Traggo da Le parole e le cose questa pregevole ricognizione del pensiero di Jameson e della periodizzazione legata al concetto di postmoderno. In coda, Tardo capitalismo e globalizzazione di Paolo Rabissi, uscito sul numero 5 di OverLeft.
Nel secondo dopoguerra, il marxismo ha occupato un ruolo importante nel campo della cultura politica europea, soprattutto in Italia, Germania e Francia. Ma è solo a partire dagli anni Sessanta che la sua influenza travalica gli argini tradizionali della sua trasmissione (partiti comunisti e socialisti; sindacati e dissidenze intellettuali) per radicarsi come stile di pensiero egemonico nell’inedita politicizzazione di massa del decennio ’68/’77. Tutto cambia però, e molto rapidamente, con la fine degli anni Settanta: una serie di cause concomitanti (cito in ordine sparso: la sconfitta politica del lavoro, l’esasperazione dei conflitti sociali, l’uso della forza militare dello Stato conto i movimenti, una profonda ristrutturazione economica, la rivoluzione cibernetica, il nuovo dominio della finanza anglo-americana) modifica non solo l’orizzonte politico comune, ma, in profondità, le forme elementari della vita quotidiana. In pochi anni, tutta una serie di nodi teorici (giustizia sociale, conflitto di classe, redistribuzione di ricchezza, industria culturale, egemonia etc…) escono di fatto dal dominio del pensabile; e in questa mutazione occidentale il marxismo, come forma plausibile dell’agire politico di massa, semplicemente scompare. Sopravviverà contro se stesso come teoria pura, protetta in alcune riviste internazionali prestigiose (New Left Review; Monthly Review; Le Monde Diplomatique), in un eccentrico quotidiano italiano (Il Manifesto) e in alcuni i fortilizi accademici minoritari, per lo più americani (come per esempio Duke, CUNY e New School).
La maggior parte degli studi pubblicati in questo nuovo contesto sradicato e internazionale non riesce, come è ovvio, a superare il confine minoritario nel quale è imprigionato. E tuttavia esistono alcune eccezioni, come, per esempio, Postmodernism (1982-1991) di Jameson, Limits to Capital (1982) di Harvey, The Long Twentieth-Century (1994) di Arrighi. Pochi altri testi – forse soltanto Empire (2000) di Hardt e Negri, escluso da questo saggio anche perché la sua tesi di fondo, già a distanza di pochi anni, veniva smentita non dalla teoria, ma dalla storia – sono riusciti infatti ad attraversare il deserto politico di questi decenni conquistandosi, magari retrospettivamente, il ruolo di bussola teorica di questo nostro tempo disorientato. Prima di avvicinare questi lavori importanti, fondamentali per decifrare il capitalismo contemporaneo, sola una precisione: di questi tre autori – tutti e tre firme prestigiose della New Left Review – solo Jameson è americano; Harvey è britannico ed Arrighi italiano. Tuttavia, l’associazione non è impropria perché medesimo è il contesto nel quale hanno lavorato e pubblicato la gran parte dei loro studi.
Postmodernismo
Non è stato Fredric Jameson ad inventare il termine «postmodernismo»; e neppure Jean-François Lyotard, sebbene lo scelga come aggettivo per il titolo del suo pionieristico saggio pubblicato alla fine degli anni Settanta2. Tuttavia, è solo con il lavoro teorico di Jameson che la parola «postmoderno» diventa termine guida del dibattito teorico contemporaneo fino ad assumere la dignità di concetto storico periodizzante. Dopo la pubblicazione sulla «New Left Review» nel 1984 di Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism diventerà comune, infatti, pensare come postmoderna l’età contemporanea, qualificandola, con questo aggettivo, come
«età della fine del processo di modernizzazione».3
La discussione teorica, che lo scritto ha inaugurato, sul significato di questa trasformazione profonda della vita quotidiana nelle società occidentali, ha occupato il centro della teoria critica internazionale per almeno vent’anni. Non stupisce che Postmodernism sia stato subito tradotto in moltissime lingue, fra cui, già alla metà degli anni Ottanta, il cinese mandarino.
Professore di letterature comparate alla Duke University in North Carolina, Fredric Jameson può, senza problemi, essere considerato come l’importatore negli Stati Uniti del marxismo critico europeo. Allievo di Auerbach e di Marcuse, Jameson ha infatti incarnato, con tutti i pregi e i difetti del caso, e forse fuori tempo massimo, una figura un tempo tradizionale per la cultura europea, ma sicuramente eccentrica per quella americana: il critico letterario di formazione marxista. Con la differenza, però, che l’innesto di questa tradizione politica in un contesto asettico come quello dei campus americani – universi per lo più avulsi dal mondo reale ed estranei a qualsivoglia movimento sociale, organizzazione politica o sindacale – si è spesso trasformato in un esausto esercizio accademico. Anche nei saggi più riusciti di Jameson, come L’inconscio politico4 o lo stesso Postmodernismo, probabilmente i suoi due veri capolavori, è difficile non percepire il contesto da cui si originano. Tanto la forma confusa e debordante dell’argomentazione quanto l’accumulo bulimico di eterogenei materiali d’analisi potrebbero senza difficoltà essere letti come una freudiana formazione di compromesso. O forse, molto più probabilmente, come la stanca trascrizione crittografica di un sismografo che segnala ad estranei la presenza di un terremoto avvenuto altrove.
La prima stesura di Postmodernism risale ad un famoso intervento pubblico di Jameson tenutosi al Whitney Museum di New York nell’autunno del 1982. Il titolo anticipa già la sostanza dell’argomentazione: Postmodernism and Consumer Society. La rielaborazione sarà pubblicata in una prima versione nel 19835, e in una seconda, più estesa e parzialmente differente, l’anno successivo, con il titolo, negli anni divenuto celebre, di Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism. Tutti i lavori successivi approfondiscono spunti od intuizioni già presenti in questo primo saggio, davvero straordinario per condensazione di temi e proposte. Nel 1991 Jameson ha pubblicato in volume – ed è un libro ponderoso, di oltre 400 pagine – i suoi lavori più importanti sul tema, incluso, naturalmente, quel primo saggio apparso sulla «New Left Review» che ora dà il titolo e apre l’intera raccolta. Ed è questo il libro canonico per chiunque voglia iniziare ad occuparsi della “questione postmoderna”. Vediamo rapidamente come è costruito.
Il volume è diviso in due parti: la prima comprende nove capitoli e sono per lo più saggi già apparsi in rivista, e qui ripubblicati con aggiunte, modifiche, riletture, sistemazioni. La seconda, invece, è inedita e ha la forma di una laboriosa nota a margine, di un commento laterale alla prima sezione orientato verso alcune possibili linee di approfondimento. Non a caso, molti dei saggi pubblicati negli anni successivi – da Geopolitical Aesthetic: Cinema and Space in the World System (1992) fino al più recente Archaeology of the Future: the Desire Called Utopia and Other Science Fictions (2005) – saranno effettivamente la sistemazione compiuta di quelle proposte originarie. Nell’introduzione al volume Jameson descrive i quattro temi fondamentali della sua ricerca, così come si è sviluppata dal saggio originario del 1984: il problema dell’interpretazione dell’estetico, l’utopia come categoria necessaria del pensiero politico, le tracce della sopravvivenza del moderno, la “nostalgia” come ritorno del represso storico.
Le mosse teoriche di Jameson sono sostanzialmente due. La prima: il postmoderno è l’età storica del compimento del processo di modernizzazione:
«Il Postmoderno è quello che si ha quando il processo di modernizzazione è terminato e la natura è sparita per sempre»6.
Jameson è subito molto chiaro: il suo studio ha un intento periodizzante, non vuole proporre un nuovo paradigma epistemologico, come Lyotard (La condition postmoderne); né descrivere un nuovo stile architettonico, come Jencks (The Language of Post-modern Architecture, Rizzoli, New York 1977); né tantomeno articolare un nuovo progetto filosofico, come Habermas (Modernity – an Incomplete Project, in Aa.Vv., The Anti-Aestetic, cit., pp. 3-15). Il postmoderno, per Jameson, è, molto più semplicemente, una categoria storica. Descrive un’epoca caratterizzata, come chiaramente indica il prefisso “post”, dall’esaurimento del movimento moderno, dall’estenuarsi del suo processo di trasformazione sociale, economica e culturale. Il ragionamento che guida la sua periodizzazione si origina, ed è profondamente suggestionato, dalla lettura di Late Capitalism (Humanities Press, London 1975) di Ernest Mandel. Seguendo l’interpretazione dell’economista trotzkista tedesco, Jameson è persuaso che ci siano tre fondamentali discontinuità nello sviluppo tecnologico moderno a cui corrispondono, in modo più o meno coerente, tre diverse fasi dello sviluppo economico, sociale, estetico.
La prima, situabile a partire dalla seconda metà del Settecento in Inghilterra, ma operativa lungo tutto l’Ottocento nel resto d’Europa, riguarda l’invenzione dei motori a vapore. A questo primo salto tecnologico corrisponde un’intensa stagione di trasformazioni sociali, politiche ed economiche: sono questi gli anni della prima rivoluzione industriale e della rivoluzione politica americana e francese. Ma le trasformazioni naturalmente agiscono in profondità, trasformano il pensiero: è questa, infatti, l’età che pone, per la prima volta, il problema filosofico dell’emancipazione e della libertà individuale in un sistema post-cetuale, non comunitario; ma è anche l’età della catastrofe del sistema dei generi, se nel giro di pochi anni l’intero corpus letterario tradizionale si sfalda e il centro del campo estetico viene conquistato da due forme sostanzialmente nuove: la lirica moderna e il novel. Questa, nella periodizzazione di Jameson, ed è una lettura che corrobora le antiche intuizioni di Lukács, è “l’età del realismo”, l’età, fra gli altri, di Scott e di Balzac, di Hegel, di Beethoven e di Smith.
Dalla seconda metà dell’Ottocento diventa visibile, perché determinante, un nuovo poderoso salto tecnologico: l’invenzione dei motori elettrici, dei motori a scoppio, quindi lo sviluppo dell’industria chimica. Sono questi gli anni dell’invenzione del telegrafo e delle ferrovie. Successivamente, delle automobili, del telefono, della radio e degli aereoplani. Ognuna di queste invenzioni trasforma radicalmente l’uso e la percezione dello spazio e del tempo. Del resto, questo mondo progressivamente rimpicciolito è anche un mondo progressivamente conosciuto, conquistato, controllato e spartito: il 1881 è la data del congresso di Berlino. Poi verranno le guerre mondiali. Secondo Jameson, è solo a questo punto dello sviluppo del capitale che diventa avvertibile e tragico il contrasto fra il nuovo universo sociale e percettivo costruito e plasmato dalle macchine e tutto ciò che, pur coabitandovi, tuttavia riesce ancora a preservarsi, rimanendone al di fuori, segno antropomorfico millenario in un universo sempre più accelerato e non-umano. Di questa precisa contraddizione il modernismo è la soluzione simbolica. Che potenzi la forma come resistenza aristocratica ad un presente minaccioso (come, per esempio, in Flaubert, Proust o Mahler) o che viceversa esalti la modernità tecnologica attraverso strategie di luddismo estetico (e si pensi anche solo a Rimbaud, Marinetti, a Duchamp o a Beckett), quello che è comune alle due strategie è la percezione di essere in bilico fra due mondi, di percepirli, nel bene e nel male, ancora come differenti e antagonisti: Freud e Nietzsche, Einstein e Svevo, Keynes e Schönberg, Lenin e Le Corbusier, Ford e Ejzenstejn. Non è un caso, secondo Jameson, che proprio in questi anni diventino centrali due concetti estetici: il concetto di “stile” e il concetto di “genio”. Entrambi esprimono la possibilità della totalizzazione del differenziato anticipata nella forma – ed è compensazione simbolica di un’oggettiva dépossession du monde, che nessuna esperienza personale potrà ormai più colmare – oppure pretesa, rischiata, combattuta nella politica – ed è la storia tragica, quanto meno negli esiti, del movimento operaio e delle rivoluzioni comuniste mondiali. Il modernismo esprime la sostanza di questa tumultuosa età di lotta fra forze oppositive, tanto nella possibilità di un nuovo equilibrio fra mondo umano e sistema delle macchine; quanto, viceversa, nella possibilità oggettiva del suo annientamento: Auschwitz e Hiroshima.
Il terzo salto tecnologico è spinto dall’invenzione dei motori nucleari e dalla cibernetica, a partite dagli anni Quaranta del secolo scorso negli Stati Uniti; più o meno dall’inizio degli anni Sessanta nell’Europa occidentale. Quello che è fondamentale capire di questa nuova trasformazione è, secondo Jameson, l’inedita capacità meccanica di plasmare le forme elementari della percezione umana, di invadere, in poche parole, il dominio dell’estetica. Quindi, di elaborare, produrre ed esprimere cultura. Le nuove macchine, infatti, non producono oggetti, ma ri-producono il mondo. Sono depositi sconfinati e non-umani di linguaggio e di memoria. Della presenza, per quanto residuale, di un universo ancora pre-moderno cancellano la percezione, le tracce; e soprattutto la possibilità del ricordo. Si pensi anche solo a come sono stati trasformati la Natura e l’Inconscio, elementi ancora simbolicamente caricati e percepiti nelle età precedenti come irriducibili al processo di modernizzazione. Secondo Jameson se lo sviluppo dell’industria culturale colonizza il secondo, invadendo l’immaginazione, manipolando il desiderio, estetizzando le pulsioni, l’industrializzazione dell’agricoltura, l’impiego della chimica e delle biotecnologie genetiche per il suo sviluppo intensivo, trasforma definitivamente la prima, il suo uso, il suo controllo, la sua conoscenza. Di questo nuovo universo percettivo non antropomorfico il postmodernismo è la traduzione simbolica: dall’architettura di Las Vegas agli aeroporti internazionali, dalla pop art di Andy Warhol alla musica elettronica, dal movimento punk a quello new age. E, soprattutto, la video art che, insieme a design e architettura, occupa il centro del sistema estetico postmoderno. Per quanto il nuovo universo percettivo escluda a priori la possibilità dello stile, essendo l’età nella quale le macchine hanno conquistato il dominio dell’espressività, si possono ricordare almeno gli autori sui quali Jameson concentrerà il suo implacabile sguardo diagnostico: fra gli altri, David Lynch, Claude Simon, Frank Gehry, Robert Gober.
Come si vede, il ragionamento alla base di questa periodizzazione, tanto affascinante quanto discutibile, è di natura economico/tecnologica. Nella lettura di Jameson le trasformazioni tecnologiche sono sintomi, vettori periodizzanti di mutazioni molto più vaste. Il suo sguardo acrobatico si sofferma però solo sul loro impatto sociale e sensorio: marxianamente, è uno sguardo che non supera mai la soglia della sfera della circolazione. Lontanissima da quest’analisi l’idea che i salti tecnologici siano anche momenti di conflitto interni alla storia dell’uso capitalistico della scienza. E che quest’ultima, incorporata nello sviluppo delle macchine, produca un’innovazione per lo più comandata contro il lavoro vivo e quasi sempre trasformata in un’arma nella competizione infra-capitalistica.
Jameson preferisce adottare lo sguardo neutro e scettico dell’osservatore partecipante; scelta decisamente eccentrica, per un intellettuale che si autodefinisca marxista. La sua periodizzazione infatti descrive solo la storia della progressiva espansione del dominio delle macchine su tutte le dimensioni dell’esistenza umana fino a conquistare, nel postmoderno, le forme elementari della percezione. Quello che rivela, infatti, l’analisi dell’estetica contemporanea, non è altro che il formarsi di una nuova e precisa antropologia:
«il postmoderno deve essere visto come la produzione di persone postmoderne capaci di adattarsi ad un preciso e peculiare mondo socioeconomico»7.
Ed è questa la tesi che sostanzia il secondo movimento di fondo della sua impostazione. L’analisi dell’eterogeneo universo estetico postmoderno, dal celebre confronto fra Van Gogh e Andy Warhol sulla trasformazione e sul declino dello stile espressivo, all’analisi della “nostalgia” come forma estetica dell’impossibilità della narrazione storica in Ragtime di Doctorow o nel film Body Heat di Kasdan, fino all’interpretazione dell’organizzazione dello spazio del Westin Bonaventura Hotel di Portman in Downtown Los Angeles, serve a Jameson come verifica della tendenza. Il suo è uno sguardo diagnostico, l’uso dell’estetico è sempre sintomatologico. Per questa ragione l’analisi non è interessata ad esprimere giudizi di valore, ma al reperimento delle tracce, al riconoscimento degli indizi significativi. All’altezza di questo primo saggio, Jameson li raggruppa sotto tre costanti, correlate e interdipendenti: il declino della soggettività espressiva, l’implosione del tempo, l’equivalenza dello spazio. Sono tre lati di uno stesso triangolo: la forma generica della nuova antropologia plasmata dal sistema delle macchine.
1. L’articolo è stato pensato e discusso da entrambi gli autori; in particolare, Daniele Balicco ha curato l’introduzione e i capitoli su Jameson e su Arrighi; Pietro Bianchi è autore del capitolo su David Harvey.
2 F.Lyotard, La condition postmoderne: rapport sur le savoir, Minuit, Paris 1979; tr. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981
3 I due scritti fondamentali di Jameson sul postmodernismo sono: F. Jameson, Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism, Duke University Press, Durham, 1991 (tr.it Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007); Id, The Cultural Turn. Selected Writing on the Postmodern 1983-1998, Verso, London-New York 1998.
4 Id, Political Unconscious. Narrative as a Socially Simbolic Act, Cornell University Press, Ithaca 1981 (tr.it. L’inconscio politico. La narrativa come atto socialmente simbolico, Garzanti, Milano 1990).
5 F. Jameson, Postmodernism and Consumer Society, in Aa. Vv., The Anti-Aestetic. Essay on Postmodern Culture, a cura di H. Foster, Bay Press, Port Townsend 1983, pp. 111-125.
6 Id, Postmodernism, cit, p. IX.
7 Ibidem, p.XV.
Bibliografia
F. Jameson, Marxism and Form. Twentieth-Century Dialectical Theories of Literature, Princeton University Press, NJ 1971 (tr.it Marxismo e forma, Liguori, Napoli 1975).
Id, Political Unconscious. Narrative as a Socially Simbolic Act, Cornell University Press, Ithaca 1981 (tr.it. L’inconscio politico. La narrativa come atto socialmente simbolico, Garzanti, Milano 1990).
Id, Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism, Duke University Press, Durham, 1991 (tr.it Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007).
Id, Archaeologies of the Future. The Desire Called Utopia and Other Science Fictions, Verso, London 2005 (tr.it Il desiderio chiamato utopia, Feltrinelli, Milano 2007)
I.Buchanan, Fredric Jameson: live theory, Continuum, London-New York 2006.
M.Gatto, Marxismo culturale, Quodlibet, Macerata 2011.
Paolo Rabissi, Tardo capitalismo e globalizzazione
La postmodernità, afferma Jameson, non è altro che l’attuale fase storica del capitalismo, la terza, quella della globalizzazione. Quali le forme culturali e le strutture di questa fase? La logica culturale egemone è organizzata intorno ai due unici soggetti visibili, il mercato e i media. Con questa caratteristica fondamentale: che il mercato come luogo fisico tende gradualmente a scomparire a favore di una intima simbiosi tra mercato e media di cui è segno decisivo la tendenziale identificazione della merce con la sua immagine (cioè con il marchio o il logo). Caratteristica ulteriore è l’integrazione della produzione estetica nella produzione di merci in generale: la frenetica necessità di produrre assegna all’innovazione e alla sperimentazione estetiche una funzione sempre più essenziale. Jameson individua tre categorie estetiche che caratterizzano il postmoderno: la scomparsa della profondità, la scomparsa della storicità, la scomparsa dello stile individuale a favore dei gruppi.
Fredric Jameson (Cleveland, 14 aprile 1934) è un critico letterario e teorico politico statunitense. E’ conosciuto per le sue analisi sulle correnti culturali dell’età contemporanea: ha descritto il postmoderno come una spazializzazione della cultura sotto la pressione del capitalismo organizzato. Il libro più noto di Jameson è Il postmoderno: la logica culturale del tardo capitalismo, edito in Italia da Fazi. Lo studioso americano attualmente ricopre una cattedra di Letteratura e lingue romanze presso la Duke University, in North Carolina e sta attualmente completando un libro che dovrebbe intitolarsi Valences of the Dialectic (Valenze della dialettica) e che dovrebbe includere risposte critiche dello studioso a noti fautori del postmodernismo come Slavoj Zizek, Gilles Deleuze e altri.
Nonostante che postmodernismo sia un termine precocemente invecchiato, a noi sembra di poter affermare, insieme con Frederic Jameson, che non esiste tuttora un altro concetto cui il termine rimanda
‘capace di rappresentare le questioni dell’oggi in modo tanto efficace e vantaggioso’.
Per questo ci sembra importante richiamare ancora l’attenzione su questo autore e sul suo lavoro, ma anche sulla prefazione di pugno dell’autore per l’edizione italiana, nella quale si trova la risposta a un quesito che ci interessa da vicino: che relazione c’è o bisogna stabilire concettualmente tra postmodernismo e globalizzazione? L’autore scrive questa prefazione nel 2007 e getta un fascio di luce che serve a chiarire decine e decine delle pagine del testo vero e proprio come se, avvenuta una certa distanza temporale dai contenuti (il libro era uscito negli USA nel ’91), l’autore stesso abbia saputo con maggiore felicità di sintesi nominare le sue riflessioni.
La postmodernità, afferma Jameson, non è altro che l’attuale fase storica del capitalismo, la terza, quella della globalizzazione. Nella quale il capitalismo ha raggiunto la sua espressione più ‘pura’, in piena sintonia con le analisi di Karl Marx e di Ernest Mandel. Se la modernità, corrispondente alla fase imperialistica siglata da Lenin, è l’espressione di una modernizzazione incompiuta, la postmodernità è l’espressione di una modernizzazione e di una mercificazione molto più compiute.
Con il suo lavoro Jameson ci propone un quadro teorico, quello appunto della postmodernità, di quest’ultima e complessa fase del capitalismo. Di questo quadro teorico arco portante è la segnalazione da un lato delle fratture radicali tra le nostre esperienze di oggi e quelle della fase precedente del capitalismo, cioè quella del moderno, e dall’altro della continuità tra le strutture della globalizzazione e quelle appunto delle prime fasi del capitalismo analizzate da Marx.
L’identificazione tra postmodernità e globalizzazione lascia alle spalle diverse discussioni che a suo tempo il libro aveva suscitato. Così si esprime Jameson: “…rispetto ad allora [al ’91]
abbiamo scoperto che la globalizzazione è la postmodernità e viceversa, che si tratta cioè di due nomi diversi per descrivere esattamente lo stesso fenomeno storico e lo stesso periodo economico: uno sottolinea la sua espansione economica, l’approssimarsi a un mercato mondiale definitivo, l’altro mette a fuoco le strutture e le forme culturali nelle quali è giunta a esprimersi questa mutazione”.
Va aggiunto subito che l’attenzione di Jameson è sostanzialmente data alle forme culturali e alle loro strutture mentre quanto concerne i caratteri dell’espansione capitalistica e il suo mondializzarsi è dato per dimostrato e acquisito. Questo atteggiamento riguarda anche la lotta di classe e in particolare le soggettività rivoluzionarie: Jameson non le esclude affatto dalla teoria astratta ma in pratica non parla mai dei modi di produzione delle merci diciamo ‘tradizionali’, delle nuove forme di espropriazione e proletarizzazione in corso nelle aree cinesi, indiane e sudamericane, né fa cenno alla soggettività femminile anche se ne riserva qualcuno per gli studenti in un repéchage di evidente matrice althusseriana. Insomma problemi politici e prassi sembrano spariti e l’unica forte dimensione critica del presente sembra restare la condivisibilissima critica della merce (in buona sostanza di origine francofortese) quella cioè secondo la quale la merce appunto ha invaso la coscienza nonché la sfera inconscia dell’esistenza umana.
Nel capitolo intitolato “Elaborazioni secondarie” Jameson fa un paio di osservazioni che ci sembrano cruciali per la lettura del presente. Egli rifiuta la critica che il suo postmodernismo sia una categoria specificamente culturale e sostiene al contrario che essa è concepita per dare un nome a ‘un modo di produzione’ dentro il quale la produzione culturale trova uno specifico (e decisivo) spazio funzionale. Jameson rimanda alle riflessioni, presenti nel suo testo, sulle ideologie dominanti nella postmodernità. In esse in effetti, e nella fattispecie nelle considerazioni riguardanti l’ideologia del mercato, Jameson innesta una delle tesi che tuttora fanno discutere, quella secondo cui tutte le ideologie, comprese quelle delle classi dominanti, hanno un carattere utopico.
Jameson in sostanza ci conferma che l’idea stessa del mercato libero è fallimentare e dunque utopica e anzi ribadisce che in tempi di oligopolio e di multinazionali non esiste alcun libero mercato e che se è vero che le destre non smettono di denunciare la illiberale intrusione dello stato nell’economia è anche vero che, negli USA in particolare, l’estensione del consumismo e della sua ideologia ha cominciato a diffondere un certo nervosismo rispetto al successo con cui appunto l’America consumista ha sopraffatto l’etica protestante
“…ed è stata capace di gettarne al vento i risparmi e i profitti futuri esercitando la propria nuova natura, nella veste dell’acquirente professionale a tempo pieno… Non esiste un mercato fiorente e attivo la cui clientela sia fatta di calvinisti e di tradizionalisti operosi che conoscono il valore del dollaro’.
Viene da riflettere, aggiungiamo noi, persino su una parte dell’elettorato di Obama. In ogni caso, conclude Jameson, nelle condizioni odierne la soluzione del mercato è utopica quanto la trasformazione in senso socialista dei paesi a capitalismo avanzato.
Il cuore dunque dell’indagine di Jameson è un altro, sta nell’analisi della ‘logica culturale del tardo-capitalismo’. Questa logica culturale è organizzata intorno ai due unici soggetti visibili, il mercato di cui abbiamo detto e i media. Con questa caratteristica fondamentale: che il mercato come luogo fisico tende gradualmente a scomparire a favore di una intima simbiosi tra mercato e media di cui è segno decisivo la tendenziale identificazione della merce con la sua immagine (cioè con il marchio o il logo).
A Jameson non sfugge la necessità della periodizzazione storica di quanto si viene poi a unificare nel suo quadro teorico. L’analisi parte da questa constatazione: c’è stata una frattura a tutti i livelli nell’Occidente che coincide con la fine del movimento moderno e che risale agli anni cinquanta. Espressionismo astratto in pittura, esistenzialismo in filosofia, il film d’autore, la scuola poetica modernista (come istituzionalizzata da Wallace Stevens) sono le ultime manifestazioni tardomoderniste, dopodiché si apre lo spazio per un caotico ed eterogeneo moltiplicarsi di manifestazioni: Andy Warhol e la pop art, l’iperrealismo, John Cage, il punk, la new wave con la punta avanzata dei Rolling Stones e dei Beatles, Godard, il video e il cinema sperimentali, il nouveau roman francese .. Per pagine e pagine Jameson ci accompagna col suo catalogo dentro praticamente tutto quello che abbiamo visto, sentito e patito dagli anni 50 in poi. E’ una sorta di promemoria sul passaggio ad un’età nella quale domina l’indifferenziato e tutto sembra contemporaneamente alla fine e paradossalmente all’inizio di qualcosa.
Caratteristica fondamentale di tutti questi fenomeni postmoderni è la cancellazione del confine (proprio del modernismo avanzato) tra la cultura alta e la cosiddetta cultura di massa. Il presente si presta a una proliferazione di definizioni ora come società dei consumi, ora come società dei media, ora come società dell’informazione, società elettronica ecc., tutte definizioni che in qualche modo vogliono dimostrare che le nuove formazioni sociali non obbediscono più alle leggi del capitalismo classico cioè al primato della produzione industriale e all’onnipresenza della lotta di classe.
Caratteristica ulteriore e coerente del postmodernismo è l’integrazione della produzione estetica nella produzione di merci in generale: afferma Jameson:
“…la frenetica necessità economica di produrre nuove linee di beni dall’aspetto sempre più inconsueto, dal vestiario agli aeroplani, assegna all’innovazione e alla sperimentazione estetiche una funzione e una posizione strutturali sempre più essenziali”.
A voler dare sinteticamente conto degli aspetti più profondamente costitutivi dell’analisi di Jameson, diremo che egli la concentra su almeno tre categorie estetiche fondanti l’età:
a) scomparsa della profondità: se le scarpe del contadino raffigurate da Van Gogh richiedevano un atto interpretativo, le scarpe da ballerina di Warhol – assunte come simbolo dell’arte postmoderna – restano superficiali e misteriose, “non ci parlano affatto” e si configurano come “oggetti morti” e feticisti.
b) Scomparsa della storicità: nel nostro tempo la memoria si è indebolita e i grandi memorialisti sono una specie estinta. Insieme a tutte le altre forme di autorità e legittimità l’autorità dei morti si riduce a un ritmo vertiginoso.
c) Scomparsa dello stile individuale a favore dei gruppi. E siccome l’ideologia dei gruppi viene alla luce in contemporanea con la celebre ‘morte del soggetto’ i gruppi per definizione non possono essere soggetti. I soli soggetti visibili sono i media e il mercato.
Sull’identificazione tra media e mercato Jameson scrive le pagine più significative. I prodotti venduti sul mercato, afferma l’autore, sono diventati il vero contenuto dell’immagine mediatica, tanto che, per così dire, in entrambi i campi sembra mantenersi lo stesso referente: “… Oggi i prodotti si diffondono, per così dire, in tutto lo spazio e il tempo dei settori dell’intrattenimento (o addirittura dell’informazione), come parte di quel contenu¬to, al punto che in alcuni casi ben pubblicizzati (specialmente nella serie Dynasty) talvolta non è chiaro quando finisce il segmento narrativo e co¬mincia la pubblicità (dal momento che gli stessi attori compaiono anche nel messaggio pubblicitario).”
I prodotti inoltre formano una sorta di gerarchia al cui vertice sta non tanto il prodotto in sé quanto le nuove tecnologie dell’informazione e l’informatica stessa che caratterizzano la terza fase del capitalismo. In questo senso, afferma l’autore, occorre: “… postulare un altro tipo di consumo: il con¬sumo dello stesso processo di consumo, al di là del contenuto e dei pro¬dotti commerciali immediati. E’ necessario parlare di una sorta di bonus tecnologico del piacere offerto dalle nuove macchine e, per così dire, simbolicamente rimesso in atto e divorato a livello rituale a ogni seduta del consumo mediatico ufficiale.”
Nella graduale scomparsa del mercato come luogo fisico e nella tendenziale identificazione della merce con la sua immagine (con il marchio o il logo) si compie un’intima simbiosi tra il merca¬to e i media. I confini si superano (in maniera profondamente tipica del postmoderno) e al posto della vecchia separazione tra cosa e concetto (o per meglio dire tra economia e cultura, base e sovrastruttura) prende progressivamente piede una indifferenziazione dei livelli. Si tratta di una circostanza molto diversa, afferma Jameson, dalla situa¬zione storicamente precedente (vissuta dalla generazione nata negli anni quaranta e cinquanta) nella quale a una serie di segnali informativi (notizie di cronaca, pagine culturali, articoli) si aggiungeva una postilla che pubblicizzava un prodotto commerciale irrelato. Oggi invece non sono i prodotti commerciali del mercato a diventare immagini nella pubblicità, ma, al contrario, sono gli stessi processi narrativi e di intrattenimento della televisione commerciale che a loro volta si reificano e si trasformano in altrettante merci: si va dal serial a episodi, con i suoi segmenti temporali e le sue interruzioni ‘dal carattere formulaico e rigido’, a ciò che le riprese della telecamera fanno allo spazio, al racconto, ai personaggi e alla moda. L’euforia retorica del postmodernismo che accompagna poi il consumo mediatico del consumo fa sì che i prodotti formino una specie di gerarchia
“…il cui apice è situato precisamente nella tecnologia della riproduzione, che si estende ormai ben oltre il classico televisore ed è arrivata in generale a incarnare la tecnologia dell’informazione e l’informatica della terza fase del capitalismo”.
La celebrazione dei processi di informatizzazione avanzata contribuisce del resto alla diffusione dell’idea della fine delle classi sociali, così come era avvenuto con la presenza del televisore nella case degli operai.
L’immagine che si fa realtà, i contenuti stessi dei media ormai mutati in merci, costituiscono dunque il nucleo concettuale dell’analisi di Jameson:
“… penso che vada teorizzata una profonda trasformazione della sfera pubblica: la nascita de1 nuovo ambito della realtà dell’immagine, che è al contempo immaginario (narrativo) e reale (anche i personaggi dei serial sono intesi come vere star dotate di un “nome” e di storie esterne che si possono leggere). Come la vecchia e classica “sfera della cultura”, tale ambito diviene ormai semiautonomo e sta sospeso al di sopra della realtà, però con una fondamentale differenza storica; nel periodo classico la realtà persisteva indipendentemente da quella “sfera culturale” sentimentale e romantica, mentre adesso sembra avere perduto quel modo di esistere separato. Oggi la cultura ha un tale impatto sulla realtà al punto che rende problematica qualunque forma indipendente o, per così dire, non o extraculturale (in virtù di una specie di principio di Heisenberg della cultura di massa che si frappone tra l’occhio e la cosa in sé). E alla fine i teorici uniscono le loro voci nella nuova doxa, secondo cui il “referente” non esiste più”.
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