Nel brano seguente, tratto da Dal punto di vista dei nativi [in Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, pp. 76-79], Clifford Geerz illustra il punto di vista giavanese sull’identità e la formazione di sé (o del carattere) in relazione all’espressione dei sentimenti e ai comportamenti tenuti in pubblico.
L’antropologo fa risaltare, in questo modo, il significato profondo della compostezza e dell’essere alus, divenire capaci di «appiattire le vallate e le colline delle proprie emozioni».
A Giava, dove ho lavorato negli anni Cinquanta, ho studiato un piccolo e grigio posto di provincia; due strade assolate formate da negozi di legno bianco e da uffici, e dei tuguri ancora più fragili di bambù tirati su in fretta e furia dietro di essi, il tutto circondato da un grande semicerchio di villaggi densamente popolati e dalla forma di tazze di riso.
Vi era scarsità di terra, di lavoro, la situazione politica era instabile, la salute scarsa, i prezzi in aumento, e la vita non era certo promettente, una sorta di stagnazione agitata in cui, come ho detto una volta, pensando alla curiosa mistura di frammenti di modernità presi a prestito e di relitti di tradizione ormai logori che caratterizzavano il luogo, il futuro sembrava altrettanto lontano del passato.
Tuttavia nel mezzo di questa scena deprimente vi era una vitalità intellettuale assolutamente sorprendente, una passione filosofica, oltre che popolare, a interrogarsi sulle questioni dell’esistenza.
Poveri contadini discutevano i problemi connessi al libero arbitrio (concezione della libertà individuale che ritiene possibili scelte autonome senza costrizioni esterne, NDR), commercianti analfabeti discutevano delle proprietà divine, lavoratori comuni avevano teorie sui rapporti tra ragione e passione, la natura del tempo, o l’affidabilità dei sensi. E, forse ancora più importante, il problema del Sé – la sua natura, funzione e modo di operare – era analizzato con quel tipo di intensità riflessiva che tra noi occidentali si può trovare solo negli ambienti più ricercati.
Le idee centrali nei termini in cui procedeva la riflessione, e che quindi definivano i suoi confini e il senso giavanese di che cos’è una persona, si collocavano in due coppie di contrasti, fondamentalmente religiosi, uno tra “interiore” e “esteriore” e l’altro tra “raffinato” e “volgare”.
Queste glosse sono ovviamente rozze e imprecise; determinare in modo esatto che cosa questi termini significavano, far emergere le ombre dei loro significati, era tutto ciò che si proponeva la discussione. Ma insieme esse formavano una concezione particolare del Sé che, tutt’altro che essere puramente teorica, era quella nei cui termini i Giavanesi percepivano se stessi e gli altri.
Le parole interiore/esteriore, batin e lair (termini presi a prestito dalla tradizione sufi del misticismo musulmano, ma localmente rielaborati) si riferiscono da un lato all’ambito vissuto dell’esperienza umana e dall’altro lato all’ambito osservato del comportamento umano.
Esse non hanno – uno deve affrettarsi a chiarirlo – niente a che vedere con “anima” e “corpo” nel nostro senso, per i quali vi sono infatti altre parole con implicazioni del tutto diverse. Batin, il mondo “interiore”, non si riferisce a un ambito di spiritualità incapsulata, separata o separabile dal corpo, né a un’entità unita addirittura, ma alla vita emotiva degli esseri umani in generale. […]
Similmente lair, il mondo “esteriore”, non ha nulla a che fare con il corpo come oggetto, seppure oggetto sperimentato. Piuttosto si riferisce a quella parte della vita umana che, nella nostra cultura, viene studiata dai comportamenti puri – azioni esterne, movimenti, posture, linguaggio parlato – e viene concepita come invariabile nella sua essenza da individuo a individuo. Questi due insiemi di fenomeni – sentimenti interiori e azioni esteriori – vengono quindi considerati non come funzioni interdipendenti ma come ambiti indipendenti dell’essere che vanno appropriatamente ordinati in modo indipendente.
E’ in connessione con questo “ordine appropriato” che il contrasto tra alus, parola che significa “puro”, “educato”, “pulito”, “raffinato”, “etereo”, “sottile”, “di buone maniere”, “controllato” e kasar, parola che significa “maleducato”, “rozzo”, “volgare”, “insensibile”, “di cattive maniere”, viene a giocare un ruolo importante. L’obiettivo è quello di essere alus in entrambi gli ambiti separati del Sé.
Nell’ambito interiore ciò è perseguibile attraverso la disciplina religiosa in gran parte ma non del tutto mistica. Nell’ambito esterno, ciò è perseguibile attraverso l’etichetta, le regole che qui sono non solo straordinariamente elaborate ma hanno anche quasi la forza della legge.
Attraverso la meditazione l’uomo educato raffina la propria vita emotiva fino a una sorta di tono di sottofondo; per mezzo dell’etichetta egli sia protegge questa vita dagli elementi distruttivi esterni, sia regolarizza il suo comportamento esterno in modo tale da farlo apparire agli altri come prevedibile, non disturbante, elegante, un insieme di movimenti stereotipati e di forme verbali stabilite.
[…] per quanto riguarda il nostro problema, il risultato è una concezione del Sé bipolare, metà sentimenti non manifestati, e metà comportamenti manierati e non sentiti. Un mondo interiore di emozioni concentrate e un mondo esteriore di comportamenti formalizzati si confrontano l’un l’altro come due mondi decisamente distinti, essendo ogni singolo individuo soltanto il locus temporaneo, per così dire, di questo confronto, un’espressione temporanea della loro esistenza permanente, della loro separazione permanente e del loro bisogno permanente di essere mantenuti nel proprio ordine.
Solo quando si vede, come ho visto io, un uomo giovane la cui moglie – una donna che lui aveva cresciuto dall’infanzia e che aveva costituito il centro della sua vita – era improvvisamente morta, salutare tutti con un sorriso di circostanza e con scuse formali per l’assenza della moglie, e cercare, per mezzo di tecniche mistiche, di appiattire, come lui stesso si espresse, le colline e le vallate delle sue emozioni in un piano (questo è ciò che bisogna fare – mi disse – essere calmo al tuo interno) si può comprendere, alla faccia delle nostre nozioni di onestà interiore e profondità dei sentimenti e dell’importanza morale della sincerità personale, la possibilità di una concezione come questa del Sé e apprezzarla seriamente, sebbene il suo tipo di forza sia a noi inaccessibile.
Esercitazione
3. Quali sono i caratteri del Sé che un uomo appartenente a questa cultura vuole realizzare?
4. In cosa consiste l’eccellenza umana che i giavanesi cercano di realizzare?
5. In cosa diverge profondamente dalla nostra?
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