Antropologia economica e antropologia politica
Le questioni di cui si occupa l’antropologia economica – che studia come le risorse materiali sono prodotte, distribuite e utilizzate – e quelle di cui si interessa l’antropologia politica – che indaga quali autorità, poteri e relazioni di uguaglianza o diseguaglianza costituiscano la vita sociale – sono, nei fatti, strettamente connesse: la disponibilità di risorse e il loro controllo è infatti inseparabile dall’esercizio del potere.
C’è quindi una stretta relazione tra risorse e potere, perché l’acquisizione e la disponibilità di una risorsa possono incrementare la possibilità che un individuo o un gruppo hanno di imporsi su altri individui o su altri gruppi. Tale relazione è tuttavia diversa a seconda delle circostanze e delle forme d’adattamento delle società. Come si è visto, ci sono differenze notevoli tra l’economia di un gruppo di cacciatori-raccoglitori e quella di una comunità di agricoltori. Si tratta di differenze che non consistono solo nel diverso modo di procacciarsi il cibo e di ridistribuirlo, ma che interessano anche le relazioni tra i componenti delle rispettive società.
Economia e politica
Nel mondo occidentale economia e politica appaiono “distinte” grazie all’esistenza di una forte divisione del lavoro e del sistema di mercato, da un lato, e delle istituzioni politiche, dall’altro. Così, anche se sappiamo che nemmeno nell’Occidente moderno le due sfere sono separate, la distinzione tra economia e politica sembra plausibile [la natura ideologica di questa separazione è evidente anche considerando la recente ridefinizione degli studi universitari di economia politica in studi di economia simplicter].
In conseguenza di questa pretesa separazione, i popoli non occidentali sono apparsi a lungo come privi sia di una vera e propria economia sia di una vera e propria organizzazione politica. Infatti, presso questi popoli sono assenti sia un’istituzione come quella del mercato con i suoi supporti e le sue regole (moneta, Borsa, banche, legge della domanda e dell’offerta ecc.) sia istituzioni politiche riconoscibili come tali (monarchia, repubblica, parlamenti, governi, partiti, elezioni ecc.).
1. Le forme di scambio nelle economie arcaiche
Con gli sviluppi dell’etnografia divenne tuttavia chiaro che anche gli altri popoli avevano vari modi, talvolta anche piuttosto complessi e sofisticati (sebbene molto diversi da quelli noti agli occidentali) di produrre risorse, di farle circolare, nonché di fissare i criteri di accesso ad esse, cioè di controllarne l’utilizzazione da parte di certi individui o di determinati gruppi piuttosto che di altri. Così come parve chiaro che c’era chi aveva autorità e chi non l’aveva, chi deteneva il potere e chi doveva obbedire.
La discussione sul modo in cui le forme di scambio e la distribuzione sociale delle risorse erano organizzate in quelle che un tempo erano chiamate le società “primitive”, ebbe inizio negli anni a cavallo della Prima guerra mondiale. Furono soprattutto le ricerche sul campo di Bronislaw Malinowski nell’arcipelago delle Trobriand (Melanesia) e le riflessioni di Marcel Mauss sul dono a costituire la base per gli studi antropologici sulle economie “arcaiche”.
1.2 Malinowski e gli studi sui trobriandesi
Presso le isole Trobriand, Malinowski ebbe modo di studiare una particolare forma di scambio detto kula. Egli lo definì uno scambio di tipo “rituale”, in quanto privo di una funzione economica immediata. Gli abitanti delle isole Trobriand e degli arcipelaghi vicini, presso cui Malinowski soggiornò tra il 1916 e il 1918, compivano periodicamente difficili e pericolose traversate per incontrarsi con gruppi con i quali mantenevano una “relazione di scambio”. Per comprendere il valore di questa relazione, è bene ricordare che il termine kula deriva da un verbo che, nella lingua locale, significa sia “formare nell’immagine di un altro”, sia “essere formato secondo l’immagine dell’altro”, ovvero operare un riconoscimento reciproco, come si addice a uno scambio tra pari.
Malinowski notò che nelle isole Trobriand circolavano due tipi di oggetti: collane di corallo rosso (soulava) e braccialetti di conchiglie bianche (mwali). Collane e braccialetti, entrambi decorati, non erano dei “gioielli” o dei “monili”. Le collane, infatti, potevano essere lunghe anche qualche metro, mentre i bracciali erano pesantissimi, quindi impossibili da indossare.
Caratteristica di questa forma di scambio era che tra queste isole, disposte in cerchio, le collane circolavano – e così avviene ancora oggi — in senso orario e i braccialetti in senso inverso. Gli oggetti appartenenti a una categoria potevano essere scambiati solo con oggetti appartenenti all’altra categoria: mwali in cambio di soulava, soulava in cambio di mwali. Soulava o mwtali non potevano essere scambiati con noci di cocco, maiali, asce o qualunque altro bene materiale. Collane e bracciali, da un lato, e beni d’uso, dall’altro, appartenevano quindi a due distinte sfere di scambio.
Collane e bracciali restavano nelle mani di chi li riceveva o dei suoi eredi anche per molti anni, ma alla fine venivano sempre nuovamente scambiati. Durante le visite, gli scambi “rituali” erano seguiti da scambi “profani” (gimwali), durante i quali i gruppi trattavano la cessione di oggetti d’uso corrente: strumenti, armi, reti da pesca, alimenti ecc. Lo scambio kula, che doveva seguire un’etichetta rituale ben precisa, “apriva” insomma lo scambio profano. Lo scambio rituale aveva lo scopo di ribadire la relazione di collaborazione e amicizia tra partner economici abituali, rinsaldando i rapporti tra gruppi e individui lontani e però legati da un vincolo “sacro” di amicizia rappresentato dallo scambio di collane e bracciali.
Gli oggetti rituali e quelli d’uso corrente scambiati durante le spedizioni costituivano dunque due diversi tipi di oggetti: beni di prestigio e beni di consumo, rispettivamente. Entrambi erano delle risorse materiali, ma i primi, le collane e i bracciali, erano anche delle risorse simboliche grazie alle quali era più facile acquisire i beni d’uso corrente.
Un aspetto dello scambio kula che Malinowski mise in luce fu l’esistenza, riscontrabile anche in molte altre società, di quelle che gli antropologi chiamano sfere di scambio, cioè “spazi” separati di circolazione di beni di natura differente e che non sono comunicanti tra loro. Un fenomeno insolito, per il mondo occidentale, dove il denaro è un mezzo universale di scambio e dove grazie ad esso tutto, o quasi, può essere “comperato e venduto”.
Un esempio di sfere di scambio rigidamente separate è quello dell’attuale sistema dei matrimoni tra i Nuer del Sudan. I Nuer non fanno entrare il denaro (qualificato in questa circostanza come “sterile”) nelle compensazioni matrimoniali, cioè nei beni che il gruppo dello sposo deve cedere, con il matrimonio, al gruppo della sposa. Il denaro serve ai Nuer per comprare qualsiasi cosa, ma il bestiame mantiene per loro la funzione incontrastata di principale risorsa, materiale e simbolica, per cui, in occasione di scambi che hanno luogo in relazione a eventi socialmente importanti (come matrimonio), si usa il bestiame e non il denaro, considerato “sterile” in opposizione al matrimonio che dovrebbe invece essere “fecondo”.
Questo atteggiamento dei Nuer nei confronti dell’utilizzo del denaro non è una stranezza, è una scelta che ha a che fare con la gestione del potere. La “sterilità” del denaro potrebbe essere una “rappresentazione” della relazione di potere su cui si fonda il loro sistema matrimoniale. Il bestiame che, oltre a fornire il latte, entra a far parte della compensazione matrimoniale, è infatti acquisito dai giovani solo quando viene loro ceduto dagli individui più anziani della famiglia. Il bestiame, insomma, non si può “comprare”. Gli uomini adulti, potendo cedere a loro discrezione gli animali a figli e nipoti, stabiliscono anche il momento in cui questi ultimi possono diventare “adulti” a loro volta: individui indipendenti con bestiame, mogli e figli propri. Il bestiame, controllato da padri e da zii, diventa di fatto una risorsa tanto materiale quanto simbolica con cui questi ultimi esercitano il proprio potere sui “giovani”, ma perché ciò risulti un metodo efficace di fronte alla monetizzazione progressiva della loro economia, gli anziani devono escludere il denaro dalla sfera dello scambio matrimoniale e riservare a quest’ultima il solo bene che essi possono controllare grazie alla loro autorità: il bestiame. Questo dei Nuer è un altro esempio di come il controllo delle risorse materiali e quello delle risorse simboliche siano parte entrambi della gestione del potere.
Possiamo allora chiederci: che cosa mette individui e gruppi in condizione di ottenere potere e di imporlo? Una risposta potrebbe essere: le risorse che gestiscono e che, se adeguatamente impiegate allo scopo, conferiranno loro la facoltà di controllare altre e più importanti risorse, di natura simbolica e materiale. Ciò significa che, per partecipare alla “lotta per il potere”, bisogna comunque disporre di risorse di un tipo o dell’altro: terra, denaro, bestiame, ideologie che fanno presa sui componenti di una società, e naturalmente, nel mondo di oggi, televisioni, giornali, pubblicità ecc.
2. La circolazione e la produzione delle risorse
Controllare le risorse non significa soltanto decidere come devono essere utilizzate; significa anche esercitare un controllo sulla loro produzione. Se vogliamo mettere in relazione risorse e potere, dobbiamo considerare anche la produzione e la distribuzione delle risorse immateriali che permettono di controllare quelle materiali: conoscenze tecniche, saperi magici, principi religiosi o mitici e “valori” in senso lato; l’utilizzazione della scrittura o, dove questa è poco usata, dell’arte oratoria; la conoscenza dei miti di fondazione della comunità; il possesso delle tecniche di caccia o di fabbricazione degli strumenti agricoli; l’elaborazione delle cosmologie che spiegano l’origine e l’ordine del mondo, la scienza.
Quelle elencate sono tutte risorse immateriali, prodotte e controllate da alcuni individui o da alcuni gruppi i quali, in molte società, rappresentano, proprio grazie a ciò, le fonti dell’autorità. Le società e le culture, per quanto semplici possano apparire ai nostri occhi, non sono mai uniformi al loro interno, né le conoscenze e i saperi sono distribuiti in modo uniforme.
Qui ci concentreremo tuttavia sul controllo dei beni materiali in senso stretto, sulla loro produzione e distribuzione, cercando però di connettere sempre tali fenomeni con la dimensione simbolica del controllo di tali risorse.
La produzione, la distribuzione e la circolazione delle risorse materiali sono, come si è detto, i temi tipici dell’antropologia economica. Questa branca dell’antropologia ha origini vaghe. Fu solo verso la metà del Novecento che essa emerse come un sottosettore specializzato della disciplina. Ciò avvenne soprattutto per merito di Karl Polanyi (1886-1964), un economista ungherese trasferitosi in Gran Bretagna nel 1940 per sfuggire ai nazisti che aveva letto i rapporti etnografici di Malinowski, Boas e Mauss.
Franz Boas (1856-1942) aveva studiato il cerimoniale del potlatch presso i Kwakiutl della costa nordamericana del Pacifico, Mauss (1872-1950) si era invece concentrato sullo studio del dono, pubblicando nel 1923 il Saggio sul dono – un classico dell’antropologia culturale – Malinowski, come si è visto, aveva invece approfondito lo scambio rituale dei trobriandesi.
Tutti questi fenomeni sembravano riconducibili a scambi tra individui e gruppi improntati al principio di reciprocità. Malinowski aveva notato, per esempio, come gran parte della vita sociale dei Trobriand si basasse su atti di natura reciproca. La reciprocità, aveva osservato Malinowski, si trovava ovunque nella vita dei trobriandesi, negli scambi pacifici come nel conflitto. Essa aveva un carattere sociale, obbligatorio e cogente che, se non rispettato, produceva riprovazione, sanzioni ed esclusione.
Una particolare forma di reciprocità è riscontrabile nel potlatch. Boas, che faceva riferimento alla propria esperienza presso gli indiani Kwakiutl, lo descrisse come una competizione tra individui appartenenti allo stesso status sociale che si sfidavano allo scopo di elevare pubblicamente il proprio prestigio e di scalfire quello del rivale di turno.
Tali sfide erano caratterizzate, oltre che dalla distruzione di enormi quantità di beni accumulati in precedenza, anche dalla ridistribuzione di essi tra i membri delle comunità coinvolte. Chi più distruggeva, e distribuiva, vinceva. Ad ogni distruzione e a ogni distribuzione da parte di un concorrente, l’altro doveva rispondere distribuendo e distruggendo ancora di più, pena la “perdita della faccia”, ossia dell’onore.
2.1 Marcel Mauss e il Saggio sul dono
Mauss interpretò il dono accentuandone la dimensione della reciprocità per cercare di dare una spiegazione del suo «carattere volontario, apparentemente libero e gratuito, e tuttavia obbligato e interessato».
Secondo Mauss, alla base della pratica del dono erano le tre regole del dare, ricevere (il dono deve essere accettato) e ricambiare. Per elaborare questa tesi, Mauss si ispirò alla teoria Maori dello Hau, un termine che Mauss tradusse come «lo spirito della cosa donata», cioè la “forza” del possessore originario di una cosa. Lo hau identificava gli oggetti donati con lo spirito della persona che li aveva posseduti (mana) e che permaneva in essi anche dopo che erano passati di mano.
Era proprio la credenza nello Hau a mettere in azione, secondo Mauss, il sistema della restituzione del dono, poiché il mancato contro-dono avrebbe indotto lo bau dell’oggetto ceduto a “vendicarsi” sul trasgressore. Per i Maori, infatti, lo Hau faceva in modo che chi riceveva il dono si sentisse “in debito” nei confronti del donante obbligandolo a ricambiare per ristabilire una specie di “equilibrio delle forze” alterato dal primo atto del donare – va considerato che anche se Mauss interpretò lo Hau in modo simbolico, cioè come una credenza non fine a se stessa ma finalizzata alla costruzione del legame sociale, L’évy-Strauss accentuò questa lettura osservando il funzionamento inconscio dello Hau.
Mauss osservò come lo scambio dei beni, anche se di valore intrinseco non fondamentale, fosse uno dei modi più comuni e universali per creare relazioni umane. Addirittura il dono diventa, secondo Mauss, un fatto sociale totale, vale a dire un aspetto specifico di una cultura che è in relazione con tutti gli altri e pertanto, attraverso la sua analisi è possibile leggere per estensione le diverse componenti della società.
Il dono implica una forte dose di libertà. È vero che c’è l’obbligo di restituire, ma modi e tempi non sono rigidi e in ogni caso si tratta di un obbligo morale, non perseguibile per legge, né sanzionabile. Il valore del dono è nell’assenza di garanzie per il donatore. Un’assenza che presuppone una grande fiducia negli altri ed è quindi costruttrice di legame sociale.
2.1 L’economia sociale di Karl Polanyi
Influenzato dagli studi di Malinowski, Boas e Mauss, Polanyi elaborò una concezione controcorrente dell’economia. Gli economisti classici ritenevano, infatti, che il comportamento economico fosse definibile come un comportamento finalizzato alla massimizzazione dell’utile, una visione che riduceva tutta la vita sociale a un insieme di comportamenti, pratici e spirituali, caratteristici della mentalità dell’“imprenditore” (homo oeconomicus).
A questa concezione, che giudicò etnocentrica, Polanyi contrappose un’idea dell’economia come rapporto concreto degli esseri umani con la natura, da un lato, e con i propri simili, dall’altro. Una visione dell’economia che poneva l’accento sulla sua dimensione sociale, e non su quella dell’utile individuale. L’economia sarebbe così, secondo Polanyi, un processo istituzionalizzato, cioè dipendente dalle strutture sociali nelle quali tale processo è inquadrato.
2.2 La circolazione dei beni, i modi sociali di produzione
Polanyi mise in evidenza come la circolazione dei beni sia un fenomeno sociale, poiché lo scambio, la distribuzione, l’acquisto e la vendita di tali beni pongono gli esseri umani in rapporto tra loro. Questo rapporto si sviluppa in maniera diversa, a seconda delle relazioni che prevalgono all’interno della loro cultura: parentela, stratificazione sociale, mercato.
Anche la produzione è un fenomeno sociale, poiché i beni che vengono scambiati “incorporano” anch’essi delle relazioni sociali. Di un oggetto bisogna infatti chiedersi: quali sono gli elementi che sono “entrati” in quell’oggetto per farlo diventare ciò che è? La risposta riguarderà i materiali necessari alla fabbricazione, un insieme di conoscenze tecniche, un’idea di partenza, un lavoro ecc. Ma vi è un’altra questione fondamentale, ossia quali condizioni sociali hanno fatto sì che quegli elementi (materiali, conoscenze, idee, lavoro) abbiano potuto entrarvi in un certo modo e non in un altro.
In ogni bene prodotto e scambiato ci sono quindi materiali, conoscenze tecniche, punti di vista sull’utile e sul bello e “relazioni” o rapporti tra gli individui che lo hanno prodotto. Nel processo produttivo industrializzato, ad esempio, entrano in gioco la divisione del lavoro e la proprietà dei mezzi di produzione, aspetti completamente ignoti nella produzione artigianale delle economie arcaiche. Tra la costruzione di un arco per mano di un cacciatore Kung e quella di un’auto è insomma in gioco un diverso “modo sociale di produzione”.
Un modo di produzione è la combinazione di tre fattori: i mezzi di produzione, la manodopera e i rapporti di produzione. I mezzi di produzione sono la materia prima, il sapere e la tecnologia di cui una società dispone in un certo momento della sua storia. La manodopera è l’energia umana impiegata nel processo produttivo, ossia il lavoro. I rapporti di produzione sono costituiti dalla relazione sociale che connette mezzi di produzione e manodopera. Nel caso del Kung la relazione tra lui e l’oggetto è diretta; nel caso degli operai la relazione è indiretta e mediata da un diverso rapporto di produzione. Se cambiano i rapporti di produzione, cioè la relazione sociale tra mezzi di produzione e manodopera, cambia infatti anche il modo di produzione. A seconda, cioè, di come mezzi di produzione e manodopera entrano in relazione si ha la presenza di un modo di produzione diverso.
Nelle società antiche, come quella greca o quella romana, prevaleva il modo di produzione schiavista, dal momento che l’energia umana impiegata nella produzione apparteneva a individui legati da un rapporto di dipendenza totale e assoluta ad altri esseri umani. Nell’Alto Medioevo si sviluppò invece il modo di produzione feudale, dove il rapporto sociale che metteva in relazione mezzi di produzione e manodopera era quello signore-servo. Nella società capitalista, infine, nata con la rivoluzione industriale, la relazione sociale che connette mezzi di produzione e manodopera si riflette nell’esistenza del lavoro salariato, cioè retribuito. Questa è la differenza tra il cacciatore Kung che fabbrica l’arco e i nostri operai che prendono parte al ciclo di fabbricazione di un’auto: il lavoro salariato è la relazione sociale che, in quest’ultimo caso, si stabilisce tra l’operaio e il bene da lui prodotto.
Nella società capitalista chi possiede i mezzi di produzione acquista la manodopera da coloro che la vendono, come nel caso dei nostri operai salariati della fabbrica di auto. Con il capitalismo la manodopera si trasforma, infatti, in forza-lavoro, cioè in una merce sottoposta alle leggi del mercato, cioè della domanda e dell’offerta. Il capitalismo è il modo di produzione che risulta da questa particolare connessione tra mezzi di produzione e manodopera.
I beni materiali sono dunque prodotti che “incorporano” molti elementi, comprese le relazioni sociali grazie alle quali essi sono stati prodotti. L’idea che gli oggetti fabbricati vadano analizzati come prodotti che incorporano relazioni sociali di volta in volta diverse risale al filosofo tedesco Karl Marx che, ne II Capitale, un’opera del 1867 dedicata all’analisi dell’economia del suo tempo, elaborò appunto il concetto di modo di produzione.
Molte società dell’Africa e dell’Asia sono state studiate da un punto di vista antropologico che evidenzia alcuni aspetti centrali del processo produttivo inteso come fenomeno sociale: la natura dei mezzi di produzione; i loro possessori legittimi, proprietari singoli o collettivi; la relazione che si instaura tra possessori dei mezzi di produzione e quanti lavorano: schiavitù, dipendenza servile o clientelare, uso collettivo o privato degli strumenti di lavoro; la destinazione sociale dei prodotti: consumo da parte dei produttori, ridistribuzione all’interno alla comunità, scambio con altri gruppi, vendita.
Tali analisi hanno prestato particolare attenzione al modo in cui forme di vita economica fondate su relazioni produttive “tradizionali” (parentela, clientela, servitù, amicizia, vicinato) entrano in rapporto con l’economia di mercato e con logiche economiche che hanno origine altrove: negli Stati Uniti, in Europa, in Giappone e, in una certa misura, anche in Cina e in India: tutte aree del pianeta dove risiedono i principali centri decisionali in materia di finanza e di economia.
2.3. I rapporti sociali di produzione delle economie arcaiche: casi etnografici
Esempi classici di questo tipo di approccio sono gli studi condotti negli anni 1960-1980 sulle popolazioni dell’Africa subsahariana e del Sud America. In uno studio del 1969 dedicato ai Gouro della Costa d’Avorio (Africa occidentale), l’antropologo francese Claude Meillassoux si prefisse di studiare quale tipo di rapporti sociali determinava l’orientamento economico di queste comunità agricole.
Egli concentrò lo studio sulla comunità domestica, cioè un gruppo d’individui per lo più consanguinei e alleati, e coresidenti, i quali contribuivano allo svolgimento delle attività soprattutto agricole di interesse comune. Secondo Meillassoux, la comunità domestica si fonda, in queste società “tradizionali”, sull’accesso paritario di tutti gli individui al mezzo di produzione per eccellenza, cioè la terra. Tuttavia, all’interno di tale comunità vige il principio dell’anzianità sociale come fondamento dell’autorità. Sono infatti gli “anziani”, cioè gli uomini sposati con dei figli in grado di lavorare la terra, a detenere il controllo delle risorse.
Queste ultime non coincidono però solo con la terra e gli attrezzi, dal momento che la terra è largamente disponibile e gli attrezzi possono essere fabbricati da chiunque. In questo caso le “risorse” sono piuttosto le donne, la cui vita è regolata dagli anziani delle varie comunità domestiche e, al di là di esse, dai rappresentanti più autorevoli dei gruppi di discendenza a cui tali comunità appartengono. In questa situazione il “controllo” delle donne è, secondo Meillassoux, il fattore-chiave da cui deriva il potere: le donne sono infatti la risorsi fondamentale grazie alla quale gli individui possono diventare a loro volta indipendenti (crearsi una famiglia con figli in grado di lavorare la terra) e, poiché la “circolazione” delle donne è stabilita dagli anziani, la relazione sociale che determina questo modo di produzione è il rapporto giovane-anziano.
I giovani, allo scopo di ottenere una moglie, e quindi rendersi indipendenti mettendo al mondo dei figli a loro volta in grado di lavorare, devono obbedire agli anziani, e quindi lavorare per molto tempo alle loro dipendenze. Gli anziani gestiscono naturalmente anche risorse di altro tipo: per esempio quelle simboliche connesse con la loro posizione di autorevolezza, fondata sull’anzianità; e quelle legate alle prerogative religiose, rituali e politiche. II controllo degli anziani sui giovani non può tuttavia durare in eterno, pena l’estinzione delia comunità domestica. Concedendo ai giovani delle mogli, essi consentono loro di dare inizio a un nuovo “ciclo domestico”, che vedrà gli anziani, cioè i giovani di una volta, controllare a loro volta la produzione agricola e la riproduzione della comunità.
La comunità domestica, che secondo alcuni autori è la più antica unità economico-sociale, è stata “sfruttata” dai modi di produzione che l’hanno inglobata nel corso della storia. Tutti i modi di produzione, e da ultimo quello capitalista, hanno infatti usato questa comunità come “luogo di riproduzione della manodopera”, cioè di esseri umani in grado di fornire lavoro (produzione/riproduzione). In età coloniale e post-coloniale, le comunità domestiche di molti Paesi africani, asiatici e latino-americani sono divenute le rifornitrici di manodopera sia per le piantagioni sia per le industrie, prima in Africa, in Asia, in America e poi, con le migrazioni, in Europa. Ciò significa che il modo di produzione dominante nelle società tradizionali africane, asiatiche ecc. è entrato, a partire da quelle fasi storiche, in un rapporto di articolazione con quello capitalista e di dipendenza da quest’ultimo.
L’articolazione tra sistemi e modi di produzione locali con l’economia di mercato globale è stata definita struttura della dipendenza. Con questa espressione ci si riferisce alla situazione di subordinazione funzionale che si instaura tra le economie del “centro”, cioè quelle dei Paesi più sviluppati, da un lato, e le economie della periferia, dall’altro; tra le economie fondate sulla produzione industriale e agricola altamente tecnologizzata, da una parte, e le economie fondate sulla manodopera a basso costo e a bassa produttività, dall’altra.
La dipendenza delle economie più deboli da quelle più forti si instaura in primo luogo per il fatto che queste ultime hanno la possibilità di “estrarre” dalle economie più deboli delle risorse che, per l’assenza di strutture produttive adeguate, non possono essere sfruttate localmente. Dato questo rapporto di forza, sostenuto spesso dalle politiche dei Paesi più ricchi nei confronti dei Paesi più poveri, questi ultimi sono condannati alla stagnazione permanente, ossia a rimanere fermi, senza sviluppo, mentre le economie del centro crescono sempre di più. In secondo luogo, le economie del centro orientano a proprio vantaggio le economie più deboli della periferia, imponendo a queste ultime le proprie scelte produttive.
Un esempio tra tanti di questa situazione di dipendenza è l’effetto prodotto dal colonialismo francese in Africa occidentale tra la fine dell’Ottocento e i giorni nostri. I colonialisti imposero alle popolazioni locali la riconversione di gran parte delle loro attività produttive passando dall’economia di sussistenza all’economia di piantagione. Essi obbligarono cioè le popolazioni a lavorare (in parte in un regime di lavoro forzato e in parte di lavoro salariato) nelle piantagioni dei proprietari occidentali, spingendo le popolazioni rurali ad abbandonare le attività che erano alla base delle loro tradizionali fonti di approvvigionamento: una produzione agricola finalizzata al consumo, non al commercio.
Contemporaneamente, obbligando gli africani a pagare le tasse in denaro, i colonialisti li spingessero a procurarselo con il lavoro salariato. In seguito, poiché l’economia di questi Paesi era sempre più orientata verso la produzione di caffè e di arachidi, le popolazioni locali si trovarono a dipendere dalle fluttuazioni dei prezzi che questi prodotti, la cui commercializzazione era in mano occidentale, avevano sul mercato europeo e mondiale.
In tal modo l’economia di queste popolazioni africane risultò “dipendere” da quella europea, non avendo più possibilità di riconvertirsi, se non a patto di enormi sacrifici, alle attività economiche di un tempo. Di qui i giganteschi problemi economici a cui vanno incontro ancora oggi, periodicamente, i Paesi africani, e non solo per le fluttuazioni del prezzo del caffè e delle arachidi. Infatti, da allora, altri nuovi settori dell’economia africana, come l ’estrazione di metalli e del petrolio, sono caduti in modo più o meno diretto nelle mani delle multinazionali europee e statunitensi (recentemente anche delle compagnie cinesi), per cui Paesi ricchissimi di materie prime, come il Congo, la Nigeria, la Costa d’Avorio e altri, conti nuano ad avere economie “sottosviluppate”.
3. Economia e politica
Per capire come gli esseri umani si muovono in ambito economico bisogna tenere conto di una pluralità di fattori che vanno dall’utile materiale alla soddisfazione morale, dal consumo di beni concreti al consumo di beni immateriali, dal controllo di risorse finanziarie al prestigio. Situazioni ambientali, psicologiche, e soprattutto culturali, tendono a orientare il comportamento e le aspettative “economiche” degli individui. L’economia, come riconoscono quasi tutti gli economisti, non è una “scienza” quando ci si allontana dalle statistiche, e anche le previsioni in materia si rivelano ben lontane dal rispondere ai calcoli esatti di una scienza come la fisica o la chimica. Molte crisi economiche di vaste proporzioni avvengono improvvisamente, senza che nessuno sia in grado di prevederle, e quel che più conta è che, una volta concluse, non si capisce bene che cosa possa averle scatenate, se non una serie di “concause” economiche, sociali, politiche, ideologiche o, molto semplicemente, “culturali”. Come ha scritto lo studioso di antropologia economica Robert Wilk, riprendendo una battuta dello scrittore inglese George Orwell (1903-1950), gli esseri umani, piuttosto che essere «economicamente razionali», sembrano «lottare perennemente per vedere ciò che sta davanti al loro naso».
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3.1 La politica: una competizione per il controllo delle risorse
L’attività politica è quell’aspetto del comportamento individuale e collettivo mediante il quale i singoli o i gruppi impiegano, secondo finalità e interessi specifici, le regole e le istituzioni presenti nella loro società per ottenere il controllo delle risorse materiali e simboliche. Lo studio antropologico del potere ha prestato attenzione al modo in cui, presso culture differenti, si crea ciò che è stato chiamato arena politica. L’arena politica è lo spazio ideale occupato da tutti gli elementi che determinano il confronto politico tra le parti: organizzazioni, individui, valori, significati e, naturalmente, risorse materiali, tutte cose manovrate dagli attori politici nel loro confrontarsi per il potere. Gli attori politici sono quanti si confrontano nell’arena politica: sia individui come gli aspiranti leader di partito, fazione, lignaggio ecc. sia gruppi di pressione intenzionati ad avere un ruolo politico. Gli industriali fabbricanti di armi di un Paese come gli Stati Uniti possono essere, in quanto gruppo d’interesse, un attore politico di primo piano, così come l’insieme dei latifondisti di un Paese sudamericano. I partiti politici, le banche, i gruppi e le istituzioni religiose, i giornalisti, i finanzieri, gli industriali, le associazioni di trasportatori, così come i sindacati, le associazioni operaie e contadine, i professori universitari ecc. possono essere tutti attori politici nella misura in cui possono influenzare, con le loro iniziative (entrando cioè nell’arena politica), il corso della vita politica stessa.
Considerare la politica come uno spazio, un’arena in cui si disputa la partita per il controllo del potere significa anche non avere un’immagine statica del potere. Anziché pensare in termini di istituzioni o di ruoli politici (monarchia, repubblica, presidenti, re ecc.), l’antropologia preferisce infatti concentrarsi sugli aspetti dinamici della contesa politica, prendendo in considerazione tutti quegli attori che si rivelano interessati alla gestione delle risorse materiali e simboliche. Sulla base di queste considerazioni si parla, in antropologia, di prospettiva processuale definizione che cerca di cogliere i fenomeni politici nel loro “divenire” strategie e scelte messe in atto da individui e da gruppi (gli attori politici). Conoscere le istituzioni di una società o di un Paese, il loro funzionamento e la loro storia, è naturalmente indispensabile se si vuole sapere che cosa sia la politica in quella società o in quel Paese medesimi. Tuttavia, la prospettiva processuale consente di cogliere meglio la natura composita del fenomeno politico in quanto, collegando l’azione politica alle motivazioni, alle strategie e alle scelte individuali e di gruppo, si confronta di continuo con altri aspetti della vita sociale e culturale: “economici”, “religiosi”, “etici” ecc.
Tenendo conto di quanto abbiamo detto sin qui, una organizzazione politica potrebbe essere considerata come l’insieme delle regole, delle istituzioni e delle pratiche reali che contribuiscono a definire il quadro entro il quale si svolge l’attività politica, ossia la competizione per il controllo delle isorse materiali e simboliche di una determinata società o comunità. Parlare di “organizzazione politica” significa naturalmente evocare le dimensioni della autorità e del potere. Questi possono essere incarnati, a livelli molto alti, da figure particolari che rivestono, per eredità, elezione o consenso più o meno esplicito, determinate cariche politiche: presidente, re, primo ministro, sacerdote supremo, imperatore ecc. Vi sono società in cui tali cariche sono assenti, così come assenti possono essere istituzioni o ruoli politici istituzionalizzati. In molte società mancano apparati od organismi preposti a far rispettare le norme in maniera coercitiva, cioè con la forza. Ciò non toglie che siano presenti vincoli e disposizioni capaci di assicurare la coesione di un gruppo e il rispetto delle regole. Il rispetto dell’autorità, l’esercizio del potere, la difesa degli interessi di un certo gruppo di individui o dell’intero corpo sociale possono essere ottenuti per vie differenti.
3.2 Rispetto delle regole senza coercizione
Malinowski, come abbiamo visto, aveva individuato nella reciprocità il meccanismo capace di assicurare il rispetto delle regole nelle società che, alla sua epoca, venivano chiamate “primitive”. Nella maggior parte di queste società la parentela e l’età hanno costituito fattori importanti per assicurare il rispetto dei diritti e delle regole sociali, per esempio prescrivendo determinati tipi di comportamento tendenti ad affermare il rispetto nei confronti di individui più vecchi (il padre, il fratello della madre, l’“anziano”) o la collaborazione degli individui appartenenti allo stesso gruppo, per esempio al gruppo di discendenza. Anche la religione può svolgere una funzione coesiva analoga. Nell’Europa feudale i privilegi della Chiesa erano mantenuti, oltre che da un reale controllo sulla produzione e sui produttori, anche dal “rispetto” che tanto i signori quanto i membri delle comunità rurali dovevano, anche se spesso in via teorica, ai sacerdoti. D’altra parte non bisogna dimenticare che tutte le culture prevedono sanzioni soprannaturali per i trasgressori di certe “regole sociali”.
Gli antropologi hanno considerato per molto tempo le organizzazioni politiche concrete come se fossero disposte su una linea continua, dalle forme più “semplici” a quelle più “complesse”. Per distinguerle hanno elaborato varie tipologie. Negli ultimi decenni è prevalso però, come in tutti i settori di studio dell’antropologia, un netto scetticismo nei confronti di tali classificazioni. Le forme di organizzazione politica tendono, infatti, a sfumare impercettibilmente le une nelle altre. Un’utile classificazione (riportata nello schema seguente) si fonda sulla distinzione tra sistemi politici non centralizzati e sistemi politici centralizzati. All’interno dei sistemi non centralizzati si può operare un’ulteriore distinzione tra bande, tipiche delle società di caccia-raccolta, da un lato, e tribù, caratteristiche di certe so cietà, come quelle di pastori nomadi o alcune società di agricoltori, dall’altro.
All’interno dei sistemi centralizzati si possono invece distinguere due forme principali: i potentati e gli Stati. I primi sono caratteristici di alcune società di nomadi e di agricoltori. Gli Stati, invece, sono organizzazioni che controllano a volte pastori, agricoltori e anche cacciatori-raccoglitori ma che, soprattutto, controllano le popolazioni urbane. Gli Stati sono poi distinguibili, a loro volta, in Stati stratificati, dinastici e Stati nazionali.
4. I sistemi politici non centralizzati
4.1 L’organizzazione sociale “per bande”
La banda è ritenuta dagli antropologi la forma più elementare di organizzazione “politica”, probabilmente la più antica e sicuramente ormai meno diffusa. Essa è infatti caratteristica dei gruppi di cacciatori-raccoglitori nomadi, i quali rappresentano oggi una percentuale irrisoria della popolazione mondiale complessiva (meno di 2 milioni e mezzo su 6,7 miliardi). Le bande, sostengono gli antropologi, sono sottoposte a flusso (il continuo allontanamento di individui da una banda e la loro riaggregazione a un’altra), un fattore che, unitamente alle condizioni generali di vita economica e sociale, contribuisce a fare di esse degli aggregati socio-politici fondamentalmente ugualitari.
Quando, in una società di cacciatori-raccoglitori, un individuo tiene un comportamento o compie un’azione non approvata dagli altri membri della banda, può essere colpito da una sanzione che va dalla semplice derisione all’esclusione dal gruppo nei casi più gravi di infrazione delle leggi della comunità. Nelle società di questo tipo i contrasti sono in genere di natura personale. Rivalità tra cacciatori, casi di adulterio, reciproche accuse di stregoneria costituiscono le occasioni più frequenti di contrasto. In genere tali conflitti sono risolti attraverso discussioni più o meno accese tra gli individui interessati, ma possono anche sfociare in duelli o in scaramucce di lieve entità tra coloro che prendono le parti degli avversari.
È difficile che questi scontri rivestano un carattere duraturo o violento fino alle estreme conseguenze. Si tratta infatti sempre di combattimenti ritualizzati in cui l’escalation della violenza è sotto il controllo degli astanti che possono separare i contendenti. Sono noti, a tale proposito, i “duelli di canti” praticati un tempo dagli Eschimesi. I conflitti tra individui erano molto spesso risolti mediante duelli canori durante i quali gli avversari si scambiavano insulti ed esponevano al pubblico le loro ragioni. Quest’ultimo era chiamato a dare il proprio parere, espresso il quale gli avversari si scambiavano doni e consideravano chiuso il contrasto. In società simili i conflitti tra singoli individui non vengono portati di fronte a una autorità in grado di giudicare e di comminare sanzioni. Tali conflitti sono invece resi pubblici, in modo che il giudizio su di essi rivesta carattere tendenzialmente unanime.
4.2 Le società “tribali”
L’etichetta tribale è stata assegnata alla quasi totalità delle società studiate in passato dagli etnologi e dagli antropologi. E per questo motivo che non vi è accordo sulla capacità, da parte di questa nozione, di individuare delle realtà precise sul piano politico. Il fatto è che la nozione di tribù tende ad essere impiegata per designare un numero così grande di realtà sociali, politiche e culturali che “tribali” vengono definite popolazioni di orticoltori come gli Yanoàmi dell’Amazzonia, gli agricoltori Tiv della Nigeria, i Beduini della Penisola arabica, i Papua della Nuova Guinea, gli Indiani del Nord America, gli Aborigeni australiani ecc. “Tribale” è infatti stata sempre una qualificazione generica usata allo scopo di sottolineare che si trattava di società fondate su principi organizzativi differenti da quelli tipici delle società europee e moderne. In passato l’utilizzazione del termine ha anche consentito di distinguere facilmente i “primitivi” dai “civilizzati”, e anche oggi “tribale” viene usato nel linguaggio corrente per indicare qualcosa di “originario”, primitivo”, “autenticamente esotico”, sia nella vita pubblica (“solidarietà di tipo tribale”) sia nella moda (tatuaggi, piercing e gioielli “tribali”).
Tra i vari modi in cui vengono rappresentate le società attuali dell’Africa e del Medio Oriente vi è quello che consiste nel definire tali società società tribali. Dal Nord Africa all’Africa centrale, dall’Arabia all’Afghanistan, esistono territori alle cui popolazioni viene indifferentemente applicata l’etichetta di “tribale”. Gli antropologi riservano tuttavia l’uso del termine tribù a un preciso tipo di organizzazione socio-politica, il quale è prevalentemente riscontrabile presso popolazioni agricole e/o pastorali. “Tribali” sono infatti per lo più definite quelle società in cui sono presenti gruppi di discendenza unilineari (lignaggi), i cui rispettivi membri si considerano discendenti da un comune antenato. Per poter parlare di società tribale in maniera pertinente bisogna che, oltre alla presenza di questi gruppi unilineari, l’organizzazione politica sia tendenzialmente acefala (letteralmente: “senza testa”), cioè priva di un potere centrale con capacità di decisione, di controllo e di coercizione nei confronti dei gruppi di discendenza che la costituiscono. In questo senso è possibile stabilire un confronto tra le società tribali e quelle acquisitive, cioò la forma più antica di società, basata sullo sfruttamento di ciò che la natura offre. Vi è però una importante differenza tra le società tribali e quelle “acquisitive”. Mentre presso queste ultime l’arma più frequentemente adottata contro la trasgressione è la riprovazione collettiva, nelle società tribali i gruppi di discendenza possono diventare delle vere e proprie entità politiche, pronte a costituirsi in unità internamente solidali e a contrapporsi ad altri ad essi simili. I gruppi di discendenza sono infatti formati da individui che, ritenendosi discendenti di un comune antenato, hanno uguale accesso alle risorse vitali e strategiche e che, come tali, formano un’unità pronta a lottare per la difesa di tali risorse (e detti pe r ciò gruppi corporati).
Sono inoltre chiamati lignaggi segmentari i gruppi di discendenza unilineari che costituiscono una tribù. Essi sono detti segmentari perché sono suscettibili di frazionarsi o di aggregarsi in segmenti di minore o di maggiore estensione. Società tribali segmentarie sono diffuse tanto in Africa quanto in Medio Oriente. L’ideologia egualitaria è molto diffusa all’interno di queste società e tende a sottolineare il carattere paritario di tutti i lignaggi segmentari. Nella pratica, però, i comportamenti seguono un altro corso. Infatti, nonostante la visione ugualitaria, vi sono lignaggi che non hanno interesse a farsi trascinare, per semplice spirito di “solidarietà”, in un conflitto con altri con cui sono strettamente “imparentati”. Cosi come vi sono invece lignaggi che hanno interesse ad allearsi con altri “più lontani” contro lignaggi “più vicini”. Inoltre, vi sono sempre lignaggi politicamente preminenti, specialmente se essi sono più numerosi, più ricchi o ritualmente più importanti degli altri.
5. I sistemi politici centralizzati
Basta osservare un atlante politico per rendersi conto di come non esista oggi terra al mondo che non sia sotto la sovranità di uno Stato nazionale (se ne contano complessivamente quasi duecento). Lo Stato nazionale è una forma di organizzazione politica che è nata in Europa nel corso dell’età moderna e che ha avuto fortuna come poche altre nella storia. Diffusosi con l’espansione europea, e affermatosi definitivamente con la decolonizzazione, il modello dello Stato nazionale caratterizza il panorama politico del mondo attuale. L’epoca della decolonizzazione, di poco successiva alla Seconda guerra mondiale, vide gli Stati europei abbandonare il controllo di ampie aree dell’Africa, dell’Asia, del Medio Oriente, dove si formarono nuovi Stati sovrani. Tra gli esempi più noti di Paesi nati dalla decolonizzazione si può citare quello dell’India, che divenne autonoma dalla Gran Bretagna e si divise in due Stati, l’India (di religione prevalentemente induista) e il Pakistan (musulmano).
Anche se molti Stati al mondo vivono oggi tensioni interne, crisi drammatiche e conflitti sanguinosi incontrollabili, è in riferimento agli Stati nazionali che si organizza sempre più la vita delle popolazioni del pianeta. La maggior parte di questi Stati pretende di legittimare la sovranità, affermando che le popolazioni che rientrano sotto la loro giurisdizione sono omogenee: o dal punto di vista culturale oppure dal punto di vista religioso o linguistico. Ciò non corrisponde a verità, perché entro i confini degli Stati vivono sempre comunità con lingue, culture, religioni e tradizioni differenti. Sono inoltre molti gli Stati al mondo con aree su cui le amministrazioni centrali non hanno alcun potere di controllo. Infine, sono numerose le aree del pianeta contese tra Stati. Il solo fatto, tuttavia, che oggi l’atlante sia “interamente coperto di Stati” significa che lo Stato è l’istituzione ufficialmente riconosciuta come preposta al governo dei popoli. Ma, ovviamente, non è sempre stato così.
Sino all’epoca della decolonizzazione, e quindi fino alla diffusione degli Stati nazionali su scala planetaria, la maggior parte delle comunità umane era organizzata su basi non statuali. Prima della colonizzazione esistevano certamente degli Stati anche fuori d’Europa, ma questi non erano Stati “nazionali”. Le società erano spesso autonome in materia di amministrazione della giustizia, di relazioni con altre comunità e di scelte “politiche”. Oggi alcune di queste società si sono dissolte, altre sono sopravvissute, tutte comunque si sono trasformate in conseguenza di un processo di mutazione generale del quale lo Stato nazionale è uno dei principali agenti. Lo Stato nazionale sembra però essere talvolta surclassato esso stesso dalle forze della globalizzazione economica, cioè dalla libera circolazione e distribuzione delle attività produttive sui mercati internazionali (fenomeno per cui una grande azienda ha attività ramificate in diverse parti del mondo). La transnazionalizzazione del capitale finanziario e industriale configura un mondo governato da centri di potere non identificabili con un luogo o un Paese preciso, e impone agli Stati nazionali, soprattutto a quelli meno ricchi e potenti, le proprie decisioni.
L’antropologia è interessata allo studio delle trasformazioni nella gestione del potere politico e, di conseguenza, alle trasformazioni dell’organizzazione politica. In questa prospettiva l’antropologia studia come alcune strutture politiche siano scomparse o si siano trasformate a contatto di quelle degli Stati nazionali. Tra le forme di organizzazione politica che, secondo gli antropologi, possono essere considerate antecedenti allo Stato, e che per certi aspetti ne annunciano la comparsa, vi sono quelli che gli antropologi di lingua inglese definiscono chiefdoms e quelli di lingua francese chefferie, due termini difficili da tradurre in italiano che potremo rendere con potentato.
5.1 Una forma intermedia di governo
II potentato costituisce una specie di condizione “intermedia” fra la tribù, e lo Stato. In questo caso l’esercizio del potere tende a rivestire un carattere più formale che in una tribù. Inoltre, l’autorità di un capo tende a non fondarsi più sul consenso esplicito della società, mentre le funzioni politiche tendono a trasformarsi in cariche più o meno stabili a carattere ereditario. La comparsa del potentato nelle società a struttura segmentaria corrisponde, per esempio, alla presenza di un lignaggio dominante, il cui “capo” si sente legittimato a esercitare un’autorità indiscussa. In questo modo viene introdotto un potere di coercizione effettivo sul resto della comunità.
Un potentato può costituire un nucleo politico intra-tribale o sovra-tribale. Nel prime caso, quando il potentato emerge in seno a una tribù, quest ultima perde quella coesione che le era invece caratteristica quando era costituita da segmenti autonomi ma pronti a unirsi in caso di minaccia esterna. Nel secondo caso, invece, il potentato può costituire una struttura che ingloba comunità segmentarle e non, tribali oppure fondate su altre forme di organizzazione, come per esempio le bande delle società acquisitive.
Società politicamente organizzate sulla base di potentati così costituiti erano, fino a meno di un secolo fa, presenti un po’ ovunque: in Polinesia come nell’Asia del Sud-Est, nell’Africa subsahariana come in Medio Oriente. Come tutte le strutture socio-politiche dei popoli investiti dalla colonizzazione europea, anche il potentato ha subito profonde modificazioni o è scomparso del tutto. Nell’America centrale e meridionale non esistono più potentati da molto tempo, mentre in Medio Oriente, nel Sud-Est asiatico, in Africa e in Polinesia il loro declino è più recente, o vivono una vita talvolta sommersa, ma il più delle volte trasformata e simbiotica con gli Stati nazionali. Ciò nel senso che i capi di queste strutture ottengono, dai governi centrali, il diritto di rappresentare la propria comunità, e quindi mantengono il proprio potere all’interno di quest’ultima.
Lo Stato è la forma di organizzazione politica oggi dominante. In quanto specifica forma di organizzazione politica, lo Stato possiede alcune caratteristiche peculiari, le principali delle quali sono:
1) un’autorità altamente centralizzata; 2) un apparato burocratico-amministrativo sviluppato; 3) la prerogativa esclusiva di emanare leggi; 4) il monopolio della forza come mezzo per far rispettare le leggi sul piano interno e come mezzo di confronto con entità ostili esterne.
Le società organizzate su base statuale presentano: a) un accesso alle risorse più marcato che nelle forme di organizzazione politica sin qui considerate; b) una stratificazione sociale accentuata; c) relazioni sociali regolate da rapporti di tipo impersonale, non da legami di parentela.
Tali relazioni possono svilupparsi all’interno di istituzioni religiose o territoriali, che hanno la funzione di integrare, come potevano essere la comunità dei credenti dello Stato musulmano delle origini o la polis greca. Nell’ambito delle società industriali si sviluppano invece all’interno di apparati e istituzioni come la burocrazia e il mercato.
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