilio morente nel grande romanzo di Broch, contiene l’«eppure già», perché il cammino verso la Terra Promessa è già Terra Promessa.

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