Quello che segue è – nelle intenzioni se non nel risultato – un corsivo, sulla fondazione del diritto di proprietà in John Locke. Si tratta quindi di un testo un po’ strafottente o per lo meno non reverente verso il grande filosofo.
Naturalizzare il diritto di proprietà agganciandolo alla legge di natura (o lex divina) è stata una delle operazioni più brillanti del Locke filosofo politico, anche se altre sue magistrali elaborazioni come quella sul concetto di tolleranza (non estendibile agli intolleranti, cioè ai cattolici) e sul funzionamento dell’istituzione parlamentare godono da sempre di una attenzione maggiore.
Visto che vogliamo discutere di come una costruzione culturale viene fatta passare per legge eterna e inamovibile, potremmo ricordare le osservazioni di Foucault, Barthes e dei francofortesi, laddove viene chiarito che ciò che tra i filosofi passa per il “senso comune,” non è che la sedimentazione di un pensiero attivo, per sua natura sempre critico, che viene fatto decantare perdendo la caratteristica di negazione e trasferendo la nuova positività (e normatività) in un ambito che Barthes definiva “mitico” cioè immediato, evidente, naturale.
Da semiologo e primo grande studioso di pubblicità, Barthes insegnava a guardare oltre i segni per intravedere i legami nascosti che la loro presentazione imponeva allo sguardo comune senza renderli percepibili: è il caso della famosa pasta Panzani (siamo solo negli anni ’60) che accostata al pomodoro appena colto faceva pensare alle bionde messi, e contemporaneamente dimenticare la manipolazione, cioè il processo (ovvero l’operazione culturale, oltre che industriale) della sua messa in circolazione.
Venendo a Locke, la naturalizzazione del diritto di proprietà si capisce bene dopo aver dato un’occhiata agli ingredienti con cui ce la cucina:
1. Armamentario della metafisica medievale per le prove dell’esistenza di Dio;
2. gnoseologia razionalista;
3. sensismo gassendiano neoepicureo ed infine, fondamentale ….
4. .. chiara consapevolezza della debolezza di un diritto di proprietà convenzionalistico sia di Hobbes sia di Grozio e volontà lucidissima di fondare il suo (di diritto di proprietà) su misura per gli interessi della nuova borghesia whigs.
In altre parole, Locke non poteva accettare né un diritto di proprietà come diritto del più forte ad accaparrarsi i beni di sussistenza e tenerseli con la forza come voleva lo stato autoritario di Hobbes (lo stato autoritario non favoriva il libero commercio dei suoi amici), né un diritto di proprietà convenzionalistico basato sul presupposto che in un tempo mitico spesso chiamato in causa ai suoi tempi, cioè lo stato di natura, gli uomini avessero unanimemente convenuto sull’introduzione del denaro e la spartizione dei beni, prima di allora comuni. Non poteva accettare quest’ultima teoria perché si rendeva conto perfettamente che fondare il diritto di proprietà sulla convenzione, cioè sul consenso unanime avrebbe esposto in eterno la proprietà stessa alla possibilità che tale consenso potesse essere, in qualche forma giudicata legittima, revocato.
Qui il colpo di genio: il diritto di proprietà si fonda sul lavoro e il lavoro non è altro che la modalità con la quale un Dio previdente ha disposto che l’uomo si appropri dei doni da Lui fatti agli uomini in comune.
Perciò ne segue che:
1. il lavoro è la modalità scelta da Dio per distribuire i suoi doni (dall’antica maledizione “ti procurerai il pane con il sudore della fronte) poiché l’istinto di sopravvivenza che lui ha instillato nell’uomo provvede a che si lavori per vivere;
2. il lavoro è il fondamento della ricchezza;
3. nello stato di natura le leggi giuste di Dio impongono al fratello di non appropriarsi che di ciò che serve alla sussistenza propria e dei familiari.
Come garantire allora quell’accumulazione che era indispensabile alle prime fiorenti manifatture che nascevano proprio allora? Semplice, aggirando la legge giusta di Dio (non puoi prendere se non ciò che ti serve, perché tanto il resto deperisce) individuando due stadi dello stato di natura, il primo in cui compare un uomo irenico tutto intento a lasciare al fratello “beni sufficienti e altrettanto buoni” di quello appropriato e lasciare il resto (tanto deperirebbe), il secondo in cui viene introdotto il denaro (la convenzione) per cui la parte deperibile appropriata in eccesso sui propri bisogni può essere capitalizzata e trasformata in denaro.
Il tutto tiene perché Locke riesce a dimostrare che entrambi gli stadi appartengono allo stato di natura e perciò sono conformi alla volontà divina; la proprietà trae origine da Dio ma non come eredità improduttiva: te la devi guadagnare (sennò avrebbe fatto il gioco dei tories), ma alla domanda sul perchè il salariato non riesca ad accumulare e tradurre in proprietà il proprio lavoro, il professore di allora mi rispose che queste domande se le era già poste Rosa Luxembourg.
Ciò che è straordinario in Locke è vedere come il pensiero dell’interprete di una classe emergente, vale a dire un pensiero eminentemente parziale, riesca a diventare condiviso ed accettato, diventando addirittura ovvio e naturale. E’ l’egemonia baby.
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