David Harvey, Rebel cities: From the Right to the City to the Urban Revolution

by gabriella

Dalla Parigi del 1871 alla Praga del 1968 al Cairo nel 2011, per finire con le vie di New York, le città sono da lungo tempo il terreno di coltura dei movimenti radicali. Nel corso del tempo le proteste urbane nascono da una infinità di spunti diversi, dalla disoccupazione alla fame, alla privatizzazione alla corruzione. Ma c’entra forse anche la stessa geografia delle città? Una questione particolarmente accesa questa settimana, mentre il movimento Occupy si prepara a una serie di grandi manifestazioni in tante città del paese per il Primo Maggio.

Il geografo e sociologo David Harvey, professore di antropologia al Graduate Center della City University di New York, uno dei venti studiosi in campo umanistico più citati di tutti i tempi, ha passato un’intera vita a studiare il modo in cui si organizzano le città, e poi cosa vi accade. Il suo nuovo libro Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution, esamina in profondità gli effetti delle politiche finanziarie liberiste sulla vita urbana, il paralizzante debito dei ceti medi e a basso reddito d’America, la devastazione dello spazio pubblico per tutti i cittadini operata da uno sviluppo sfuggito al controllo.

A partire dalla domanda: Come organizziamo una città? Harvey esplora l’attuale crisi del credito e le sue radici nella crescita urbana, e come questo processo abbia di fatto reso praticamente impossibile qualunque azione politica nelle città per gli ultimi vent’anni. Harvey si propone come esponente di punta del movimento per il “diritto alla città”, l’idea secondo la quale il cittadino deve poter intervenire sui modi in cui le città crescono e sono strutturate. A partire dalla Comune di Parigi del 1871, quando la cittadinanza rovesciò l’aristocrazia prendendo il potere, Harvey ricostruisce i modi in cui le città si sono riorganizzate, e come potrebbero farlo, per diventare più inclusive e giuste. Abbiamo incontrato Harvey per parlare di Occupy Wall Street, della distruzione operata da Bloomberg nelle trasformazioni di New York City, su come si possa ripensare la città più vicina a come la vorremmo. Lei parla del “diritto alla città” come di uno slogan vuoto. Cosa intende?
Il diritto alla città può rivendicarlo chiunque. Anche Bloomberg ha diritto alla città. Però ci sono varie fazioni, con diverse capacità di esercitarlo. Quando parlo del diritto di ripensare la città più vicina a come la vorremmo, e a cosa invece abbiamo visto qui a New York City negli ultimi 20-30 anni, si tratta di come la vorrebbero i ricchi. Negli anni ’70 pesava molto la famiglia Rockefeller per esempio. Oggi c’è gente come Bloomberg, che sostanzialmente trasforma la città nel modo che più si adatta a sé e ai propri affari. Ma la gran massa della popolazione praticamente non conta nulla in tutto questo. In città c’è quasi un milione di persone che tenta di farcela con diecimila dollari l’anno. E che influenza hanno sul modo in cui si trasforma la città? Nessuna.

Il mio interesse principale sulla questione del diritto alla città non è tanto di affermare che esista una specie di diritto etico, ma qualcosa per cui lottare. Il diritto di chi? Per che tipo di città? Penso a quel milione di persone con meno di diecimila dollari l’anno, che dovrebbero pesare almeno tanto quanto l’1% che sta al vertice. Lo definisco un significante vuoto, perché ci deve essere qualcuno che arriva e dice, “È il mio diritto che conta, non il tuo”. Comporta sempre un conflitto.

Dagli anni ’80 assistiamo in tutto il mondo all’ondata della privatizzazione di tutto quanto un tempo era pubblico (scuole, ferrovie, acqua). Come ne è stato influenzato il movimento fra i ceti a basso reddito delle città?

In un modo che è una delle domande poste dal libro: Perché non abbiamo fatto nulla? Perché non c’è stato un nostro’68? Perché non ci sono state più proteste, visto l’immenso accrescersi delle diseguaglianze in tante città degli Usa, oltre che de resto del mondo? Oggi stiamo cominciando a vederne alcune, di risposte, in Occupy Wall Street, e anche altrove nel mondo segnali più vistosi. In Cile gli studenti occupano le università, come avevamo visto negli anni ’60 contro le diseguaglianze di allora.

E non capisco in realtà perché non ce ne siano state di più, di proteste. Credo dipenda dall’incredibile potere del denaro di condizionare gli apparati di repressione. E credo che ci troviamo in una situazione piuttosto pericolosa, perché è possibile che qualunque forma di ribellione possa essere considerate alla stregua del terrorismo, nella scia degli apparati post-11 settembre. Abbiamo visto in casi come la piazza Tahrir Square e altri, con eco anche in Wisconsin l’anno scorso, segnali di resistenza che iniziano ad emergere. C’è qualche parallelo con ciò che avvenne negli anni ‘30. Col crollo del mercato azionario del 1929, le vere proteste poi sono iniziate verso il 1933, ed è emerso un movimento di massa. Potremmo essere ora in quella fase, dato che la depressione, o recessione, chiamiamola come vogliamo, non è certo finita, continuano ad esserci tantissimi disoccupati, gente che perde la casa, i diritti, e si comincia a capire che non si tratta di cosa di un momento. È una situazione permanente. Quindi credo che vedremo più inquietudini di massa da ora in poi. Non è più come nel 1987, quando dal crollo se ne è usciti nel giro di un paio d’anni. In questo paese non è più così.

C’è una differenza, fra lo scoppio di rabbia spontanea, priva di obiettivi politici, e la risposta più meditata che vediamo nel movimento Occupy Wall Street. C’è un messaggio che vuole comunicare, che introduce programmaticamente la diseguaglianza sociale, credo che si farà molto. Almeno il Partito Democratico ne sta discutendo, cosa che un anno fa non succedeva. Non se ne parlava proprio. Adesso invece sì, ed è una cosa che filtra anche nella campagna di Obama, una inclusione di questi messaggi.

Perché è tanto importante la Comune di Parigi del 1871 per i movimenti di oggi?

Per due ragioni: la prima è che si tratta di una delle più grandi ribellioni della storia. E di per sé merita studio e discussione. L’altra è che appartiene alle idee che stanno nel pantheon del pensiero di sinistra. Molto interessante che sia Marx e Engels che Lenin o Trotsky tutti considerassero la Comune di Parigi come esempio da cui imparare e in qualche misura seguire, come a Pietroburgo nel 1905 o anche nel corso della Rivoluzione Russa successiva. Si tratta di porsi delle domande e imparare.

In che modo l’urbanizzazione liberista ha distrutto la città in quanto spazio pubblico abitabile, luogo di politica e società?
Senza farci un’immagine romantica di ciò che la città era negli anni ’20 e ’30, si trattava senz’altro di una concentrazione compatta di popolazione, governata da un apparato politico: potere concentrato ed efficace. Col tempo ci siamo dispersi nella suburbanizzazione, abbiamo spalmato la città. Si è disperso anche sempre più quello che si chiama “ghetto”, le zone a bassi reddito non sono più concentrate a sufficienza da potersi organizzare in quanto tali. Salvo in alcune occasioni, per esempio a Los Angeles col caso di Rodney King.

Credo che la dispersione della città, la crescita per sobborghi, la costruzione delle gated communities, frammenti la possibilità di un’esistenza politica con qualche coerenza, l’idea di un progetto politico comune. Ci sono tante politiche del tipo Non nel Mio Cortile. Non si vuole abitare vicino a che appare diverso, non si vogliono gli immigrati, da un punto di vista sociale cambiano le cose. Ho sempre ritenuto che il tipo di soggettività costruito dal suburbio, dalla gated community, sia una soggettività frammentata in cui nessuno coglie il totale come nella città, il tema complessivo dei processi a cui rivolgersi. Si pensa solo al proprio segmento del tutto. Credo che obiettivo della politica sia di ricostruire un corpo di città sulle rovine del processo di capitalizzazione.

Come è possibile trasformare lo spazio pubblico in qualcosa di più accessibile?
Vediamola in termini semplici: a New York di spazio pubblico ce n’è tanto, ma poco in cui si possa sviluppare una attività collettiva. La democrazia ateniese aveva l’agorà. Ma a New York City dove potremmo andare a cercare un agorà, dove si discute davvero. Ecco di cosa stavano parlando davvero le persone che si riunivano a Zuccotti Park. Costruivano uno spazio per sviluppare dialogo politico. Dobbiamo prendere gli spazi pubblici, che come si scopre pubblici non sono affatto, e trasformarli in un luogo politico, dove prendere decisioni, dove stabilire se è davvero una buona idea costruire ancora, qualche nuovo gruppo di condomini. Attraversavo l’altro giorno il parco a Union Square, ad esempio, dove c’era dello spazio, ma ci hanno messo delle aiuole: i tulipani hanno un loro luogo, e noi no. Oggi lo spazio pubblico è totalmente controllato dal potere politico, al punto che non è più un bene comune.

Le scelte amministrative di Bloomberg sono state descritte come “Trasformare la città come faceva Moses ma pensando sempre a Jane Jacobs”. [Robert Moses ricostruì spietatamente New York City per mezzo secolo, spesso devastando quartieri per farci passare arterie veloci verso la periferia. Jane Jacobs, scrittrice e sua principale oppositrice, contribuì a salvare il Greenwich Village da una di queste autostrade] Come è possibile riconciliarli?
La città razionalista e modernizzatrice è stata qualcosa di spietato. L’amministrazione Bloomberg ha lanciato forse più megaprogetti di Moses negli anni ‘60, ma cercando di riverniciarli di interesse pubblico, esteriormente in stile Jane Jacobs. Mascherando la natura dei grandi progetti. C’è anche una patina ambientalista. Bloomberg è, in parte in buona fede, amico dell’ambiente. Contentissimo se si realizzano trasformazioni verdi. Trasforma tutte le strade per farle diventare spazi “amichevoli” per ciclisti: salvo che quei ciclisti poi non ci si radunino in massa. Questo non gli piacerebbe affatto.

Crede che sia in crescita il movimento contro gli aspetti della città liberista?

La cosa che colpisce di più è che se guardiamo a una ipotetica carta mondiale di chi è contro alcuni aspetti di ciò che fa il capitalismo, vediamo una massa di proteste enorme. Ma si tratta di una cosa molto frammentata. Ad esempio, oggi parliamo del debito contratto dagli studenti. Domani potrebbe essere il turno dei pignoramenti, o una protesta perché si chiudono ospedali, o su cosa succede nell’istruzione pubblica. La difficoltà è trovare un modo per collegare il tutto. Ci sono dei tentativi, come The Right to the City Alliance, o Excluded Workers Congress, ciò vuol dire che si riflette su come unirsi, ma siamo ancora alle fasi iniziali. Se funziona, avremo una enorme massa di persone interessate a cambiare il sistema, sin dalle radici, perché oggi non risponde ai bisogni e ai desideri di nessuno.

Occupy Wall Street appare come una convergenza su alcune delle cose di cui ci ha parlato, ma manca ancora qualcuno in grado di unire. Perché la sinistra resiste così tanto all’idea di leadership, di gerarchia?

Credo che a sinistra ci sia sempre stato un problema, un feticismo dell’organizzazione, l’idea che basti a un certo progetto un certo tipo di struttura. Ha funzionato nel progetto comunista, dove si è seguito il modello del centralismo democratico, da cui non ci si allontanava. Aveva dei punti di forza, e altri di debolezza. Oggi vediamo molte componenti della sinistra resistere a qualunque forma di gerarchia. Si ribadisce che tutto debba restare orizzontale, democratico, aperto. Ma in realtà non lo è.

Occupy Wall Street funziona come un’avanguardia [un partito politico alla testa di un movimento]. Dicono di no, ma lo sono. Parlano del 99% ma non sono il 99%: si rivolgono al 99%. Ci deve essere molta più flessibilità a sinistra nel costruire vari tipi di organizzazione. Mi ha molto colpito il modello usato a El Alto in Bolivia, in cui si mescolavano strutture orizzontali e verticali, a costruire una forte organizzazione politica. Credo che sia meglio allontanarsi al più presto da certe forme di discussione. Quelle in voga oggi andranno benissimo per piccoli gruppi, che si riuniscono in assemblea. Ma non si può certo riunire in assemblea tutta la popolazione di New York City. E poi pensare alle strutture regionali ecc.. In realtà Occupy Wall Street un comitato di coordinamento ce l’ha. Ma esitano a prendere la testa dell’organizzazione.

Credo che per riuscire i movimenti debbano mescolare struttura orizzontale e verticale e gerarchia. Quella migliore l’ho vista negli studenti cileni, con una giovane comunista [Camila Vallejo], molto aperta alla struttura orizzontale anziché al comitato centrale che decide le cose. Però quando ci vuole la leadership la si deve usare. Iniziando a ragionare in questi termini avremo una sinistra più flessibile ma organizzata. Dentro a Occupy ci sono gruppi che cercano di trascinare gente del Partito Democratico a sostenere i propri temi, minacciando di candidarsi al loro posto se non lo fanno. Non è la maggioranza, a fare queste cose, ma esistono.

Alla fine del libro non si hanno molte risposte, ma si indica la necessità di aprire un dialogo per uscire da vistose diseguaglianze e dalle continue crisi del capitalismo. Vede segnali del genere in Occupy?
È possibile. Se il movimento sindacale si sposta verso forme di organizzazione più territoriali, non solo basate sui luoghi di lavoro, allora l’alleanza coi movimenti sociali urbani sarà molto più forte. La cosa interessante è che questo genere di collaborazioni ha una storia di successi. Credo sia possibile piantare un seme, e innescare una grande trasformazione. Se Occupy Wall Street vede questa possibilità si aprono molte prospettive. Il mio libro è anche la base per esaminare queste possibilità, non ne va esclusa nessuna perché non sappiamo quale sia la migliore. Però esiste un enorme spazio per l’attività politica.

Tratto da: http://eddyburg.it/article/articleview/18932/0/131/

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