Leggere i brani sottostanti, tratti da articoli e saggi di Alessandro de Giorgi, Loïc Wacquant, Robert Castel e Alessandro dal Lago e stendere lo schema di un tema di scienze umane che illustri:
1. La filosofia che ha sostenuto le politiche di sicurezza statunitensi della «tolleranza zero».
2. Le ragioni dell’aumento della popolazione carceraria e della composizione sociale del carcere a trent’anni di distanza dal discorso di Reagan.
3. Le ragioni della svolta punitiva e dell’equivalenza simbolica tra razza e criminalità.
4. Il rapporto tra il «moral panic» e la «democrazia punitiva».
5. Le ragioni della legittimazione sociale della svolta punitiva.
Servirsi del dizionario e di wikipedia per approfondire i concetti di “fordismo”, “neoliberismo”, “laissez-faire”, modello penale “three strike and you’re out”, politiche “bipartisan”.
Copiare poi le scalette nello spazio dedicato ai commenti.
Alessandro de Giorgi, La paura neoliberista e il governo penale della miseria
Il 14 ottobre 1982 Ronald Reagan teneva un importante discorso in cui illustrava la svolta punitiva alla base della nuova politica criminale della sua amministrazione:
«La crescita di una classe criminale senza scrupoli è stata in parte il risultato di una filosofia sociale sbagliata, che in modo utopico considera l’uomo come prodotto del suo ambiente, mentre la trasgressione è vista sempre come conseguenza di condizioni socio-economiche svantaggiate. Questa filosofia predica che dove si verifica un crimine è responsabile la società, non l’individuo. Ma il popolo americano sta finalmente riaffermando alcune verità indiscutibili: il bene e il male esistono, gli individui sono responsabili delle proprie azioni, il male è spesso frutto di una scelta, e la pena deve essere certa e immediata per chi si fa strada a danno degli innocenti».
A trent’anni da quella dichiarazione di guerra alla criminalità la popolazione carceraria degli Usa ha raggiunto la quota di 2,4 milioni di individui confinati in oltre 5000 istituti penali, per un tasso di incarcerazione di 756 soggetti per 100.000abitanti. Nel complesso 7,2 milioni di persone sono sottoposte a controllo penale: il 2,4% della popolazione. Sebbene trascurata dai media e dal dibattito politico, la situazione carceraria statunitense rappresenta una vera e propria emergenza sociale, risultato di quarant’anni di simbiosi tra liberismo economico e governo punitivo della povertà.
Le coordinate del neoliberismo punitivo si erano delineate già all’inizio degli anni Settanta. Parallelamente alla ristrutturazione capitalistica che sanciva il superamento del sistema fordista keynesiano a favore di un modello di accumulazione flessibile, si registrava una crescita prima progressiva, poi verticale (soprattutto in coincidenza con la distruzione del welfare, realizzata in modo bipartisan tra gli anni Ottanta e Novanta) del sistema penale quale strumento di governo della marginalità urbana. Se fino ai primi anni Settanta i tassi d’incarcerazione statunitensi erano mediamente inferiori a quelli di altre democrazie occidentali, oggi gli Usa sono la prima democrazia punitiva del mondo.
La pluridecennale guerra alla criminalità e alla droga, che nell’agenda politica revanchista della destra americana ha sostituito la guerra alla povertà dichiarata da Johnson nel 1964, ha determinato la legittimazione di ogni eccesso penale in nome della difesa sociale contro le nuove «classi pericolose». Tra il 1977 e il 2007 negli Usa sono state eseguite 1099 condanne a morte, con una media di tre al mese. Sull’onda del panico morale [l’espressione “moral panic” è stata coniata in sociologia negli anni 1970 per identificare un allarme sociale creato ad arte amplificando fatti reali ed esagerandone il numero attraverso statistiche poco scientifiche e diffuse strumentalmente, nonché presentando come “nuovi” fatti e comportamenti in realtà già noti, NDR] suscitato da alcuni crimini eccellenti si sono moltiplicate pratiche penali di tipo autoritario e populista: la pena capitale anche per malati di mente; l’ergastolo anche per i minori; le leggi «Three Strikes» che prevedono l’ergastolo per chiunque commetta un terzo reato anche non grave; la reintroduzione dei lavori forzati in diversi stati del Sud; la pubblicazione dei dati personali e delle foto segnaletiche degli ex detenuti per reati sessuali.
Ma la rivoluzione punitiva si è estesa anche ad altri ambiti della vita sociale, investendo settori tradizionalmente estranei al sistema penale. Si pensi alla famigerata «riforma» del welfare attuata da Clinton nel 1996, che esclude dall’assistenza sanitaria, dall’edilizia popolare e dai sussidi di disoccupazione chiunque abbia riportato una condanna per reati di droga; o al fatto che i pochi poveri americani che ancora hanno accesso a qualche forma di assistenza sono sottoposti a forme di controllo stigmatizzanti e punitive – quali i test antidroga imposti in diversi Stati come condizione per l’accesso ai sussidi – che di fatto saldano l’assistenza sociale al sistema penale.È stato con queste politiche, volte a disciplinare una popolazione in maggioranza afro-americana e latina sempre più povera e resa superflua dalla ristrutturazione capitalistica, che nell’immaginario sociale americano si è costruita l’equivalenza simbolica tra razza, welfare e criminalità. Le statistiche mostrano che gli afro-americani costituiscono la maggioranza della popolazione carceraria degli Usa, pur rappresentando solo il 12% della popolazione. Un giovane afro-americano su tre di età compresa tra i 20 e i 29 anni è oggi sottoposto a controllo penale. Alle attuali condizioni, un ragazzino afro-americano nato nel 2001 ha il 32%di probabilità di finire in carcere durante la propria vita: un evento più probabile che non iscriversi all’università, arruolarsi nell’esercito o sposarsi.
Loïc Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, (2004)
Privi per lo più della possibilità di accedere a misure di sostegno del reddito e reintegrazione sociale, spesso malati o tossicodipendenti, il 70% dei detenuti americani torna in carcere entro i successivi tre anni, dando luogo a
«un vero e proprio sistema di riciclaggio dell’eccedenza umana prodotta da un modello sociale incardinato nella simbiosi tra laissez-faire economico [essenza della deregolazione e del primato dell’economico sul politico propria dell’ideologia del liberalismo economico] e populismo penale».
Ma,
«l’improvvisa proclamazione di uno ‘stato d’emergenza’ poliziesco e penale negli Stati Uniti e vent’anni dopo, secondo lo stesso schema, in Europa, non corrisponde a nessuna rottura dell’evoluzione della delinquenza che […] non è bruscamente aumentata né ha cambiato aspetto all’inizio dei periodi di interesse sull’una e l’altra sponda dell’Atlantico. […] Non è tanto la criminalità a essere cambiata, in questo caso, quanto lo sguardo rivolto dalla società su certe illegalità di strada – ossia sulle popolazioni diseredate e disonorate per situazione o per origine che ne sono probabilemnte resposanbili e sul posto che essere occupano nel contesto urbano – e l’uso che se ne fa in campo politico e mediatico.
Queste categorie di scarto – giovani disoccupati delle periferie degradate, mendicanti e senzatetto dei quartieri centrali, nomadi e tossicodipendenti alla deriva, immigrati di colore senza permesso di soggiorno e senza vincoli familiari, hanno impriovvisamente assunto rilevanza nello spazio pubblico, dove la loro presenza è divenuta indesiderabile e i loro comportamenti intollerabili, perché essere sono l’incarnazioen vivente e minacciosa dell’insicurezza sociale generalizzata prodotta dalla disgregazione del lavoro salariato stabile […] promosso a paradigma operativo nei decenni dell’espansione fordista (1945-1975)».
Robert Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti? (2003)
Sull’altro versante sociale, il discorso securitario inaugurato da Reagan è stato indirizzato a una classe media impoverita dalle crisi economiche e dalle politiche di riduzione delle protezioni sociali,
«frange della popolazione ormai convinte di essere state lasciate ai margini del percorso, incapaci di controllare il loro futuro in un mondo sempre più segnato dal cambiamento. [Strati di popolazione i cui valori] sono più rivolti al passato che a un avvenire che incute paura. Il risentimento non predispone né alla generosità, né alla capacità di rischiare. Esso induce un atteggiamento difensivo che rifiuta le novità, ma anche il pluralismo e le differenze. Nelle relazioni che intrattengono con gli altri gruppi sociali, queste categorie sacrificate, piuttosto che accogliere la diversità che tali gruppi rappresentano, cercano in essi dei capri espiatori capaci di spiegare la loro sensazione di abbandono.
Jonathan Simon, Il governo della paura
Nel suo libro Rischio e colpa, Mary Douglas sottolinea che una “cultura della non colpevolezza” rispetto alla questione criminale – approccio che l’assistenzialismo penale implicitamente sposa – è subordinata all’esistenza di un’efficace copertura assicurativa e di un corposo flusso di doni. Laddove le società a libero mercato tendono a ritenere gli individui responsabili per i danni da loro provocati, e permettono al rischio di ricadere su chi se ne assume la responsabilità, le culture che promuovono più solidarietà (quelle nelle quali gli individui sono vincolati all’interno di reti di fiducia e di mutuo aiuto) concordano che i danni siano assorbiti dal gruppo, e prevedono I’esistenza di una responsabilità collettiva.
Mary Douglas sostiene che una cultura che si fonda su meccanismi restituivi, anziché sull’imputazione della colpa о sull’irrogazione della pena, è espressione di una società all’interno della quale, nella maggior parte dei cai, le persone nutrono aspettative di tipo riparativo e vi fanno affidamento. Solo in presenza di un contesto che produce fiducia reciproca e sicurezza economica è possibile sostenere una “cultura della non colpevolezza”.
Alessandro dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale (1999)
Nel luglio del 1997, nelle stesse strade di Torino che hanno visto il raid dei naziskin [il 17 aprile 1997 una cinquantina di teste rasate ha aggredito un gruppo di immigrati che stazionava sui Murazzi del Po, ferendone gravemente alcuni] un giovane marocchino viene ucciso in circostanze atroci. Durante uno scontro con un gruppo di giovani italiani, Abdellah Doumi viene colpito e cade nel Po. Dalla riva i giovani italiani lo bersagliano con bottiglie di birra e altri oggetti (tra cui un aspirapolvere) per impedirgli di risalire. Il ragazzo annega.
Dicono che Abdellah Doumi abbai annaspato a lungo prima di affondare nell’acqua torbida del Po. Che pure non sapendo nuotare abbia disperatamente cercato di raggiungere l’argine ma che abbia dovuto arrendersi sotto la gragnuola di bottiglie, lattine e pezzi di legno che il gruppo di ragazzi gli lanciava ridendo.
L’avvocato dei quattro giovani responsabili dei fatti, negherà in Appello la volontà di uccidere, parlando di “gioco stupido”; il Dirigente della Sezione omicidi di Torino “della conclusione tragica di una lite tra ubriachi”.
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